martedì 30 giugno 2009

Vizi e virtù tra privato e scena pubblica

di Bia Sarasini da: Donnealtri del 25 giugno scorso

Bisognerebbe amare la verità. Forse allora si uscirebbe dall’impasto di disgusto, voyeurismo, impotenza a cui ci consegnano le vicende del nostro Presidente del Consiglio da quando sua moglie Miriam Bartolini in arte Veronica Lario con generosità ha deciso che le sue private vicende di moglie umiliata erano una vicenda pubblica, riguardavano l’intero paese.Bisognerebbe dirsi con franchezza quello che ci si confida nei salotti come nelle palestre e nelle beauty farm, che con “una che per trent’anni è stata la moglie di quello lì” non siamo in debito di nulla, tantomeno dello svelamento della scena impudica nella quale siamo immersi da tanto di quel tempo da non saperla neanche più vedere.

Peccato che questo obnubilamento iniziale, questo rigurgito misogino maschile quanto femminile verso una “che non ha gusto, non ha classe, non sappiamo chi sia, in fondo una che mette in piazza guai di famiglia” (espressioni che ricavo da una gran quantità di discussioni di questo mese) impedisca di trovare il bandolo di questa vicenda di cui, come cittadini e cittadine di questo paese, siamo forzatamente coinvolti.Così rimane in tutto il suo splendore solo l’altro polo del problema, il presidente puttaniere. «Quello che io preferisco» ha detto lui medesimo, Silvio papi, – era una battuta, naturalmente – come ricostruiva ieri Gianantonio Stella sul Corriere della Sera. E cosa si può fare, con un puttaniere? Innalzare l’alto richiamo del rigore morale? Invocare i valori della famiglia? Ma da parte di chi? La sinistra? I politici della sinistra?Forse solo i cattolici più autentici potrebbero trovare parole adatte per indicare le vie della virtù. Ma non solo vescovi e Vaticano sono reticenti. Di cattolici puttanieri, si sa, sono pieni le strade e i bordelli. Perché il problema del puttaniere è questo, che è un uomo comune. Così comune che il vizio di pagare le donne in Italia è condiviso da nove milioni di uomini. Forse la differenza con il presidente è solo nei “quantitativi”, secondo l’indimenticabile espressione di Niccolò Ghedini, che dice bene quello che è implicito in queste imbarcate di ragazze a venti alla volta. La quantità. Un elemento che sgomenta e aggiunge opacità a opacità, occulta la verità, sgradevole. Per esempio che avere liberato le pratiche sessuali, avere abolito la differenza tra donne perbene e donne permale, come insegnava Roberta Tatafiore, ha molte conseguenze, ma non ha reso meno vantaggioso e comodo per gli uomini comprarne i corpi. Ci sarebbe il problema della conquista, come dice lui stesso, Silvio B. rispondendo al direttore di “Chi” Alfonso Signorini che gli chiede se ha mai pagato una donna: «Naturalmente no. Non ho mai capito che soddisfazione ci sia se 
non c'è il piacere della conquista». Ma il denaro non è il migliore degli strumenti di conquista, quello che tacita ogni resistenza? E perfino Papi non potrebbe rivelarsi così fragile da credere alle sua stessa messa in scena della gentilezza, dei regali, del fascino dello smagliante sorriso di uomo di mondo?Quello che più sgomenta, nel guardare Silvio Berlusconi, è vedere il potere al lavoro. Vedere che non si basta mai, c’è sempre qualche altro territorio da annettersi. Sgomenta anche capire come lo spettacolo puro del potere nella sua intimità, senza filtro, ottunde e in un certo senso corrompe anche chi dal potere è distante. Non per caso i sovrani non avevano intimità, come ricordava qualche giorno fa Barbara Spinelli su “La Stampa”. Perché dello spettacolo del loro corpo esposto si nutriva il corpo simbolico della sovranità, come ha teorizzato Erst Kantorowicz a proposito del doppio corpo del sovrano, e in questo legame teneva avvinti i sudditi. Se il regno di Silvio Berlusconi è quello dell’apparenza, è nello schermo televisivo che tiene legati tutti, anche chi non lo sopporta, non è un caso che le veline più o meno diversamente pagate ne siano le officianti.Se fosse possibile guardare da distante, con la freddezza di un antropologo proveniente da un altro pianeta, sarebbe perfino divertente studiare l’uomo che ha voluto rendere vera l’apparenza su cui ha plasmato gli italiani e le italiane dagli schermi tv fin dagli anni Ottanta, dai tempi di “Drive In.Per questo solo la moglie, la donna che per vederlo come è ha dovuto andare oltre l’amore che la legava a lui, poteva dire la verità sul mago dell’incanto televisivo.Una verità difficile da accogliere, non solo per il presidente puttaniere. Prima di tutto perché l’ha detta una moglie, figura dallo statuto incerto nella modernità. Fastidiosa agli uomini perché porta in luce ciò che il patriarcato relega nell’oscurità. Fastidiosa alle donne, che forse troppo poco hanno pensato a chi è una moglie, nell’epoca della libertà femminile.Eppure il piccolo gesto di umiltà, virtù sempre necessaria per trovare la via della verità, di ascoltare con attenzione la voce di una moglie permette di afferrare l’indispensabile filo politico che porta fuori dal labirinto di immagini, finzioni, specchi che ci intrappola. Ci mostra il presidente quale è, scioglie le menti dei cittadini dalla presa del presidente puttaniere. E mentitore, come tutti i puttanieri, proprio per questo così difficili da smascherare, come sanno le donne che hanno la disgrazia di rimanerne catturate, loro hanno sempre in serbo un sorriso, una promessa tutta per te, faranno i bravi, proprio come Papi, che ora si rimette al lavoro. Ida Dominijanni, che in questo mese ha analizzato con costante lucidità questa vicenda sul Manifesto, a differenza di molte che vedono smarrito nell’impudicizia dominante il senso dell’autonomia femminile, ieri ha scritto che le veline vanno forse considerate come una perversione della post-emancipazione e del post-femminismo, piuttosto che come vittime sacrificali. È un rovesciamento importante. Ritengo che lo smarrimento diffuso tra donne, ma anche uomini, sia un effetto di quel pervertimento delle menti che pure si intende denunciare. Una forma di impotenza generata e coltivata da questo potere pervasivo, che vuole dominare i corpi attraverso l’invasione delle menti, come è successo nella terribile vicenda della legge sul fine vita. Occorre un salto, riconoscere che la politica è qui, nelle forme che prende la vita quotidiana. Comprendere che la flebile opposizione, la sinistra arrivata alla sua fine, non trova una strada, in effetti si smarrisce, perché si ostina a chiamare gossip fondamentali snodi tra potere, strutture sociali, relazioni tra donne e uomini. Ammettere che se non si ha nulla da dire su questo non si può neanche pensare una seria soluzione alla crisi economica, che richiede un ripensamento dei modi di vivere.Insomma, sarebbe il momento della presa di parola e di responsabilità dell’azione politica delle donne. Bisognerebbe crederci.
Bia Sarasini

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Ragazze immagine

di Ida Dominijanni dal Manifesto del 23.6.09
Distogliamo lo sguardo da Silvio Berlusconi e spostiamolo sulle giovani donne che hanno raccontato gli incontri a palazzo Graziosi e a Villa Certosa nell'inchiesta di Bari. Tutta questa storia aperta dalla denuncia di Veronica Lario sul «divertimento dell'imperatore» non ha niente di privato ed è tutta politica, stiamo sostenendo da più di un mese, perché porta alla luce un ganglio cruciale del sistema di potere e di consenso di Berlusconi e del berlusconismo. Ma sia il potere sia il consenso sono fatti relazionali: si fanno in due, chi dispone e chi obbedisce, chi propone e chi acconsente, sia pure in posizione dispari tra loro.

Dunque c'è il sistema di potere del premier imperniato su una certa politica del sesso e dei rapporti fra i sessi, e ci sono queste giovani donne che vi partecipano e ne consentono il funzionamento, anzi lo hanno consentito fino a un certo punto per poi disvelarlo. Ed è chiaro che, se lo scandalo investe prima di tutto il premier, l'interesse dovrebbe volgersi parimenti a loro, per quello che dicono e che non dicono della società a cui appartengono e dell'immaginario, dei sogni e dei progetti, dell'etica e dell'estetica di cui sono portatrici. E che, salvo liquidare difensivamente escort e ragazze-immagine come eccezioni rispetto alla norma e alla normalità femminile, ci interrogano e ci interpellano: quella società, quell'immaginario, quei sogni e quei progetti, quell'etica e quell'estetica dicono qualcosa a noi tutte.
Leggendo e rileggendo dichiarazioni e interviste di Patrizia D'Addario, Lucia Rossini e Barbara Montereale, e soprattutto guardando e riguardando l'intervista filmata a quest'ultima sul sito di Repubblica, dove il viso e il corpo dicono più della parola scritta, cinque cose impressionano soprattutto. La prima è la padronanza con cui si catalogano e si contrattano mansioni, prestazioni e compensi: tanto per questo, il doppio per quello, «non lavoro per la gloria, se vado a una cena ci vado per avere dei soldi», fare la ragazza-immagine è diverso che fare la escort ma anche per una escort «quello è il suo lavoro, ognuno ha il suo lavoro». Ora, è dagli anni 80 che il movimento per i diritti delle prostitute rivendica - senza convincermi, aggiungo - che fare sesso a pagamento, ovvero vendere il proprio corpo, è un lavoro come un altro, da negoziare come si fa con qualunque lavoro. Ma come siamo arrivati a rendere contabile e negoziabile qualsiasi prestazione del corpo, un sorriso, una presenza a cena, un ballo a una festa, un'impronta che fa immagine? Mansioni come altre, sembra di sentir parlare gli operai che negli anni 70 ti spiegavano la catena di montaggio. Quale cambiamento culturale ha reso il corpo, per queste donne, simile a una macchina, e alienato come una macchina?
La seconda cosa è l'ossessione dell'immagine: non è nel regno delle cose ma in quello della rappresentazione che la vita si svolge. Le ragazze arrivano a palazzo Grazioli, cenano e per prima cosa vanno in bagno a fotografarsi, registe di se stesse, e a immortalare l'evento. L'emozione si deposita in quella foto, non riguarda tanto l'aver varcato la soglia del palazzo del potere (anche se dell'evento «straordinario» si dà notizia all'una di notte per telefono alla mamma che a sua volta tace e acconsente), quanto il registrare di averlo fatto e il poterlo mostrare ad altri. Qui il cambiamento culturale si chiama ovviamente televisione, fine del confine fra realtà e rappresentazione eccetera eccetera. Ma colpisce ugualmente - terza cosa -, a fronte di questo peso dell'immagine, la derubricazione del potere politico in sé e per sé. Che «Silvio» (per Barbara) o «Papi» (per le altre ospiti ancora senza volto) sia casualmente il presidente del consiglio sembra essere tutto sommato un fatto relativo, e certamente non comporta alcun particolare cambio di registro o di galateo. Né alcun sospetto o alcuna cautela: quarta cosa, impressiona l'affidamento cieco all'uomo potente, come se il potere (maschile) avesse d'incanto perso ogni opacità e fosse diventato trasparente, credibile, anch'esso negoziabile (io resto a dormire con te, tu mi aiuti a fare il mio residence sulla costa). Certo aiuta, in questo, l'acclarata «affettuosità» dell'ospite, che tutte conquista, come se - quinta cosa che colpisce - ciascuna stentasse assai a trovarla altrove, e segnatamente in altri uomini: del resto, ci informa Barbara, lei fa la ragazza immagine solo perché non può fare quello che vorrebbe, cioè «la moglie e la madre». E perché è questo che passa il convento, cioè il mercato del lavoro. Ma sul suo viso non passa mai l'ombra del risentimento, né del vittimismo. A conferma che tutta questa storia non si sta giocando nel registro di una rinnovata oppressione patriarcale, ma in quello di una perversa forma di emancipazione femminile, postpatriarcale e postfemminista. Che è forse ciò che la rende così complessa da leggere, in Italia e all'estero.

