sabato 31 ottobre 2009

Le donne sono cambiate - Gli uomini dovranno cambiare

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Io non rispondo

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mercoledì 28 ottobre 2009

un contributo, dal blog di Beppe Grillo

sul blog di Beppe Grillo un post che vi invito a leggere: Atti osceni in aborto pubblico


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La questione è maschile

di Ida Dominijanni, da Il Manifesto on line

Dopo l'accoppiata Berlusconi - Marrazzo, e fatte salve le dovute differenze, è ormai evidente che il problema del rapporto fra sesso (mercificato) e potere non riguarda solo il presidente del consiglio e non tocca solo la destra: riguarda, l'abbiamo già scritto domenica, un nodo che stringe identità maschile e crisi della politica e che è bene cominciare a nominare come tale, se sullo stato in cui versa la politica vogliamo provare a uscire da un recitativo ormai usurato che non sembra portare da nessuna parte. «La questione è maschile», aveva scritto in tempi non sospetti Lia Cigarini su Via Dogana, interpretando la crisi della politica nella chiave di una mancata risposta maschile al terremoto innescato negli anni Settanta dalla separazione femminista. Nella stessa chiave ragionano Alberto Leiss e Letizia Paolozzi nel loro ultimo libro «La paura degli uomini. Maschi e femmine nella crisi della politica» (Il Saggiatore), che mette il mutamento dei rapporti fra i sessi al centro dell'indagine sulla crisi non solo della politica ma di tutte le principali agenzie che sovrintendono all'ordine socio-simbolico: la famiglia, il mondo del lavoro, la Chiesa, l'informazione, la scuola e l'università.
La tesi è che lo scossone impresso dalla rivoluzione femminista dal '68 in poi, in Occidente e ovunque nel mondo, ha destabilizzato il patriarcato e l'autorità maschile, senza che gli uomini abbiano elaborato una presa di coscienza e un cambiamento di sé all'altezza della presa di coscienza e del cambiamento femminile. Tesi raddoppiata da un'altra constatazione, che ovunque in Occidente il discorso democratico tenta con ogni mezzo di cancellare la stagione del Sessantotto, che della crisi della democrazia a ben vedere è uno dei fattori scatenanti, e cancella in particolare il fatto che la stagione del Sessantotto è «tagliata» dalla separazione femminile, dal farsi due di quella rivolta antiautoritaria in cui le donne presero a un certo punto la loro strada contestando non più solo i padri ma anche i fratelli: una separazione che da allora in poi, in Italia e non solo in Italia, non ha mai cessato di riprodursi (ad esempio nei momenti più caldi della storia del Pci, svolta compresa, e nei movimenti antagonisti).
La carrellata sul quarantennio passato in cui Leiss e Paolozzi - che su questi temi lavorano assieme da anni, sul sito www.donnealtri.it - ci guidano partendo dall'oggi e procedendo a ritroso era quella che ci voleva per dare a questa cornice interpretativa la materia e il sostegno della ricostruzione di fatti, dati, statistiche, percorsi legislativi, spostamenti del senso comune e dell'immaginario. Così per quanto riguarda la trasformazione della famiglia, dallo «storico» rifiuto del matrimonio riparatore di Franca Viola nel 1965 ai «nuovi padri» alle prese con l'affido condiviso di oggi. Così sulla violenza sessuale, un reato che non cessa di ripetersi e che non si sa più se interpretare «in termini di continuità, come il permanere di un'antica abitudine maschile, o in termini di novità, come una risposta nel quotidiano alle mutate relazioni fra i sessi». Così nel campo della bioetica, dove