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Vero o Falso? Le rilevazioni Istat secondo Tremonti

dalla newletter del 30 giugno 09 de: lavoce.info


Seguendo le definizioni ispirate dall’International Labour Office (Ilo) e recepite dai regolamenti comunitari, la rilevazione sulle forze di lavoro identifica come disoccupati le persone di almeno 15 anni senza lavoro, in cerca di un impiego, disponibili a lavorare e che hanno compiuto almeno un’azione attiva di ricerca nei trenta giorni che precedono l’intervista. È sufficiente non rispettare anche uno solo di questi requisiti per essere classificato tra gli inattivi.L’indagine sulle forze lavoro viene condotta su 280.000 famiglie per un totale di circa 680.000 individui, una rilevazione “ ampia e affidabile con un tasso di risposta tra i più elevati d’Europa: pari all’88 per cento”Per saperne di più sul campionamento e le tecniche di indagine.
A cura di Davide Baldi e Ludovico Poggi



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lunedì 29 giugno 2009

Mi pare che sia finita la politica di Ruini.

di Clelia Mori
Mi pare che sia finita la politica di Ruini.
O che stia finendo per luce riflessa. Comunque traballa. E quando trema vuol dire che sotto bolle qualcosa e che prima o poi accade del nuovo a meno che non si spenga il fuoco. Ma qui, accanto al fuoco è stata messa troppa legna e accatastata male perché il fuoco non possa propagarsi anche alla catasta.

Questo giocare tra politica e fede, con alle spalle la mantellina rossa ha fallito la scelta del personaggio e del luogo pubblico per innervarvi il credo cattolico. E’ stato un logorio lento, su cui lo sguardo ha preferito rimanere distratto a lungo ma alla fine i nodi sono arrivati al pettine grazie all’uomo prescelto da Ruini come affidabile.
I continui silenzi sui suoi comportamenti e i troppi veti agli uomini e alle donne senza potere, per uniformarli al dovere e non al piacere della religione, hanno liso la corda. E non è servito a irrobustirla nascondere sotto il tappeto l’assenza di desiderio di attrarre con gli esempi, i pensieri e la passione della fede. Una sola croce si intravede sulle spalle di questi raffinati prelati: d’oro e pietre preziose...
La scorciatoia di imporre con la legge la fede non si è rivelata una via più breve alla fede ma la solita politica da monarca cattolico, vecchia come il cucco, che ha già dato nei secoli dimostrazioni a iosa del suo potere fuorviante. Ma non sembra che il nostro clero, come già molti altri nel tempo, abbia voluto prenderne consapevolezza soprattutto ai piani alti, pur avendo gli strumenti storici a disposizione. Pur sapendo che l’imposizione non convince e che non c’è grande guadagno per Dio da questo tipo di atteggiamenti avendo Lui dato all’uomo il privilegio della libertà di scegliere. E pare che l’uomo se la tenga ben stretta la libertà e anche le donne così come la capacità di discernere per gestirla. Gli uomini e le donne non sono stati certo tentati dalla delega della loro libertà ai prelati. La parola interpretativa di Ruini non è riuscita ad essere una guida per arrivare a Lui, ha diviso i “credenti” di potere da quelli senza potere, le donne dagli uomini, e le ha ridotte a corpi contenenti senza identità desiderante e questo corpo vuoto da riempire ha uniformato di sé religione e potere politico e potere mediatico, trascinandovi fede e democrazia. Ha regredito l’identità maschile a un modello d’attore da terz’ordine, malato da pensiero fisso nella finzione del video e nella realtà.
Mettere nelle mani del potere temporale la fede, perché questa è stata la delega che Ruini ha traslato al potere civile, non è stato lungimirante per entrambi, ma soprattutto per Ruini. Ha rafforzato il senso di onnipotenza e la certezza dell’impunità per qualsiasi atteggiamento politico, pubblico e privato, anche se un pregio l’ha avuto: ha fatto emergere il valore indiscutibile del privato come garanzia o condanna del pubblico, anche se fino ad ora si pensava di poterlo tenere sotto traccia. Ma ha anche autorizzato ogni libertà nei potenti se stiamo ai loro comportamenti e ridotto la libertà delle altre e degli altri. Due libertà in contraddizione tra loro sono comparse sulla scena pubblica e religiosa, confondendone il senso. E’ difficile poter disporre della libertà in questo modo anche se si è alto prelato, e mantenerne il senso generale: uno dei due salta. Non la si può fare e disfare a piacimento neppure se si chiede alle fedeli e ai fedeli obbedienza quasi assoluta. Il sacramento della confessione sta scomparendo dai confessionali, le chiamate sacerdotali sono vistosamente diminuite, le chiese sono spesso vuote. L’8 per mille ha rimpinguato le casse del clero ma svuotato di passione la fede. La doppia libertà e la doppia morale sta presentando il conto e sta arrivando sul tavolo di Ruini ma anche su quello della Chiesa.
Il corpo vuoto delle donne, calpestato a fondo dal calcagno del clero che ha cercato in questo tutti gli accordi possibili, si è preso la sua rivincita sconfermando tutti: tv, chiesa e politica. Forse tutto questo vuoto che si è voluto vendere non c’è, e le donne lo sanno, è un’abile invenzione del potere civile e religioso che per questioni storiche è maschile… Duole dirlo ma è così. E la rivinciata non è neanche tale perché le donne, comunque intese, sono altro, pur vendendo parti del loro corpo. Alla fine non stanno nel posto dove si vuole metterle: mogli, amanti, veline o escort... Le donne come dice Alain Touren nel suo “Il mondo è delle donne” investono su se stesse. Oggi soprattutto. E’ l’invenzione del corpo vuoto femminile che non esiste, si è scambiato accoglienza all’uomo e alla vita per vuoto. Il vuoto è quello del non saper vedere il ruolo delle donne nella vita e quello maschile...
Non so se siamo al post femminismo e al post patriarcato, a cui credo di più, come dice Ida Dominijanni, di certo siamo in un luogo che le donne hanno curato affinché potessero prendere sempre più parola ed è accaduto anche nei rapporti di commercio del proprio corpo fino a scuotere ogni potere alla radice, persino il senso di sé degli uomini. Pur non condividendo né il commercio di troppe parti del corpo, maschile o femminile che sia, nè lo scambio di queste parti con favori politici perché non credo che da lì nasca la propria libertà.
E’ una materia troppo viva questo corpo femminile e ormai troppo sapiente di sé perché possa accettare ancora di stare per sempre dove lo vogliono mettere senza creare danni: alla storia, alla trazione, alla politica e alla chiesa che, magari, fa finta di non cogliere il nesso, ma dovrà misurarsi comunque coi risultati che il suo pensiero mondano ha prodotto. E non c’è vanto, basta guardarsi intorno, da difendere nell’aver fatto proliferare questa idea di vuoto femminile in ogni angolo della relazione umana nazionale…
E non serve chiedere una tregua come fa oggi il nostro presidente Napolitano in vista del G8, anche se lo capisco. I buoi sono scappati e non è colpa dei giornali se se ne parla e non si fodereranno gli occhi di prosciutto i leader dei G8 con la tregua. Ormai il nostro carisma per troppi silenzi è saltato, e la mano che ha avuto il coraggio di renderlo nudo, per poter ricominciare, è femminile.

Clelia Mori



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domenica 28 giugno 2009

Trasmissione USA su Berlusconi

Trasmissione americana su Berlusconi, a cura di paxside (in 5 spezzoni tratti da da you tube, con sottotitoli in italiano):

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venerdì 26 giugno 2009

"Basta lezioni di sesso a scuola" Diktat a Milano: troppo esplicite

di FRANCO VANNI, da Reppubblica on line
MILANO - La Asl vieta ai suoi operatori di fare educazione sessuale agli studenti sotto i sedici anni. Da ora potranno solo istruire mamme e insegnanti, a cui spetterà poi il compito di rispondere alle domande dei giovani. Una circolare, datata 18 giugno, cancella infatti gli incontri fra i ragazzi e gli esperti, chiamati da 30 anni a parlare alle classi senza la presenza dei professori.

Nel documento, la direzione dell'azienda sanitaria dispone che "non debbano essere ulteriormente svolte attività di educazione alla salute nelle istituzioni scolastiche che prevedano un rapporto diretto fra gli operatori e gli allievi delle scuole dell'obbligo". E nelle scuole scoppia la protesta, per una decisione considerata "bigotta e inspiegabile".

Una scuola media cittadina ha già scritto una lettera alla Asl in cui chiede spiegazioni, e almeno altri 11 istituti si preparano a farlo. Gli insegnanti sbottano: "Si vuole impedire che gli studenti sappiano troppo di profilattici, malattie e interruzione di gravidanza". I professori da settembre continueranno a proiettare filmati sulla crescita e a dare descrizioni anatomiche di pene, vagina ed embrione. In più, dovranno rispondere alle domande - solitamente molto dirette - che i ragazzi fino a oggi hanno rivolto agli operatori Asl, sempre in forma anonima, tramite questionari. Nel documento si precisa infatti che "i destinatari diretti dei nostri interventi sono gli adulti (insegnanti e genitori)" e non i giovani, che sono "destinatari indiretti". In pratica: l'operatore spiegherà alla professoressa o alla mamma come si mette un preservativo. La signora poi lo illustrerà al figlio sedicenne. "E' assurdo - dice un'insegnante che da anni segue l'educazione sessuale - l'attività funzionava perché c'era un contatto diretto fra ragazzi e operatori, e questo aiutava a superare l'imbarazzo".

La circolare disciplina pure le visite ai consultori. Anche in quel contesto, si legge, "non dovranno essere posti in essere momenti educativi diretti da parte degli operatori Asl", che dovranno quindi fare da guide e basta. La circolare arriva dopo la polemica innescata dal settimanale "Tempi", che il 5 maggio in un articolo titolato "Un innocuo sapore di fragola - il sesso chiedi e gusta spiegato ai ragazzini delle scuole medie", nel descrivere le visite di una terza media in consultorio parlava di un progetto "calato dall'alto dall'Asl locale" che instillerebbe nello studente "un senso di onnipotenza negativo per la sua crescita e per chi gli sta intorno". Detto fatto, progetto sparito. Per la cronaca: su 110 ragazzi che avevano partecipato all'incontro descritto da "Tempi", 103 si erano poi detti soddisfatti e per nulla imbarazzati.
(26 giugno 2009)

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giovedì 25 giugno 2009

I giovani in panchina 2

di ETTORE LIVINI, da Repubblica on line del 23.6.09
Le nostre università sfornano ogni anno laureati e ricercatori a 18 carati, contesi dalle migliori facoltà europeee mondiali. Il Campionato del Manchester United è stato deciso dai gol di un diciassettene romano, Federico Macheda, cresciuto negli allievi della Lazio. I manager made in Italy - da Sergio Marchionne al giovane Andrea Guerra di Luxottica- tengono alto la bandiera dell' imprenditoria tricolore in giro per il globo, mentre le banche d' affari anglosassoni si contendono analisti e investment banker del Belpaese. Eppure l' Italia, purtroppo, nonè un paese per giovani.


I rodatissimi (forse fin troppo) azzurri di Marcello Lippi - in clamorosa controtendenza anagrafica e di risultati rispetto alla Spagna campione d' Europa (età media 26 anni) e al Barcellona di Lionel Messi (22 anni domani) e del debuttante Pep Guardiola - sono solo la punta dell' iceberg. La panchina del Belpaese è lunghissima. E accanto ai vari Balotelli&C. - in attesa di un' occasione che sembra non arrivare mai- siedono centinaia di manager, ricercatori universitari, stilisti e politici under 40. Rei di essere nati in una nazione dove il merito conta mille volte meno di una raccomandazione, dove «un' elite sui generis - per dirla con il sociologo Nadio Delai - tutelai propri dirittia scapito delle nuove generazioni» e dove i "giovani talenti" non si formano più nelle aule universitarie ma - a colpi di televoto - a X-Factor e Amici. Certo non sempre giovane è bello. E l' esperienza è un valore importante. Ma le cifre anagrafiche fanno lo stesso impressione. La prima superpotenza al mondo - in un momento certo non facile - ha affidato il suo destino a un 47enne come Barack Obama. Che a sua volta ha consegnato le redini dell' economia Usa (in piena crisi) al coetaneo Timothy Geithner. Gente così in Italia giocherebbe nell' Under 21 parlamentare. Il 49,6% dei nostri leader politici ha più di 71anni, contro una media europea del 30%. Il discorso non cambia allargando l' obiettivo all' insieme della classe dirigente. Gli ultrasettantenni rappresentano oltre il 70% dei protagonisti della nostra economia, della cultura e dell' università, contro il 28% della Spagna e il 31% della Gran Bretagna. «In Italia (un po' come nella Nazionale di calcio, nd r) pesa il concetto di famiglia - sostiene Luigi Guiso, professore di economia alla European University Institute di Firenze - nel senso di una cerchia chiusa dove l' appartenenza pesa più delle capacità. E questo è il fattore che frena di più il ricambio». Prendiamo l' economia. «Il nostro sistema fa tanto per tener vive le imprese in crisi ma si dimentica di sostenere quelle che hanno potenzialità di crescita» dice Marco Cantamessa, presidente di I3P, l' incubatore del Politecnico di Torino che aiuta i giovani a trasformare in realtà aziendali le loro intuizioni. Un tessuto imprenditoriale fatto per il 95% di imprese familiari non contribuisce certo a valorizzare i meriti, pescando talenti dalla panchina. Nel paese dei bamboccioni, i padri tendono a girare il timone della società di casa ai figli, spesso invecchiati nell' attesa. E quando avviene il passaggio di consegne («tardi perché in una nazione che si regge sulle "relazioni" un 70enne vale molto più di un 30enne», dice Cantamessa), la redditività - calcola Banca d' Italia - cala in media del 2,4%. Peccato. Perché quando una dinastia ha il coraggio di fare un passo indietroe di far scendere in campo un manager promettente senza badare a stato di famiglia e carta d' identità - basta pensare alla Fiat di Sergio Marchionne - le cose vanno spesso molto meglio. Andrea Guerra, arrivato a poco più di 40 anni al vertice di Luxottica, ha fatto del gruppo dei Del Vecchio il numero uno al mondo degli occhiali. Bob Kunxe Concewitz, 42enne ad della Campari, ha trasformato una vecchia etichetta monomarca a controllo familiare nel sesto gruppo d' alcolici globale. «Le grandi aziende italiane, soprattutto quelle pubbliche, tendono ad affidarsi ai soliti noti anche quando nella loro vita professionale hanno fatto poco e male - dice Alessandro Cattani, ad della Esprinet - . I soci della mia azienda hanno deciso di puntare sui giovani e mi hanno affidato l' azienda quando avevo 36 anni». La società informatica così, non solo è sopravvissuta alla bolla internet, ma oggi - approdataa Piazza Affari- vale 300 milioni ed è il 60esimo gruppo italiano per fatturato. «Non bisogna essere pessimisti- dice Cattani - Di manager bravi che si costruiscono con le loro forze una buona carriera ce ne sono tanti. Il difficile è arrivare ai vertici reali del potere». In politica è lo stesso. Il ricambio è ingessato dalla cooptazione e dall' affiliazione (in questi giorni ne stiamo scoprendo nuovi e originalissimi canali). Certo, ogni tanto spuntano dal nulla una Debora Serracchiani o un Matteo Renzi che a suon di preferenze, senza tv e apparati alle spalle, scuotono i delicati equilibri della gerontocrazia dei palazzi romani. E la Lega, grazie a una nuova ondata di amministratori locali poco più che 30enni, è (forse non a caso) uno dei partiti di maggior successo sul territorio. Ma - almeno per ora - sono fuochi di paglia. Il sistema elettorale è una sorta di Gerovital che garantisce lunga vita all' estabilishment. Nelle ultime elezioni quasi il 75% dei nomi in listaè stato ricandidato. E secondo uno studio della Luiss il 33% dei trombati al voto è riuscito a sistemarsi riciclandosi su qualche strapuntino pubblico, nei cda delle municipalizzate o in enti locali. Le poltrone, insomma, se le dividono in pochi. Mentrei vari Balotelli italiani devono accontentarsi di sedere in panchina. Con un paradosso: il 96,7% di quest' anziana e auto-protettiva classe dirigente italiana - ha calcolato la Luiss - è convinto che «una società più meritocratica farebbe migliorare il paese». Belle parole, che però non reggono alla prova dei fatti. Lo stesso campione con i capelli bianchi è convinto (all' 84,7%) che qui da noi «le raccomandazioni contano di più delle capacità del singolo». Parlano, probabilmente, per esperienza. Non fosse così, in effetti, ben difficilmente la classe tirannosaura del Belpaese sarebbe riusciti a conservare il suo potere (o un posto nella squadra di Marcello Lippi) fino ad oggi. - ETTORE LIVINI


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I giovani in panchina 1

di GABRIELE ROMAGNOLI, da Repubblica on line del 23 giugno 09
C'è stato qualcosa di desolante nell'esibizione della nazionale di calcio italiana in Sudafrica, qualcosa che andava oltre la squadra stessa, la sua assenza di gioco e di carattere. Era un particolare difficile da cogliere a prima vista, come un riflesso: il riflesso del Paese. Mai come stavolta: questa è l'Italia. Lo dimostrano sei indizi, sufficienti come noto a costituire non una ma due prove.

Primo: la leadership. Lippi. Il problema non è tanto lui, che ha (avuto) incontestabili meriti. È il bis che va aggiunto accanto al suo nome, dopo un trattino. Il problema è il Lippi-bis. È quell'eterno ritorno all'usato presunto sicuro che fa dell'Italia un Paese di zombie con il biglietto a due tratte. Non a volte, ma sempre ritornano. Lo si scrisse all'indomani del reincarico al ct, annusando l'odore di naftalina infernale sprigionato ogni volta che riapparivano Andreotti, Fanfani o Rumor, che Berlusconi succedeva a Prodi o viceversa. Ma anche, per non far della politica l'unico tristo termine di paragone, quando il sabato sera televisivo veniva riaffidato alla Carrà, il Tg1 ad Albino Longhi (anche se ogni sera alle 8 ora vien da augurarselo), il Festival di Sanremo oscillava (e oscilla) tra i poli dell'eterna diarchia Baudo-Bonolis.

Fu facile profezia accostare il Lippi bis al Rutelli bis, disposto dai vertici, rigettato dai fatti (e anche lì, che il presente consenta rimpianti non vale come giustificazione). Eppure, mentre con Lippi prepariamo la valigia, sul pd si riallunga l'ombra di D'Alema e per il Festival di Sanremo non si esclude una co-conduzione di Pippo Baudo.
Secondo: la gerontocrazia. Ci sono ragazzini che dalla nascita hanno visto Cannavaro in nazionale. Fino a due anni fa se ne capiva il motivo. Ora, a parte un'ultima partita che gli consenta di battere il record di Maldini (ritiratosi a quarant'anni con le ginocchia sbriciolate), non più. Ma tant'è: meriti acquisiti. Sembra che in Italia la regola di anzianità per l'eleggibilità del capo dello Stato si applichi a qualunque ruolo di responsabilità. Non si spiega altrimenti perché la nomina di un quarantenne a una direzione divenga una notizia, perché scrittori in quella fascia d'età siano considerati "giovani", "promettenti". Tempo addietro venne fondato un movimento che predicava l'abbandono delle cariche dopo i sessant'anni. A parte l'entusiasta adesione di qualche over 60 e un festoso raduno, non se n'è più saputo nulla. I papà dei fondatori li avranno sgridati. Lo spostamento della linea del tramonto ha spostato pure quella dell'alba. Abitiamo in un fuso orario dove si comincia tardi e non si finisce mai, benché l'ora, quella legale, sia scoccata da tempo.

Terzo: l'affidabilità preferita al talento. La nazionale è venuta in Sudafrica con Camoranesi invece di Cassano. Può sembrare irrilevante, se in ogni settore della vita italiana non ci fosse un Cassano sacrificato a un Camoranesi. Emendare la giovanile tracotanza a poco serve. L'estro spaventa, richiede uno sforzo ulteriore di gestione, va incanalato, supportato. Genera picchi: meglio una linea costante. Proprio su queste pagine, pochi mesi fa, pubblicammo l'esito di una ricerca della London School of Economics secondo cui la selezione dei manager nelle imprese italiane avviene prevalentemente in base alle relazioni personali e non al curriculum. E una volta entrati in azienda la loro carriera è determinata dalla fedeltà alla proprietà assai più che dai risultati ottenuti. È quel che Lippi chiama il "gruppo", a cui attribuisce con uno slancio evocativo uno "spirito". Tradotto: gente che fa quel che gli si dice e non crea rogne. Poco importa se al fantacalcio, ai cui valori dovrebbero essere delegate le convocazioni, Cassano è più pregiato di Camoranesi. Ogni volta che in Italia cambia il vertice di una società si sposta un blocco di dirigenti. Più affidabili. Il cavalier Calisto Tanzi aveva un suo bel gruppo, con tanto di spirito. Tutti ragionieri di Collecchio, tutti devoti a lui e all'azienda. Magari non eccelsi nei risultati e un po' trafficoni, ma che importa? Poi si è aperto il buco. La crepa è cominciata all'estero. Dove? Brasile.

Quarto: la mancanza del senso di responsabilità. A caldo Lippi ha avuto un riflesso condizionato: "Non meritavamo di più, ma il progetto va avanti così". Due proposizioni inconciliabili. Se si merita di uscire in un girone con Stati Uniti ed Egitto, se si perde in quel modo con il Brasile il progetto deve ripartire da zero, o quasi. È già qualcosa non aver ceduto al complottismo (difficile far passare per montatura della stampa uno 0 a 3), non aver chiamato in causa la sfortuna o l'eredità della precedente gestione come fanno i ministri dell'economia quando i conti non tornano. E bene che Lippi si sia corretto al risveglio: "Ho capito, si cambia". C'era bisogno di una figuraccia alla Confederations Cup? Viene in mente Veltroni, che perde in quel modo le elezioni poltiche, consegna Roma alla destra e si dimette dopo una sconfitta in Sardegna.