i conflitti fra laici e cattolici e fra scienza e religione sottintendono sempre una prestesa di controllo sul corpo femminile, ma sono anche sintomo di un'ansia maschile per la perdita del controllo sulla paternità e sul patronimico. Così nel mondo del lavoro, radicalmente trasformato dall'ingresso massiccio delle donne e da una qualità della loro presenza che sovverte lo schema, purtroppo persistente nel discorso della sinistra, del genere per definizione più oppresso e sfruttato. Così nella Chiesa, l'istituzione che forse più di tutte ha accusato il colpo inferto dalla soggettività femminile all'agenda etica, e che forse per questo più di tutte si para dietro continue riaffermazioni di ortodossia. Così nell'informazione, che nella sua grandissima parte, tuttora gestita da uomini, non riesce ad aprire occhi e orecchie al mutamento delle donne e continua a rappresentarle in base a due stereotipi, «o come vittime o come spregiudicate». Così, infine, nella politica, dove le ultime candidature femminili ai massimi vertici del governo negli Usa, in Francia, in Germania hanno messo in scena altrettanti percorsi sintomatici della difficoltà delle donne di rapportarsi al potere da una parte, e della paura degli uomini di perderlo dall'altra.
«La paura degli uomini» è, in tutti questi casi e in tutto il libro, un'espressione ambivalente: denota la paura che gli uomini tuttora incutono alle donne quando adottano il codice della violenza (sessuale, bellica, discorsiva), ma anche la paura che gli uomini provano per le donne e per un mondo messo sottosopra dalla rivoluzione delle donne. C'è nei due autori, per questo secondo tipo di paura, comprensione ma non indulgenza, né compiacenza: «Nelle società democratiche contemporanee, ci accorgiamo di un venir meno generalizzato dell'autorità maschile. Da qui la moltiplicazione di prese di posizione prometeiche, incapaci di nominare le sconfitte, di risposte dure, aggressive, che in realtà celano una profonda debolezza e grande fragilità». Ma se questa debolezza è vera, è vero anche che «è un linguaggio confuso quello che ascoltiamo in molti attori della politica, dell'informazione, della cultura e della religione, incapace di riconoscere il rapporto fra desideri, diritti, doveri», e che sono tante «le reazioni scomposte e inadeguate rispetto ai mutamenti prodotti dalla libertà femminile». Insomma, se «le donne sono cambiate, gli uomini dovranno cambiare», e di questo cambiamento non si vede per ora una sufficiente consapevolezza, o una consapevolezza che sia in grado di farsi discorso pubblico - anche se, Paolozzi e Leiss lo sottolineano, cominciano a sentirsi da parte maschile - ad esempio nelle ultime campagne sull'aborto e la procreazione assistita, ma anche sul più recente Berlusconi-gate - toni, accenti, autoesposizioni, stili di discorso che ancora fino a pochi anni fa erano sepolti sotto il diktat della razionalità e dell'oggettività.
E le donne? Per le donne, quello che è avvenuto è che «la differenza non è più un ostacolo, ma un vantaggio». Ma neanche loro possono stare semplicemente lì a goderselo: esso comporta anche una nuova forma di responsabilità politica. Non piace a Leiss e Paolozzi l'ipotesi che da parte femminile possa prevalere «una sostanziale estraneità ai destini della democrazia». Viceversa: «Noi pensiamo che spetti a uomini e donne agire nella politica, a ogni livello e in ogni contesto, con la consapevolezza di questo passaggio tanto delicato. Praticando una relazione e un conflitto fra i sessi che non è eliminabile ma che può darsi come non mortifero, non violento. Un incontro-scontro inedito».