Quinto: l'alibi della storia. Ogni volta che l'Italia scende in campo i telecronisti di tutto il mondo, non solo nostrani, ricordano le quattro coppe del mondo vinte, soprattutto l'ultima, che rende la squadra campione in carica. Ma, come noto, la storia non fa gol. E non abita nel presente. Da Machiavelli a Gianni Letta il passo è, più che lungo, inconcepibile. Abbiamo avuto il Rinascimento, ma nella storia dell'arte contemporanea siamo un paragrafo. Chiamiamo filosofo Rocco Buttiglione. Per timore che siamo non rivalutati postumi come l'immenso Totò, tolleriamo Boldi o De Sica. Quando Roma si blocca nel traffico alle prime gocce di pioggia e si resta fermi a guardare dal finestrino le antiche mura coperte di scritte offensive il tassista prontamente ricorda: "La civiltà l'amo fondata noi". Poi alza il volume di radio Tifo.

Sesto, ma non ultimo: l'etica. C'è una frase tormentone uscita dal raduno azzurro: "Noi non giochiamo bene, non facciamo calcio champagne. Non vogliamo essere la Spagna". Perché? Preferite essere furbi che bravi? Riuscire, non importa come? A guardarsi intorno parrebbe proprio di sì. Il punto è che, alla lunga, il metodo non paga. Che la Spagna a cui si rinfacciava di non aver mai superato un quarto di finale ha vinto l'Europeo e qui è in semifinale, l'Italia no. Domani è un altro giorno e si ricomincia: da Lippi bis e Berlusconi ter. Il ciak lo dà Gianluigi Rondi.

(23 giugno 2009)


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martedì 23 giugno 2009

La società dello spettacolo porno

di Annamaria Rivera, apparso su: “Liberazione”, 22 giugno 2009, p. 15

“Quando ci riesco faccio la ragazza immagine. Sono stata billionerina per tre anni. Ricordo che Fede mi promise di fare la meteorina. Ci tengo però a dire che non sono una escort”. Così risponde, in un’intervista, una delle “vergini” orgogliose di offrirsi in sacrificio al Drago: lo fa con freddo understatement e banale intonazione piccolo-borghese, come se stesse parlando di un lavoro da commessa o da impiegata. Come il suo capo e “utilizzatore finale”, col quale s’identifica –“io sono berlusconiana”- la signorina sarà una dei tanti italiani che deplorano il “degrado” di periferie abitate da immigrati, lanciano strali contro le prostitute di strada, soprattutto straniere, s’indignano per la “piaga” degli stranieri “clandestini, devianti, delinquenti e stupratori”.


Quando leggo frasi come quella citata, mi prende lo sgomento: che vorranno dire “ragazza-immagine”, “billionerina” “meteorina”, “escort”? Confesso che non lo so, anche se vedo che adoperano questo lessico perfino ottime firme di giornali di sinistra. Solo facendo ricorso all’intuito posso arguirne il senso. Immagino che la mia ignoranza dipenda dal fatto che più di un decennio fa decisi di spegnere il televisore per sempre. Nel frattempo la società dello spettacolo è dilagata -con le sue veline, billionerine, meteorine, escort- e ha stravolto la politica, ha mutato nel profondo la mentalità e l’antropologia del paese, è arrivata fino a imporre la propria neolingua. Tutti i mezzi d’informazione danno per scontato, come se stessero parlando in italiano, che il gergo della mercificazione pornografica dei corpi femminili sia neutro e comprensibile a tutti. E’ un processo parallelo a quello che ha banalizzato il lessico razzista: “extracomunitari”, “clandestini”, “nomadi”, “sicurezza”, “buonismo” (in fondo anche “guerra fra poveri”) ormai hanno perso le virgolette perfino quando usati a sinistra. Si sa, se i processi sociali si fanno lingua, vuol dire che si sono consolidati irreversibilmente. Se tutti sanno che escort sta per “prostituta che non si vende per strada” (se ho capito bene), mentre per me fino a ieri era solo una parola inglese che significa “scorta”, vuol dire che sono io la marginale. Da marginale –moralista?- vedo l’abisso nel quale è precipitato il paese, trascinandosi dietro quasi tutti. Fa impressione constatare quanto anche a sinistra si idoleggino chiunque e qualunque cosa abbiano qualche notorietà o risonanza televisive, fossero pure d’infimo rango. Al punto da dividere il mondo, irrevocabilmente, in chi fa comparsate televisive e chi no, dunque in chi merita attenzione e rispetto e chi no, fosse pure il più raffinato degli intellettuali o la più profonda delle studiose.
I poteri, soprattutto quelli dal fragile spessore democratico, spesso sono stati coinvolti in corruzione morale e scandali. Ma mai come oggi in Italia c’è stata una tale complicità della società, dell’opinione pubblica, della gente comune, di una parte rilevante delle donne. Anzi, c’è qualcosa di più della complicità oggettiva, c’è immedesimazione e sintonia sentimentale con le imprese e lo squallore del mediocre ometto sporcaccione da anni ’50, al quale denaro e potere permettono ciò che a noi è negato. E’ come se una buona metà del paese spiasse compiaciuta dal buco della serratura, dicendosi: almeno lui può permettersi di farlo.
Ignara o indifferente, quella metà, di fronte ai rischi che corre il sistema democratico: che democrazia è quella in cui le liste elettorali si fanno sfogliando i “book fotografici” (si dice così?) di ragazze-immagine e premiando quelle che hanno compiaciuto le voglie del capo? Per quanto ripugnante, questo costume non è che la forma estrema della tendenza, presente a destra e un po’ anche a sinistra, a cooptare nelle cariche di partito e nelle candidature nomi selezionati secondo criteri che, soprattutto per le donne, premiano la mediocrità, l’arrivismo, la condiscendenza, la fedeltà ai capi. D’altronde (come scrissi tre anni fa a commento di un bell’articolo di Lea Melandri), il narcisismo maschile -che attraversa anche la sinistra “radicale” e che ha contribuito alla sua crisi quasi mortale- si alimenta e si riproduce grazie alle tante signore o signorine Smith, ansiose di condividere il potere maschile, di raccoglierne le briciole o almeno d’essere accolte nei salotti buoni.
Tutto questo dovrebbe indurci a riflettere sull’ambivalenza di certe rivendicazioni, in assenza di un movimento di critica e di lotta che le indirizzi nella direzione giusta: le quote rosa possono diventare –sono diventate- l’anello di un’abietta catena di corruzione; la difesa sacrosanta dei diritti delle prostitute, se non si coniuga con la critica severa della mercificazione sistemica dei corpi femminili, può contribuire a banalizzare quest’ultima. La società dello spettacolo è capace di ingoiare ogni cosa che sia rigurgitabile sotto forma di immagine, quasi sempre pornografica.
L’ho scritto più volte: grazie al suo quasi-monopolio del potere delle immagini, dei simboli, del linguaggio, il berlusconismo ha saputo interpretare, dar voce, far emergere una delle tendenze che connotano profondamente la storia nazionale, il suo immaginario, il suo sentire e agire collettivi: un mélange d’individualismo, cinismo, debolezza del senso civico, assenza di rigore etico e intellettuale. E’ per questo che non potrà mai neppure scalfirlo una sinistra che non sia capace di riflettere criticamente sulla storia nazionale, di abbandonare le formule convenzionali e consolatorie per analizzare, spietatamente e nel profondo, i mutamenti sociali e culturali che hanno investito la società italiana.

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lunedì 22 giugno 2009

Sulla catastrofe del femminile nella politica del centrodestra

di Clelia Mori


Forse la catastrofe del femminile nella politica del centrodestra sta diventando collettiva e sta trasformandosi in una catastrofe di pensiero, azione, governo, sicurezza nazionale e magari internazionale e soprattutto di una certa idea del maschile. Ma può essere anche lo strumento della rinascita e la dimostrazione che dal pensiero delle donne per le donne oggi in politica non si può prescindere. Per gli uomini stessi ma anche per la loro nostra vita politica. E’ la dimostrazione che il femminile non si può baipassare come un ornamento del letto o della politica, meno che mai della democrazia.

Lo sconforto che mi e ci prendeva come donne quando ne parlavamo pensando alla politica della differenza sta diventando per la destra un boomerang. Si sta dimostrando che persino il trattarci come merce non serve a emarginarci, a rendere invisibile i nostri desideri e la nostra libertà, a ridurci al silenzio anche se non ne parliamo tanto, e che non basta a nessun* che le merci vengano poi nobilitate passandole al parlamento italiano o europeo. Le donne anche come merci colpiscono sempre, sono un pericolo se maneggiate male e persino l’affidabilità politica di un uomo di governo, che informa de-formando tutta la comunicazione dell’azione pubblica e politica, può venirne colpita. Forse, ma potrebbe essere anche una mia ipersensibilità, scricchiola perfino un modello di comunicazione visto che il premier deve spingere le industrie a farsi affidare pubblicità per le sue tv, con la scusa che certi giornali gli remano contro.
Profondi scricchiolii, non solo legati alla crisi internazionale, si sentono nel castello mediatico e politico del sovrano, scuotono alla radice il modello del sistema di potere e di pensiero che si è andato affermando in questi ultimi 15 anni: il famoso “ciarpame politico”, di purtroppo antichissima data.
Non si capirebbe altrimenti perché una donna oggi può prendere per mano pubblicamente, perfino in Iran, il proprio compagno candidato alle elezioni presidenziali, scuotendo profondamente l’immaginario locale che scende in piazza contro il regime per difenderli spingendo uomini e donne a morire, e non dovrebbe succedere nulla in Italia se un presidente del consiglio si fa mandare a palazzo donne a pagamento come “utilizzatore finale” -da uno che sembra traffichi con la droga- e se la moglie dice che è malato e che nessuno ha voluto aiutarlo? Addirittura il suo avvocato personale afferma per difenderlo, con un macio colpo di genio, che non ha bisogno di donne a pagamento perchè potrebbe averne in grande quantità, gratuitamente.
Quantità non qualità, ha detto…
E’ proprio vero, il pubblico e il privato, finalmente entrambi pubblici hanno proprietà destabilizzanti se il privato non è garante della qualità del pubblico, soprattutto nel guidare un paese e hanno avuto ragione le femministe del ‘68 a pretendere stessa dignità e visibilità per entrambi, qualsiasi faccia abbiano. Sono tra loro profondamente intrecciati anche se illuminati in maniera diversa e la differente illuminazione mi pare la spia più evidente della loro non comune importanza. Persino il bisogno del buio e del silenzio del privato pubblico, fino ad oggi richiesto a gran voce, racconta la difficoltà del dire apertamente aspetti di sé che si vogliono velare per le conseguenze che potrebbero manifestare nell’interpretazione dell’azione pubblica. E’a questo punto che il privato diventa una garanzia per il pubblico.
Lo avevo però immaginato arrivare tra noi in modo meno traumatico e più pulito e mi sentivo vagamente smarrita dalla qualità del suo arrivo in piazza. Forse quello che mi prefiguravo era l’aspetto finale del lavoro del privato sul pubblico e sul singolo e per questo non ho riconosciuto subito la sua importanza. Ma giunti a questo punto della narrazione il privato, presidenziale, mi dà meglio la misura del suo bisogno nel pubblico per garantire un paese.
E, se il meccanismo non è più sopportabile nemmeno per la moglie che parla per lui addirittura di malattia, perché mai dovrebbe esserlo per una intera comunità nazionale?
Questa questione della malattia che i suoi -per opportunismo personale e politico, non hanno mai voluto vedere per quello che è, nell’intento di non dar credito alle parole dirompenti di una moglie che ha invece dimostrato il potere, la sincerità, la forza e il dolore della sua parola- hanno preferito sbandierare come esibizione di tarda virilità maschilista, sta comunque distruggendo dall’interno la credibilità del loro sistema di pensiero e di governo senza nulla togliere alla pericolosità del suo star male. Anzi, così facendo, hanno acuito l’inquietudine comune sullo stato di salute psicologica e fisica del presidente.
Ma il nascondimento della malattia presidenziale, nel groviglio attuale, inquieta anche per un altro motivo: è la cosa di cui si parla meno tra gli uomini, nonostante la sua pericolosità. E allora mi chiedo se può essere tanto forte anche in politica il legame maschile sulla virilità, da permettere un ribaltamento di lettura della malattia del capo del governo, che comunque non si riesce ad oscurare, senza rendersi conto del potenziale distruttivo del ribaltamento stesso? Pesa così tanto il legame oscuro, difficile da indagare, tra virilità e corpo maschile e corpo delle donne da nasconderlo dentro come un demone irrisolto nel legame con la prostituzione? Lo squilibrio virile con sé stessi e nella relazione con una donna, si equilibra pagando? Cercando di comprare una virilità da chi, comunque, non l’ha da vendere? Senza responsabilità e “false ipocrisie” come diceva Corrado Augias in una risposta nella sua rubrica, su Repubblica alcuni anni fa. Può l’irresponsabilità virile malata, elevata a sistema dal presidente, diventare garanzia di governo retta da continue improvvisazioni di verità?
Preoccupa questo nascondimento maschile della malattia del presidente su cui sorvola persino Vittoria Franco. Sembra le basti chiedergli, con una qualche studiata furbizia parlamentare su Aprileonline di sabato 20, che venga a riferire in Parlamento, giocando sull’impossibilità di dire lì il falso, per smascherarlo. Mi chiedo se è così difficile fare un discorso pulito sulla sessualità maschile e femminile e il potere politico dentro e fuori le istituzioni parlamentari?
In gioco non c’è solo una questione di ricattabilità del presidente, ma lo squilibrio di una persona che ci si rifiuta di vedere psicologicamente molto malata, incapace di controllo su di sé e capace invece di condizionare il governo per giustificarlo e che detiene, pericolosamente per tutt*, pieni poteri nel nostro paese.
Non si tratta più di disquisire sulla possibilità di poter parlare o meno del privato, ma di prenderne atto per le pericolose conseguenze che per noi potrebbe avere, invece che stendervi su questo pietoso e pruriginoso silenzio, visto che non si riesce a chiuderlo neppure tra le pareti dei palazzi governativi e così profonda è la sua essenza intima da poter portare a rischio un paese.
Credo sia da ripensare urgentemente la relazione tra donne uomini e potere in Italia, dagli uomini soprattutto ma con un occhio attento a quello che le donne confliggono con loro se non vogliono aggiungere una ulteriore crisi al paese per la difesa di una stantia visione maschile.