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Carissime, Carissimi, vi scriviamo per proporvi di incontrarci a Roma

Domenica 8 novembre, dalle ore 11,30 alle 17. presso la Casa Internazionale delle Donne ( Via della Lungara)

Elettra Deiana, Fulvia Bandoli, Titti De Simone, Bia Sarasini, Bianca Pomeranzi, Silvana Pisa,Patrizia Sentinelli, Katia Zanotti.

E’ un’idea che è nata tra noi, negli incontri e negli scambi di riflessione che la nostra pratica di relazione rende possibili e ci aiuta a capire meglio quello che succede.


Il progetto sui cui molte di noi hanno investito e scommesso vive una fase difficile, tale da provocare disaffezione e sfiducia in quel mondo di sinistra che fino ad oggi ha sostenuto Sinistra e Libertà e ha guardato con simpatia ai nostri tentativi. Anche noi siamo preoccupate di fronte a quanto quotidianamente succede. Le logiche di conservazione dei piccoli perimetri, di autoconservazione dei ceti politici e di autoreferenzialità delle priorità messe in campo stanno bruciando tempo, occasioni e consenso. Il coordinamento nazionale nominato a Bagnoli, nonostante l’impegno e gli sforzi di molte e molti che ne fanno parte, non può rompere il circolo vizioso della sommatoria dei gruppi, che conta di più di ognuno di loro o di tutti loro messi insieme. Non c’è per ora nessuna realtà organizzata e abilitata a contare – Sinistra e Libertà in quanto tale – che ne sostenga gli sforzi. Soltanto un’efficace campagna di adesioni in vista dell’Assemblea Nazionale convocata per il 18 e 19 dicembre potrà mettere in campo questa realtà, con tutti i poteri che spettano alle iscritte e agli iscritti. Le pratiche politiche costituiscono uno dei problemi più gravi che abbiamo di fronte: pratiche per lo più maschili e spesso maschiliste, pesante eredità della crisi del Novecento e dell’autorità maschile, che non trova altro modo per sopravvivere che chiudersi in se stessa. Per loro intrinseca natura queste pratiche concorrono grandemente al restringimento delle relazioni e della positiva attenzione che in vari ambienti di sinistra era stata manifestata nei nostri confronti. Mentre molte persone, spesso donne, hanno dato vita a iniziative significative e a prese di posizione su alcuni grandi temi (scuola, pace, lavoro, ambiente, diritti civili) Sinistra e Libertà, nel suo complesso, appare invece assente o eclettica nelle posizioni politiche e slegata dai soggetti sociali. Ci colpisce inoltre quanto Sinistra e Libertà fatichi ad essere un luogo di donne e di uomini nel quale la libertà femminile sia principio fondante del progetto stesso. Proponiamo alle donne che vorranno compierlo un atto di cura del nostro progetto: l’assunzione della responsabilità pubblica nei confronti di ciò che condividiamo e per il quale continuiamo a spendere le nostre energie, la costruzione di uno spazio pubblico aperto condiviso da donne e uomini che avvertano come noi questa esigenza, sedimentando con i fatti responsabilità politica delle donne nell’avanzare proposte, nel delineare percorsi, nell’inventare regole e mediazioni efficaci. Uno spazio che rimetta in gioco quanto dalle donne e dalla loro storia e dal femminismo viene in termini di libertà, soggettività politica, pensiero sul mondo. Un tentativo che noi pensiamo possa far bene al progetto che non riusciamo a mettere al mondo e agli uomini che ne hanno veramente voglia come noi. E forse anche agli altri.

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'Da uomo a uomo', contro la violenza sulle donne

L'iniziativa di Maschileplurale in vista della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne
inserito da Redazione : www.maschileplurale.it

E’ una lettera ‘Da uomo a uomo’ sulla realtà della violenza di uomini sulle donne, è una presa in carico della responsabilità di atti che non possono essere ascritti al degrado o all’immigrazione, ma che chiedono una presa in carico collettiva e politica. In questa prospettiva in vista del 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, Maschileplurale ha programmato alcune iniziative ed ha stilato un documento, pubblicato nel sito e qui riportato integralmente, che sarà diffuso in tutto il territorio nazionale. Il 21 novembre a Roma, (Piazza Farnese, ore 15,30 / 19,30) è prevista un'iniziativa nazionale aperta a uomini e donne. Il 25 novembre in varie piazze e mercati sarà distribuita la Lettera e saranno organizzati piccoli eventi. In attesa di conoscere gli esiti dei contatti per l’eventuale partecipazione alla manifestazione nazionale delle donne del 28 novembre a Roma, contribuiamo a divulgare la Lettera che qui riportiamo integralmente.



"Da uomo a uomo" (Italia novembre 2009)