Clelia Mori

21. 06 . 09

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venerdì 19 giugno 2009

Rischio logoramento che fa riaffiorare voci sulla successione

L’accenno è stato fatto per scansare voci e forse speranze di una crisi a breve del governo. Ma smentendo davanti ai vertici di Fiat e sindacato che Giulio Tremonti e Mario Draghi possano prendere il suo posto a palazzo Chigi, ieri Silvio Berlusconi ha ammesso che se ne parla. Ha confermato implicitamente che la sua leadership sta subendo un lento processo di appannamento; e che sotto traccia qualcuno forse ha ricominciato ad accarezzare il progetto della successione: Magari incoraggiato da qualcuno degli avversari del Cavaliere.

È verosimile che non si tratti né del ministro dell’Economia, né del governatore di Bankitalia; semmai, di questi piani Tremonti e Draghi sono vittime. C’è di più. Proprio per il modo in cui l’offensiva contro il premier sta avvenendo, qualunque possibilità di un delfinato riconosciuto diventa più difficile. Berlusconi non l’ha mai davvero preso in considerazione. Ed il sospetto che qualcuno ci stia lavorando è destinato ad acuire diffidenze e ostilità. Il Pd gli chiede di dare spiegazioni sugli episodi nei quali secondo la magistratura sarebbe coinvolto; oppure di andarsene. Ma il presidente del Consiglio sa di avere dalla sua parte il timore diffuso che una crisi improvvisa e traumatica crei un pericoloso vuoto di potere. Una caduta sull’onda di un’offensiva extrapolitica rischierebbe di lasciare il Paese senza una maggioranza; e con la prospettiva di un commissariamento di fatto dell’esecutivo, slegato dal responso elettorale: un ritorno agli ambigui governi «tecnici» dell’inizio degli Anni 90 del secolo scorso.
Va detto che si tratta di un’eventualità remota. Intanto, il sistema politico non è delegittimato come allora. La difesa a spada tratta da parte del Pdl, e quella «da garante», vagamente padronale, della Lega lasciano capire che per ora il pericolo non esiste. Viene rilanciata la tesi del complotto ordito da pezzi dell’opposizione e della magistratura. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, mostra un larvato scetticismo all’idea dell’«aggressione di un nemico, interno o esterno». Ma i più avvertiti nel centrodestra sanno che non si può prevedere quello che accadrebbe se e quando Berlusconi decidesse o fosse costretto ad un passo indietro.
Sta affiorando un problema, però. Riguarda le incognite ed i contraccolpi provocati dal viavai di un’umanità assai variopinta nelle residenze del premier. Basti pensare alle domande poste a Bruxelles sull’opportunità della candidatura di Mario Mauro alla presidenza dell’Europarlamento, viste le vicende private del capo del governo italiano. Il suo avvocato e consigliere, Niccolò Ghedini, ha già detto e ripetuto che Berlusconi non è ricattabile. Eppure, magari in modo strumentale, dall’opposizione fioccano domande pesanti, che rimandano alla zona grigia creata da queste frequentazioni: perfino per la sicurezza nazionale. Forse sono questi aspetti collaterali a far riflettere ed a preoccupare maggiormente.
Massimo Franco, 19 giugno 2009

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giovedì 18 giugno 2009

L'utilizzatore finale

di giuseppe D'Avanzo, su Repubblica on line di oggi 18.6.09
Una vita disordinata spinge sempre di più e sempre più in basso la leadership di Silvio Berlusconi. In un tunnel da cui il premier non riesce a venir fuori con decoro. Nel caleidoscopio delle verità rovesciate le ugole obbedienti accennano al consueto e oggi inefficace gioco mimetico. Creano "in vitro" un nuovo "caso" nella speranza che possa oscurare la realtà. S'inventano così artificialmente un "affare D'Alema" per alzare il polverone che confonda la vista. Complice il telegiornale più visto della Rai che, con la nuova direzione di un dipendente di Berlusconi, ha sostituito alle pulsioni gregarie di sempre una funzione più schiettamente servile.
Dicono i corifei e il Tg1: è stato lui, D'Alema, a parlare di possibili "scosse" in arrivo per il governo, come sapeva dell'inchiesta di Bari? Il ragionamento di D'Alema era con tutta evidenza soltanto politico. Chiunque peraltro avrebbe potuto cogliere lo stato di incertezza e vulnerabilità in cui è precipitata la leadership di Berlusconi che vede diminuire la fiducia che lo circonda a petto del maggiore consenso che raccoglie non lui personalmente - come ci ha abituato da quindici anni a questa parte - ma l'offerta politica della destra. Legittimo attendersi che quel nuovo equilibrio - inatteso fino a sette settimane fa, fino alla sua visita a Casoria - avrebbe prodotto ai vertici di quel campo un disordine, quindi un riassestamento. In una formula, sussulti, tensioni, una nuova stabilità che avrebbe ridimensionato il gusto del plebiscito, un cesarismo amorfo che, come è stato scritto qui, ha creduto di sostituire "lo Stato con un uomo, il governo con il comando, la politica con il potere assoluto e carismatico".
Era questa idea di politica, questa fenomenologia del potere che, suggeriva D'Alema, riceverà presto delle "scosse" e gli esiti potrebbero essere drammatici. Vediamo come questa storia trasmuta nella propaganda che manipola e distrae, ora che salta fuori come a Palazzo Grazioli, dove garrisce al vento il tricolore degli edifici di Stato, siano invitate per le cene e le feste di Berlusconi donne a pagamento, prostitute. Le maschere salmodiano la solita litania: l'opposizione, e il suo leader, più le immarcescibili toghe rosse di Magistratura democratica aggrediscono ancora il presidente del Consiglio. Ma è così? I fatti fluttuano soltanto se la memoria deperisce. Se si ha a mente che è stato il ministro Raffaele Fitto, per primo, a suggerire che Berlusconi poteva essere coinvolto a Bari in un'inchiesta giudiziaria, si può concludere che non D'Alema, ma il governo sapeva del pericolo che incombeva sul premier e oggi lo rovescia in arma contro l'opposizione e, quel che conta di più, in nebbia per abbuiare quel che tutti hanno dinanzi agli occhi: Berlusconi è pericolosamente - per il Paese, per il governo, per le istituzioni, per i nostri alleati - vulnerabile. Le sue abitudini di vita e ossessioni personali (qual è il suo stato di salute?) lo espongono a pressioni e tensioni. A ricatti che il capo del governo è ormai palesemente incapace di prevedere e controllare, come ha fatto sempre in passato immaginando per se stesso un'eterna impunità. È soltanto malinconico il tentativo del presidente del Consiglio e degli obbedienti corifei di liquidare questo affare come "spazzatura", come violazione della privacy presidenziale. Se il presidente riceve prostitute nelle sue residenze private diventate sedi del governo (è così per Villa Certosa e Palazzo Grazioli), la faccenda è pubblica, il "caso" è politico. Non lo si può più nascondere sotto il tappeto come fosse trascurabile polvere fino a quando ci sarà un giornalismo in grado di informare con decenza il Paese. Di raccontare che la vulnerabilità di Berlusconi è ormai una questione che interpella la credibilità delle istituzioni e minaccia la sicurezza nazionale. Quante sono le ragazze che possono umiliare pubblicamente il capo del governo? Dove finiscono o dove possono finire le informazioni - e magari le registrazioni e le immagini - in loro possesso? Da sette settimane (e a tre dal G8) non accade altro che un lento e progressivo disvelamento della vita disordinata del premier e della sua fragilità privata che si fa debolezza e indegnità della sfera pubblica. La festa di Casoria; le rivelazioni degli incontri con Noemi allora minorenne che lo costringono a mentire in tv; i book fotografici che gli vengono consegnati per scegliere i "volti angelici"; la cerchia di prosseneti che gli riempie palazzi e ville di donne a pagamento; migliaia di foto che lo ritraggono, solo, circondato da decine di ragazze di volta in volta diverse; i ricordi imbarazzati e imbarazzanti di capi di Stato che gli hanno fatto visita. E ora, svelata dal Corriere della Sera, anche la confessione di una donna che è stata pagata per una cena e per una notte con in più la promessa di una candidatura alle Europee e poi in consiglio comunale. La storia può essere liquidata, come fa l'avvocato Ghedini, dicendo Berlusconi comunque non colpevole e in ogni caso soltanto "utilizzatore finale" come se una donna fosse sempre e soltanto un corpo e mai una persona? Che cosa deve ancora accadere perché la politica, a cominciare da chi ha sempre sostenuto la leadership di Berlusconi, prenda atto che il capo del governo è vittima soltanto di se stesso? Che il suo silenzio non potrà durare in eterno? Che presto il capo del governo, trasformatosi in una sola notte da cigno in anatra zoppa, non è più la soluzione della crisi italiana, ma un problema in più per il Paese. Forse, il dilemma più grave e più drammatico se non si riuscirà a evitare che la crisi personale di una leadership divenga la tragedia di una nazione.