“Sono un uomo e vedo la violenza maschile intorno a me. Vedo anche, però, il desiderio di cambiamento di molti uomini. Scelgo di guardare in faccia quella violenza e di ascoltare quel desiderio di cambiamento. So che quel desiderio è una risorsa per sradicare quella violenza. Di fronte alle storie di mariti che chiudono le mogli in casa o le ammazzano di botte, di fidanzati che uccidono per gelosia le proprie ragazze, di uomini che aggrediscono o stuprano donne in un parco o in un garage, non penso ‘Sono matti, ubriachi o magari i soliti immigrati !’, non mi viene da dire: ’Quella se l'è cercata!’. Tutto questo mi riguarda, ci riguarda. Quando sento giudicare gli immigrati come una minaccia alle ‘nostre donne’ ricordo che la violenza contro le donne non nasce nelle strade buie, ma all'interno delle nostre case, ed è opera di tanti uomini, italiani e non, che picchiano e uccidono le ‘proprie’ donne. Quando osservo l'ironia, il disprezzo, la discriminazione che precedono la violenza contro lesbiche e gay non penso: ‘Facciano quel che gli pare, ma a casa loro’. So che mi riguarda, ci riguarda: quell'ironia e quel disprezzo li conosco fin da piccolo, sono una minaccia per chi non si comporta ‘da uomo’. La libertà di amare chi vogliamo e come vogliamo o è di tutti o non è di nessuno. Quando penso alle donne, spesso straniere, costrette a prostituirsi, prive di diritti, alla ricerca di difficili vie di uscita, non penso che ‘rovinano il decoro delle città’. Vedo nella loro vita l'effetto di un razzismo che avanza. La prostituzione, scelta od obbligata, parla innanzitutto dei nove milioni di clienti italiani e della sessualità maschile ridotta alla miseria dello sfogo e del consumo. Credo che la violenza contro omosessuali e trans, la diffusa richiesta di ordine e sicurezza, la crescente ondata di disumanizzazione dei migranti, il razzismo, l'egoismo dilagante, abbiano a che fare con le relazioni tra i sessi: la paura e il disprezzo verso le differenze sono una tossina che avvelena la nostra società. Ogni giorno sento il richiamo verso ogni uomo ad essere complice di questa cultura e ad aderire all'ideologia della mascolinità tradizionale. Sono stanco della retorica della patria, del nemico e dell'onore, della virilità muscolare e arrogante. Quando assisto dell'ostentazione di sé da parte di chi usa soldi e potere per disporre delle donne, sento che quell'ostentazione è misera, squallida e anche triste. Sono secoli che gli uomini comprano, impongono, ricattano e scambiano sesso per un posto di lavoro o per denaro. La novità sta nel vantarsene, strizzando l'occhio agli altri uomini in cerca di complicità. Non ci stiamo, e non per invidia o moralismo. Non ci interessa l'alternativa tra il consumo del corpo delle donne e l'autocontrollo perbenista. Al potere preferiamo la libertà, la libertà di incontrare il desiderio libero delle donne, compreso, eventualmente, il loro rifiuto. Quando il disprezzo per le donne, l'ostentazione del potere e le minacce contro i gay e gli stranieri diventano modelli di virilità da usare a scopi politici, capisco e sento che devo e dobbiamo reagire: come uomini prima ancora che come cittadini.







Sentiamo la responsabilità di impegnarci, come uomini, contro la violenza che attraversa la nostra società e le nostre relazioni. Non vogliamo limitarci alle ‘buone maniere’ e al ‘politicamente corretto’. Non ci sentiamo ‘protettori’ né ‘liberatori’. Sappiamo che le donne non sono affatto ‘deboli’. La loro libertà, la loro autonomia, nel lavoro, nelle scelte di vita, nella sessualità, non sono una minaccia per noi uomini e nemmeno una concessione da far loro per dovere. Sono un'opportunità per vivere insieme una vita più libera e ricca. Non ci basta dire che siamo contro la violenza maschile sulle donne. Desideriamo e crediamo in un'altra civiltà delle relazioni tra persone, una diversa qualità della vita, libera dalla paura e dal dominio. Vogliamo vivere una sessualità che sia altro dalla conferma della propria virilità e del proprio potere. Molti uomini hanno finora vissuto questo tentativo di cambiamento individualmente, cercando un modo nuovo di essere padre, una diversa relazione con la propria compagna, un modo diverso di stare con gli altri uomini, un rapporto diverso con il lavoro. Questa ricerca è però spesso rimasta solitaria e invisibile, senza parole. Vogliamo esprimerci in prima persona, vogliamo che il desiderio di libertà e di cambiamento di migliaia di uomini diventi un fatto collettivo, visibile, capace di parlare ad altri uomini”


Informazioni e adesioni: info@maschileplurale.it – www.maschileplurale.it



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lunedì 26 ottobre 2009

Un brutto nodo

di Ida Dominijanni, da Il Manifesto on line

Bene ha fatto Piero Marrazzo ad autosospendersi da governatore della Regione Lazio. Meglio avrebbe fatto a dimettersi: non ieri, dopo aver ammesso quello che l'altro ieri negava ostinatamente e incomprensibilmente, ma in quel di luglio, all'indomani degli ormai noti fatti, quando capì di essere sotto ricatto e, stando alle sue stesse dichiarazioni, pagò i ricattatori nel tentativo di mettere tutto a tacere. Tentativo vano, perché nell'epoca della riproducibilità tecnica di tutto vana è la speranza di mettere a tacere qualsivoglia cosa. Tentativo colpevole, perché un uomo di governo sotto ricatto ha l'obbligo di denunciare i ricattatori e, a meno che la causa del ricatto sia inesistente, non può fare l'uomo di governo. Non può fare nemmeno la vittima, o solo la vittima, come invece Marrazzo ha fatto nell'immediatezza dello scandalo.