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mercoledì 17 giugno 2009

Pugno di ferro, cosi si vive nel «Principato delle macerie» Terremoto 8

di Claudia Fusani e Massimo Solani, L'unità di ieri 16 giugno
In questi mesi è stato sperimentato un sistema di propaganda; il commissario con poteri assoluti. Un modo di governare che tanti piace al premier, ma che sta limitando la libertà dei terremotati. L’atto fondativo e stato una scossa sismica devastante. Nessuno quella tragica notte del 6 aprile era stato in grado di immaginare che nel centro Italia stava per nascere un nuovo Stato. Il terzo, dopo San Marino e il Vaticano, tra quelli che si trovano all’interno dei confini nazionali: il Principato delle macerie.

Mentre decine di migliaia di persone continuano a vivere disagi enormi, in Abruzzo il governo sperimenta un modello di organizzazione sociale e, assieme, un apparato di propaganda e di gestione del consenso. In nome dell’emergenza è stato limitato il potere decisionale delle comunità locali. In nome della propaganda e stato creato un sistema di controlli che rende difficile il lavoro dei giornalisti e molto complicata la diffusione delle notizie su quanto accade all’interno delle 180 tendopoli.
Oggi, dopo oltre due mesi di paziente attesa, duemila cittadini del Principato delle macerie raggiungeranno la capitale d’Italia per far sentire la loro voce. Lo faranno - con un sit in davanti alla sede del governo - proprio nel giorno in cui la Camera dei deputati avvia la discussione sul decreto-terremoto.
Un provvedimento che la maggioranza non intende modificare, tanto che e possibile l’ennesimo voto di fiducia.
Silvio Berlusconi ha fatto sul terremoto un forte investimento di immagine.
La sua presenza quotidiana nei luoghi della catastrofe ha accresciuto la sua popolarità. La decisione di trasferire il G8 dalla Maddalena allAquila l’ha rafforzata sul piano internazionale prima che le sue vicende giudiziarie (il processo Mills) e coniugali (il caso Noemi) la riportassero al tradizionale basso livello.
Di certo il premier e il suo governo si giocano tra le macerie d’Abruzzo molta della loro credibilità. E il capo della Protezione civile Guido Bertolaso - che del Principato delle Macerie e il capo supremo, ne e perfettamente consapevole. Cosi ieri - dopo che i sudditi avevano occupato per protesta la pista dell’aeroporto di Preturo (quella dove, dopo le opportune modifiche, atterreranno i grandi del G8) si e affrettato a dare una intervista al ≪La 7≫ per assicurare che tra le macerie d’Abruzzo tutto va per il meglio. E palazzo Chigi ha diffuso un comunicato nel quale, tra l’altro, si assicura che anche le seconde case saranno pagate. Chissà. Il fatto è che questo concetto non e presente nel decreto che oggi il Parlamento comincia a esaminare.
Cosi come non compaiono le iperboliche promesse fatte dal premier in questi due mesi.❖

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martedì 16 giugno 2009

Il Lingotto 2 anni dopo. La nuova Italia dei democratici

Note di Walter Veltroni ieri 15.6.09 alle 16.12
di Walter Veltroni

Sono passati due anni, dal Lingotto. Il tempo, da quel giorno, non è trascorso invano. Il popolo delle primarie ha fatto nascere il Partito Democratico, in Italia c’è finalmente una grande forza che unisce le tradizioni e le nuove idee dei riformisti. Il sogno che alcuni di noi coltivavano da anni si è realizzato.

Ma se ritengo opportuno, in questo momento, tornare a dire quel che penso, è perché avverto che il nostro progetto, il progetto del Partito Democratico, è messo in discussione. E’ perché sento che attorno ad esso si muovono richiami antichi, perché le tensioni tornano e aumentano, perché si arriva dire che forse sarebbe meglio lasciar perdere il PD oppure ridurne le ambizioni trasformandolo in un frammento minoritario di uno schieramento senza un disegno riformista.Vorrei essere chiaro: io sono e rimarrò fuori da un certo tipo di battaglia politica. Una cosa, però, sento di doverla sottolineare: di tutto abbiamo bisogno, tranne che di ritorni ad un passato che ha poco da dire. L’idea del Partito Democratico, come dimostra il voto europeo, è un progetto d’avanguardia, e l’idea di tornare indietro, in modo palese o camuffato, è un errore. Ci vuole più riformismo, più modernità, non il ritorno ad antiche e inesistenti certezze.E’ davanti a noi che ci sono possibilità enormi, molto più grandi di quanto il quadro complessivo e la nostra attuale situazione potrebbero far pensare. Una lunga stagione, per la destra e i conservatori, si sta chiudendo. Anche, se non soprattutto, in Italia, dove molti segnali stanno dimostrando che il “berlusconismo” ha iniziato la sua parabola discendente.Guai, però, a pensare che questo significhi automaticamente, come per inerzia, successo dei riformisti. Non c’è risultato che non passi attraverso il lavoro, le idee, la capacità di innovazione, la responsabilità.E in questo senso il Partito Democratico deve fare ancora molto, davvero molto. Non tornando indietro, ma andando avanti. Evitando di ripetere gli errori compiuti e correggendo radicalmente un modo di essere e di fare che ci ha fatto solo male.Penso ovviamente ai mesi successivi alle elezioni politiche di un anno fa. Una sconfitta è una sconfitta, e questo ha significato, per la sfida di governo lanciata dal PD, il risultato di quel voto. Ma da una sconfitta un partito, in particolare se è nato da pochi mesi e se raggiunge il 33% e oltre dei voti, può tranquillamente ripartire, per radicarsi e per affermare le proprie idee. Soprattutto se a sostenerle ci sono la passione di milioni di persone che hanno appena dimostrato, con una straordinaria campagna elettorale, di esserci, di voler partecipare, di crederci.Invece questa passione è stata delusa, queste persone sono state disorientate. Il Partito Democratico è apparso subito impegnato più in laceranti e troppo spesso sotterranei scontri interni, più in un gioco perverso di posizionamenti individuali e di manovre di corrente, che in un convinto e unitario lavoro comune.Io queste dinamiche, forse per una certa estraneità ad esse, non sono riuscito ad impedirle come avrei voluto. E per non essere riuscito a garantire la loro fine, ho scelto di dimettermi, assumendomi responsabilità anche non mie, come si fa quando si intende così la politica: come un servizio, con le ambizioni personali messe decisamente al secondo posto rispetto agli obiettivi comuni.Anche per questo, nei mesi passati, ho evitato ogni polemica, ogni recriminazione, ogni atteggiamento di distanza, ogni intervista malevola. E ho voluto assicurare a Dario Franceschini, al suo sforzo intelligente, un sostegno leale e sincero.Per me è stato e sarà sempre così. E’ solo per Partito Democratico, solo per il bene che voglio ad un progetto atteso e voluto da anni e che ora più che mai va rilanciato e rafforzato, che ho chiesto a personalità di diverse idee e sensibilità di ritrovarsi a Roma il 2 luglio, al Capranica.Sarà quanto di più lontano, lo dico a scanso di equivoci e in nome di una assoluta ripugnanza per le vecchie e deleterie logiche correntizie, dell’ennesimo incontro di una componente che si vede per “pesare” nella vita interna di un partito. Chi si aspetta questo può anche non venire, quel giorno.Ora è qualcosa che non riguarda più solamente noi. Riguarda il Paese. L’Italia ha bisogno di un partito riformista che sia il baricentro di un governo che la cambi radicalmente. Un partito capace di parlare un linguaggio nuovo per contenuti e ispirazione, capace di evocare, in un’Italia paralizzata dalla paura, il senso di una speranza collettiva. A me interessa solo ed esclusivamente il progetto al quale ho lavorato per tutta la mia vita politica. A me interessa il PD, interessa che ne si rilancino il ruolo e le ambizioni, innanzitutto facendo rinascere, là dove si è affievolita, la passione di milioni e milioni di italiani che ci hanno creduto davvero, che credono al vero Partito Democratico. Abbiamo bisogno di un partito in cui avanzi una nuova generazione di dirigenti, che senta con orgoglio l’identità che era racchiusa nelle centinaia di migliaia di bandiere del Circo Massimo. Un partito senza ex di nulla, senza correnti e personalismi, senza vecchie e paralizzanti logiche figlie di un tempo superato. Semplicemente e per sempre superato.Sarà, appunto, due anni dopo il Lingotto. Sarà il modo per dire che i grandi obiettivi attorno ai quali ci eravamo ritrovati allora, “fare un’Italia nuova”, unire gli italiani, aprire una nuova stagione di governo per il Paese, sono gli stessi di quelli che oggi attendono il Partito Democratico. Dovremo tutti esserne all’altezza. Walter Veltroni

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lunedì 15 giugno 2009

D'Alema: Berlusconi è un leader dimezzato (da: in Mezz'ora)

il 14 giugno '09 a "In 1\2 ora"



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domenica 14 giugno 2009

In ricordo di Ivan Della Mea

O cara moglie
(Do you remember '68?)




Nostra patria è il mondo intero (il video è del 15 Marzo scorso!)

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venerdì 12 giugno 2009

Politica e statistica, così è se ci pare


Numeri veri, numeri esagerati, numeri taroccati. Come si misura un Paese? Il mondo statistico dibatte, dopo l'ultima del premier sul sostegno ai disoccupati
Ma allora siamo meglio dei paesi scandinavi! Qualsiasi lavoratore che perda il lavoro in Italia riceve un aiuto dallo Stato pari addirittura all’80%, e se lo dice il primo ministro sarà pur vero! O forse avrà ragione la Banca di Italia denunciando il fatto che più di un milione e mezzo di lavoratori sono lasciati senza ammortizzatori?

La politica è entrata a gamba tesa sulla statistica. Si appropria di alcuni risultati rendendoli faziosi (si pensi ai salari in Italia che secondo alcuni sarebbero tra i più bassi dei paesi Ocse solo per via della tassazione), ne ignora deliberatamente altri (i dati sull’immigrazione e sulla sicurezza, per esempio) e infine alcuni li genera ex novo ad uso e consumo del momento mediatico (la cassa integrazione per i co.co.pro. appunto). Sono moltissime le condizioni che hanno portato al concretizzarsi di questa situazione. Si dovrebbe parlare del sistema informativo passivo e più spesso complice di una classe politica che approfitta del declino nel livello di educazione e fiducia politica della popolazione o del generale degrado politico-culturale, associato ad un preoccupante moltiplicarsi delle manifestazioni di intolleranza per il diverso, compreso chi la pensa diversamente (Putnam chiamerebbe tutto questo il lento erodersi del capitale sociale del paese). Ma c’è un fenomeno strettamente connesso a questo scenario che colpisce in maniera particolare il mondo della ricerca socio-economica, accademica e non: la mancanza di autorevolezza dei dati pubblicati dai principali istituti incaricati della produzione di statistiche ufficiali Isae, Istat, Isfol, più in generale tutto il Sistan (Sistema Statistico Nazionale, rete di soggetti pubblici e privati che fornisce l’informazione statistica ufficiale) ma anche, evidentemente, la Banca d’Italia. Si badi bene non è che la gente non si fidi di quei dati (di fatto quasi il 60 percento degli italiani ha fiducia dei dati prodotti a livello ufficiale – anche se rimane un 40 che non lo fa -, secondo i dati pubblicati su D’Urzo , M. Gamba, E. Giovannini, M. Malgarini, About the Progress of their Country What Do Italian Citizens Know) ma quei dati non hanno di fatto la forza, quando citati, di porre ordine alla crescente massa di informazione/disinformazione a cui siamo sottoposti. Una delle conseguenze che questa situazione porta con sé è una diffusa e crescente divergenza tra la percezione della realtà -letta, ascoltata e vista tramite i mezzi di informazione- e la realtà per come può essere descritta dalle statistiche. E' stato proprio questo il tema di un interessante dibattito che si è svolto durante una delle tavole rotonde organizzate nell’ambito della tradizionale conferenza Monitoring Italy. Il convegno, organizzato ogni due anni dall’Istituto di Studi e Analisi Economia Isae in collaborazione con l’Ocse, quest’anno si è concentrato sul tema della misurazione del progresso nella società italiana. Interrogandosi sulle origini della divergenza tra la percezione e la realtà il demografo Massimo Livi Bacci dell’Università di Firenze, Luca Paolazzi del Centro Studi Confindustria e Ignazio Visco della Banca d’Italia sono naturalmente incappati in questa triste e pericolosa realtà, a dire il vero non solo Italiana, in cui ogni numero può semplicemente essere messo in discussione. Non importa se prodotto da una fonte ufficiale. C’è dunque qualcosa che questi Istituti possono o devono fare? Una delle proposte più dibattute è stata quella sull’opportunità o meno che queste istituzioni, la cui indipendenza è stata ottenuta anche e soprattutto grazie ai calendari ufficiali, escano dai calendari stessi e intervengano più direttamente nel dibattito politico. Questa scelta, che permetterebbe forse di richiamare l’attenzione su dati ufficiali e legittimati dall’indipendenza degli istituti nazionali, rischierebbe però di metterne in crisi proprio l’indipendenza già fortemente a rischio in contesti, come quello europeo, in cui i governi vengono giudicati proprio alle luce di statistiche ufficiali (rapporto defici/PIL e inflazione sopra a tutti). La questione, di fatto, è rimasta aperta. Unico punto certo è il ruolo che stanno giocando in questa partita, e non solo, i mezzi di informazione, anche quelli più autorevoli, che si limitano a presentare tutto quello che succede nella scena politica come un semplice opporsi di opinioni divergenti ma altrettanto legittime, senza preoccuparsi, di verificare fonti e informazioni e soprattutto di fornirle al lettore/spettatore ascoltatore che sia. Non è forse un caso quindi che uno degli articoli più scaricati dal sito di sbilanciamoci.info nella scorsa settimana sia stato proprio quello in cui ci si limitava a pubblicare la tabella dei dati prodotti da Banca d’Italia sugli ammortizzatori sociali in Italia. Senza ulteriori commenti.

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Poco a poco stanno obbligandoci a chiudere l’Università

di Gennaro Carotenuto, venerdì 12 giugno 2009, 07:43, da: Giornalismo partecipativo Come nella Cacania, l’Austria di fine impero di Robert Musil de “l’uomo senza qualità”, stiamo spegnendo le luci e chiudendo il paese. Vogliono farci credere che sia più grande di quello che ci possiamo permettere. Succede con piccole decisioni, apparentemente inevitabili e neutrali. La mia Università dal primo luglio organizzerà la propria attività su cinque giorni lavorativi e non più su sei. Ci saranno deroghe fino a fine anno ma poi basta, tutto dovrà succedere dal lunedì al venerdì.

Riscaldare, illuminare e tenere aperte le sedi un giorno in meno è stato considerato tra i risparmi possibili quello meno doloroso in un contesto dove i fondi ordinari si riducono a precipizio. Alle sedi locali, nel falso rispetto della loro autonomia, non resta che arrovellarsi e adeguarsi ai tagli di un governo e di un ministro, Mariastella Gelmini, che considera l’educazione pubblica e la ricerca uno spreco e non un investimento.
Non discuto la decisione locale, se non questa sarebbe stata un’altra, e so che in amministrazione non dormono per trovare come aggiustarsi in un contesto nel quale è come se stessimo pescando sul fondo di un serbatoio ormai vuoto. Da vent’anni si taglia e tra i paesi OCSE siamo gli ultimissimi per PIL investito (pardon, sprecato) in Università e ricerca. Non so com’era e se c’è mai stata una Università delle vacche grasse, ma poi non lamentatevi se il paese non è competitivo, se non innova, se i professionisti sono sempre più approssimativi.
Le sedi che accorciano di un giorno la loro settimana lavorativa mi colpiscono e non soltanto perché vado quasi sempre a lavorare in dipartimento anche di sabato. Penso agli studenti stranieri che arrivano per il progetto Erasmus e dai quali, ci è stato spiegato, dipendono così ingenti fondi che per attrarli è bene attrezzarsi a far loro lezione in inglese. Faremo lezione in inglese, non è un problema, ma quanto saremo appetibili se per due giorni su sette non potranno andare in biblioteca e forse neanche potranno controllare l’email? Penso all’alta formazione, quella permanente che dovrebbe essere il futuro per rinnovare il paese, ai Master, che essendo rivolti a lavoratori, sfruttano il sabato mattina per le lezioni.
La mia è una Università virtuosa, di quelle con i conti in regola. In teoria potrebbe perfino assumere nuovo personale ma sembra che tutti gli sforzi siano inutili e che il futuro dell’educazione universitaria voglia per scelta politica prescindere dal merito, dal virtuosismo costantemente evocato dalla ministro nelle interviste preconfezionate e negato nei fatti e concentrarsi in poche sedi, grandi, possibilmente al Nord. Sembra ieri che la Confindustria chiedeva 200 università pubbliche per radicarsi sulle esigenze del territorio. Il ministero applica un costante mobbing sulle sedi. Più queste si mettono in regola, controllano la qualità, più arrivano nuove angherie, vessazioni, demansionamenti.
Eppure vedo quello che succede ogni volta che arriva un nuovo ricercatore: una boccata di aria fresca, idee nuove, entusiasmo, voglia di fare. Sento che ci abbiano fatto tutti entrare in una camera a gas proprio per privarci dell’aria fresca, delle idee nuove, dell’entusiasmo, della voglia di fare. In qualche modo ci organizzeremo, mi dico, ma causa angustia questo ennesimo segnale. Lavorerò mai in una Università e un paese che crescono? Dove ci siano mezzi per far ricerca e produrre cultura e ci sia spazio, secondo il dettato costituzionale, per i giovani capaci e meritevoli? Una Università dove gli spazi, i tempi, le opportunità aumentino invece di diminuire? Comincio a temere di no.

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giovedì 11 giugno 2009

Elezioni europee. Commento n. 1

di Jaime
Ho letto i tre commenti sui risultati dell'elezioni amministrative e al parlamento europeo, posti nel Blog. Quello della direttrice dell'Unità, non aggiunge del nuovo a quanto già le pagine dei giornali di parole ci forniscono in abbondanza. In quello della Rossana Rossanda, tenuto conto delle sue esperienze politica e giornalistica, trovo un deludente predominio di quest'ultima, vale a dire, che rimane a livello del fogliame dell'albero.
Rispetto al commento del giornalista di Repubblica, ho colto la stessa tendenza a rimanere sul fogliame senza scendere verso il tronco e le radici, ma ha approfondito sul tema dell'eventuale divisione del PD col ripristino di un partito a predominio Ds e spinto dolcemente verso contenuti socialdemocratici, eventualità che merita un'analisi più dettagliata. Se si riconosce che i partiti politici siano delle organizzazioni sociali tese a servire e cautelare gli interessi di settori socio-economici ben definiti, dobbiamo porci la domanda: perché è sorto il PD? Secondo me, è sorto perché ad un certo momento della storia dello sviluppo economico del Paese nel dopoguerra, si erano conformate le condizioni materiali con i rispettivi legami più o meno saldi, che rendevano obsolete le tradizionali linee divisorie "ideologico-politiche" tra "rossi" e "bianchi", e consentivano tentare l'avvicinamento, prima, sul piano economico-finanziario (in maniera non compatta, ma piuttosto irregolare secondo i gradi di maturità raggiunto dai diversi settori interessati), e poi sul piano politico, il quale, come è noto, compie l'importantissimo ruolo di leggiferare all'uopo, per dare la dovuta scorrevolezza alla riproduzione della cuota del capitale (nazionale-estero) da esso rappresentata.
E' vero che rimangono al suo interno concezioni del mondo differenti, ma il Re capitale ha il potere di abbattere ogni tipo di barriera, oppure, di cambiare le carte in tavola, per proseguire la sua riproduzione nella maniera più efficiente ed efficace possibile. E' come l'acqua corrente, che trova sempre i punti di minor resistenza ( i più deboli) per proseguire il suo corso. In questo senso, la possibilità avanzata dal giornalista di Repubblica sull'eventuale divisione delle due anime fondatrici del PD, la vedrei fattibile, solo se la dinamica del capitale in questi quasi due anni avesse sperimentato cambiamenti tali da giustificare un cambiamento delle carte in tavola. Altrimenti, ci si trova a disquisire solo sul fogliame.
Tuttavia, ammesso ma non concesso che l'ipotesi "fantapolitica" di Massimo Giannini si avverasse, il taglio socialdemocratico da egli supposto rimarrebbe a livello di parole, di sola tattica politica contingente, perché un'organizzazione politica formatasi grazie al progressivo trentennale consolidamento della fase neoliberista del capitalismo nazionale, non può ricredersi per tornare a dare allo Stato e alle sue istituzioni pubbliche, la gestione del capitale nelle aree strategiche della produzione, della finanza, del commercio estero e dei servizi.
Jaime

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mercoledì 10 giugno 2009

E D'Alema affila le armi - "Questo partito va ricostruito"

di Massimo Giannini, su Repubblica on line
La tregua. Hanno parlato di tregua. "Almeno fino ai ballottaggi non facciamoci male", è la linea di Dario Franceschini. Ma se dal voto europeo esce una crepa nel Pdl, il voto amministrativo tradisce la frana del Pd. Dunque, altro che tregua. È già calata la notte dei lunghi coltelli.

Le tante, troppe anime perse del partito, senza dirselo esplicitamente, affilano le lame. Tra ex Ds ed ex Margherita divampa il fuoco amico: schermaglie dialettiche, che preparano battaglie politiche. Pierluigi Bersani osserva "per carità, ci siamo salvati, ma 'mo non raccontiamoci la balla che le cose vanno bene...". Telefona a un insoddisfatto D'Alema, che rimanda ogni valutazione pubblica al dopo 21 giugno, e stende i quattro punti programmatici per riancorare a sinistra il partito al congresso di ottobre. Enrico Letta aggiunge "abbiamo evitato il disastro, ma certo non possiamo brindare". Si consulta con un insofferente Rutelli, che convoca i suoi "coraggiosi" per il 3 luglio a Roma, e lancia subito un segnale di fumo all'Udc di Casini. Nel frattempo, il redivivo Walter Veltroni si prepara a "dire la sua" tra qualche giorno, mentre il semprevivo Romano Prodi non aspetta e la dice subito: "Ora è urgente un grande dibattito programmatico e ideologico, che fino ad oggi è mancato". E la chiamano tregua. In realtà il gruppo dirigente del Pd è più diviso che mai, e non ha un'exit strategy condivisa. La ventata d'aria nuova incarnata da Debora Serracchiani non basta a convincersi che serve una svolta, un'idea, una scommessa. La nomenklatura è confusa, e indecisa a tutto. "Attenti, così scorrerà del sangue...". A sfoderare le lame, suo malgrado, è proprio Massimo D'Alema. Finora ha taciuto. E vuole tacere fino ai ballottaggi. Ma il risultato delle elezioni non lo conforta. "Stavolta, almeno, evitiamo di fare l'errore dell'altra volta, e per favore, non diciamo che abbiamo vinto...". Il partito, secondo lui, non ha un profilo politico. E paga questo deficit, nelle urne.
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C'è di più. Secondo lui, il Pd paga anche il progressivo smarrimento della sua identità "di sinistra". "In campagna elettorale - confidava qualche giorno fa - la nostra gente non faceva altro che chiedermi: ma dove sono i nostri? Perché dobbiamo votare tutti candidati della ex sinistra democristiana?". Per questo il congresso di ottobre dovrà essere un momento di verità, un confronto a viso aperto, dal quale dovranno uscire una linea, un programma, un leader. Senza accordi sottobanco, senza soluzioni pre-confezionate. Il problema è che il Pd rischia di presentarsi a quell'appuntamento nel caos più totale. Per questo, D'Alema ha una tentazione segreta. Scendere in campo in prima persona. Giocare lui, in campo aperto, la partita. E magari candidarsi neanche alla presidenza (come gli è già accaduto ai tempi dei Ds). Ma direttamente alla segreteria. Un azzardo, che sembra fuori dalla logica e fuori dalla storia. Lui stesso ne è, in buona parte, consapevole. L'ha spiegati ai suoi, in queste lunghe settimane di campagna elettorale, i dubbi che lo tormentano. Almeno due. Il primo è che, dopo averlo già affossato una volta, non può silurare di nuovo Bersani, cui ha dato via libera appena un paio di mesi fa. Il secondo è che per storia e carattere si è ormai fatto tanti, troppi nemici: "Io lo so, nel partito, e non solo nel gruppo dirigente, c'è chi non mi ama. Sono uno che divide, anche se ho passato la vita a cercare di costruire l'unità...". Ma poi, qua e là, la tentazione riemerge. Ci sono segnali inequivocabili. La sua campagna elettorale è stata massacrante come nessun'altra, nella sua carriera politica. Otto, dieci comizi al giorno. Battendo ogni angolo d'Italia, dalla Puglia al Veneto. Con un'attenzione al centro Italia, alle ex zone rosse. In un solo giorno, per esempio, Montefalco, Perugia, Foligno, Terni, Livorno, Cecina, Grosseto. In un solo weekend, Bagnaia, Marina di Camerota, Battipaglia, Avellino. Perché questo tour de force, in solitaria? Con tutta evidenza, D'Alema ha trasformato la campagna elettorale in un suo sondaggio personale, per capire quanto consenso riscuote ancora tra quello che fu il "popolo della sinistra". In questo senso, il test lo ha confortato. Piazze piene. "A Piombino - raccontava qualche giorno fa - dopo un comizio un operaio mi ha preso per la giacca, e a brutto muso mi ha urlato: Massimo, 'sto partito l'è un casino, stavolta se ti tiri indietro te ci tiriamo indietro tutti...". A Orvieto mi ha illustrato invece la metafora di Telamonio Aiace. A domanda diretta: a ottobre si candida leader del Pd? Lui ha risposto vago, allusivo, col solito ghigno: "Mah... Tutti mi attaccano, tutti mi accusano di qualcosa, ma io sono in campo. Io sono come quel personaggio minore dell'Iliade, Aiace Telamonio. Ha presente? Il cugino di Achille, quello che combatteva un passo dietro agli eroi. Ma guarda caso, era quello che gli achei chiamavano sempre, all'ultimo momento, quando tutto era perduto e c'era da salvare le navi bruciate dai troiani...". Ma le urne del centrosinistra si riempirebbero mai, con il ritorno in pista di D'Alema-Telamonio, posto che qualche acheo abbia davvero l'ardire di richiamarlo a difendere le navi del Pd? Anche lui riconosce l'azzardo. Ma c'è uno schema, dietro quell'azzardo, che un minimo di logica, sia pure negativa, ce l'ha tutta. Un Pd con l'impronta dalemiana sconta, per il Partito democratico, il peggiore degli scenari. Cioè la diaspora dei centristi, la fuoriuscita di una costola ex democristiana dal Pd: Letta, Rutelli, Fioroni, Follini e tutti gli altri teodem in circolazione. A quel punto, si produrrebbe un chiarimento definitivo, e una "divisione del lavoro" tra le due forze. Il Partito democratico, in questo schema, prenderebbe atto di essere diventato quella Lega degli Appennini" vagheggiata da Tremonti: cioè una replica geopolitica riformista del vecchio Pci, che presiederebbe l'area sinistra in chiave socialdemocratica, e punterebbe a riassorbire ampi strati di elettorato della sinistra radicale di Vendola e di Rifondazione. La nuova formazione centrista, invece, dovrebbe mettere in piedi una "Cosa Bianca", con l'obiettivo di trovare un accordo con l'Udc, per impedire che Casini sia risucchiato, prima o poi inevitabilmente, nel nuovo "abbraccio mortale" con il Cavaliere. In questo modo, rinascerebbe il centro-sinistra con il trattino. Non più l'Unione prodiana, ma qualcosa di ancora più largo, che riaprirebbe i giochi politici e potrebbe tornare a contendere la maggioranza al centrodestra. Pura fantapolitica? È probabile. Ma anche di questo si parla, nel tintinnar di sciabole che prelude all'ennesima, sanguinosa resa dei conti del Pd. "Sfasciare il Pd per salvare il centrosinistra", è la formula paradossale riassunta da Follini. Ma le incognite sono infinite. D'Alema ci pensa. Franceschini è preoccupato. Veltroni medita. Prodi incombe. Fassino aspira. Rutelli scalpita. Viene in mente Arthur Koestler, in "Schiuma della terra": "Passeri cinguettano sui fili telegrafici, mentre il filo trasmette telegrammi con l'ordine di uccidere tutti i passeri".

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Elettori DP chiedono rinnovamento

Elettori PD chiedono rinnovamento,
Commento sull'Unità on line di oggi 10.6.09: http://video.unita.it/?video=1093 ,

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Le sberle del voto

di Rossana Rossanda, da il Manifesto on line:
Assieme all'astensione, che ha punito tutti i cantori dell'Europa quale che sia, le elezioni del 7 giugno hanno somministrato in Italia diverse sberle severe. La prima è quella dei due rissosi spezzoni di Rifondazione, nessuno dei quali ha raggiunto il 4 per cento, disperdendo oltre il 6 per cento dei voti espressi. Non ci riprovino, perché non beccherebbero più neanche quelli. La seconda è quella del Pd, il quale ha incassato lo schiaffone infertogli dallo sceriffo dell'Italia dei valori e col suo pasticciato programma ha subìto lo stesso colpo degli altri socialismi europei, privi di qualsiasi idea in proprio. La terza sberla l'ha presa Berlusconi, il cui sogno di oltrepassare il 40% per governare da solo con il sostegno della Lega si è dimostrato irrealizzabile

Il Pdl non ha superato il 35% e la Lega non è la costola di nessuno, è l'espressione nazionale di una destra europea particolarmente brutta, che mette radici da tutte le parti e condiziona il Pdl invece che farsi condizionare. Quanto ai cattolici o ex Dc, ormai seguiranno Casini, ci si può scommettere. Per ultimo, è certo che gli uomini di Fini non si sono dati troppo da fare per il Cavaliere: se lavorano, lavorano per il loro capo che si sta volonterosamente fabbricando un'immagine di destra presentabile, cosa che a Berlusconi e Bossi è impossibile.Né il Pdl né il Pd né la sinistra radicale sono riusciti a motivare l'elettorato, anche se l'astensione deve aver giocato piuttosto a sinistra, sempre nell'idea dura a morire che le sinistre rifletteranno sicuramente su chi gli ha rifiutato per sdegno il voto. L'astensione non le ha mai corrette. Ancora più derisorio appare che alcuni dei loro esponenti, già sicuri contro qualsiasi verosimiglianza storica, della vocazione bipartitica degli italiani - che dal 7 giugno è, per i politicisti, la vittima principale - dichiarino che i risultati sono abbastanza buoni. Fa impressione sentire dal Pd che esso «sta tenendo bene il campo». Il Pd deve riconoscere al più presto che la miscela di cui è fatto è indigeribile per chiunque vorrebbe un riformismo dotato di qualche senso. Non si può andare con l'Opus Dei e negare i diritti civili a un elettorato laico e anche cattolico adulto. Non si può, con la scusa di non demonizzare Berlusconi, infliggere a un elettorato semplicemente democratico le leggi fatte ad personam, le insolenze alla magistratura, le porcherie fiscali e quelle personali del cavaliere. Voglio ammettere che un terzo degli italiani s'è abituato ad ammirare l'improntitudine e l'impunità, ma per gli altri due terzi è difficile ingoiarle. Infine, la mancanza nel Pd di qualunque sensibilità sociale, sia pur moderata, la voglia non nascosta di mettersi al seguito di Emma Marcegaglia, e nello stesso tempo la mancanza di qualsiasi altra credibile sinistra sociale - credibile nel senso di dare ai lavoratori dipendenti più importanza che alle proprie velleità di protagonismo - ha probabilmente regalato all'astensione o al protezionismo di Tremonti una parte dei voti di quegli operai, i quali hanno poche scelte davanti al perdere il lavoro e con esso la sussistenza. Leggere oggi che Massimo D'Alema ha raccolto i suoi non per proporre una correzione di linea ma per confermare la sua promessa di fare segretario del partito Bersani, liberalizzatore dei taxi, fa cadere le braccia.Per ultimo, due parole sulla scomparsa della sinistra radicale, quella che ha disperso fra gli altri anche il mio voto. Sbaglia Asor Rosa dicendo al Corriere che nessuno ha tentato di evitarle la sbandata che ha preso. Molti di noi hanno tentato e senza volere per noi proprio nulla. Solo per timore che accadesse quel che era molto probabile e che infatti è accaduto. E non proponevamo partiti pasticciati, solo di dare una certa rappresentanza a una lista unitaria, quindi anche di sensibilità parzialmente diverse, ma di sicura onestà, fedeltà di sinistra e competenza. Non hanno voluto. Anzi, mi si corregga se sbaglio, in particolare Ferrero e Diliberto non hanno voluto. Non è che con ciò abbiano salvato il comunismo. A Pd, Rifondazione e Sinistra e Libertà suggeriamo di mandare i loro dirigenti in congedo al più presto. E se in mezzo a loro ci sono - e sappiamo che ci sono - persone serie e ragionevoli, chiediamo che riflettano al più presto su come leggere senza troppi svarioni i problemi che il 2009 sbandiera alle sinistre. È vero che ce ne sono almeno due, ma tutte e due hanno a che fare con i disastri prodotti dal capitalismo, più o meno selvaggio, o dalle illibertà politiche e civili. Tutto è scritto, basta saper leggere.

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