Il governatore del Lazio è vittima e colpevole, tutt'e due. E' vittima di un'aggressione indecente dell'Arma dei carabinieri, un'aggressione su cui a noi tutti è dovuta piena luce dai vertici dell'Arma e dai ministeri competenti, i quali ci facciano il piacere di non provare a cavarsela con la solita tesi delle mele marce. E' colpevole di aver taciuto, sottovalutato, occultato quanto gli stava accadendo, con la solita tesi che la vita privata è privata e non c'entra niente con la vita pubblica.
Rieccoci al punto che tiene inchiodato il dibattito politico da sei mesi: e quando un punto ritorna così insistentemente, sia pur sotto una differenziata casistica, significa che è un punto dolente. Sono patetici i vari Cicchitto, Cota, Lupi e relativi giornalisti organici alla Feltri che si lanciano sulla succulenta occasione per salvare Berlusconi col duplice argomento che a) tutti hanno i loro peccati, a destra e a sinistra, b) chi di moralismo e violazione della privacy ferisce, di moralismo e violazione della privacy perisce.
Non casualmente, solo da destra si chiede che il governatore resti al suo posto, con l'unico scopo di far restare al suo anche il premier. Purtroppo però qui non si tratta di salvare tutti, bensì di non salvare nessuno. Pur cercando di esercitare la sempre più difficile arte delle distinzioni.
Piero Marrazzo non è colpevole di frequentare trans, come Silvio Berlusconi non è colpevole di frequentare escort o di avere, o millantare, tutte le fidanzate che crede. Entrambi sono colpevoli però di non aver capito che la vita privata di un uomo politico riverbera sulla sua immagine (e sulla sua sostanza) politica. Nonché di scindere, nella miglior tradizione della doppia morale di un paese cattolico, i lori vizi privati dalle loro dichiarazioni pubbliche di fede nei sacri valori della famiglia. Dopodiché le analogie finiscono. Marrazzo si dimette e Berlusconi no. Marrazzo si chiude disperatamente a Villa Piccolomini e Berlusconi fa un proclama al giorno per rivendicare che lui, l'eletto dal popolo, fa quello che vuole. Marrazzo - stando alle testimonianze - ha avuto relazioni personali con alcuni trans, Berlusconi è al centro di un sistema diffuso di scambio fra sesso, danaro e potere, in cui «il divertimento dell'imperatore» viene retribuito in candidature e comparsate in tv (privata e pubblica). Fa qualche differenza, e nel senso opposto a quello che scrive Il Giornale, che già salva la candida «normalità» del premier che va a donne contro l'immonda ambiguità sessuale del governatore che va a trans.
Per tutte e tutti noi si spalancano ogni giorno di più tre questioni. La prima - il punto dolente di cui sopra - è che l'ostinazione a scindere il privato dal pubblico e la vita personale dalla vita politica, in tempi in cui i telefoni filmano e registrano, la Rete diffonde e le donne non stanno zitte, rasenta la stupidità: vale per la destra ma anche per quella sinistra che oggi ne è colpita ma fino a ieri è stata su questo reticente. La seconda è che è vero che sui comportamenti sessuali non si può sindacare moralisticamente, ma se quelli che la cronaca ci rimanda sono sempre più spesso comportamenti sessuali di uomini di potere mediati dai soldi è lecito quantomeno interrogarsi sullo stato della loro sessualità e del loro potere. La terza è che se la politica, ripetutamente, inciampa nel sesso, in un sesso siffatto, qualcosa s'è rotto nel segreto legame che unisce qualità delle relazioni interpersonali e qualità del legame sociale, passioni personali e passioni collettive, desiderio individuale e felicità pubblica. C'è un brutto nodo che stringe questione maschile, questione sessuale e crisi della politica. Se è vero che, come ci insegnavano a scuola, oportet ut scandala eveniant, che almeno ci servano a vedere questo nodo, e a scioglierlo.



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domenica 18 ottobre 2009

Grande manifestazione antirazzizsta - Roma 17 ottobre

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sabato 17 ottobre 2009

Il laboratorio italiano

di Pierluigi Sullo [15 Ottobre 2009]
Traducción: Ruben Montedónico.
Pubblicato da La Jornada di Città del Messico sabato 10 ottobre 2009

Quando gli amici de La Jornada, grande quotidiano di Città del Messico, mi hanno chiesto un articolo, all’indomani della bocciatura del Lodo Alfano, mi sono chiesto se sarei stato in grado di far capire a un lettore messicano cosa diavolo capita in Italia. Giudicate voi. L’articolo è stato pubblicato sabato 10 ottobre. In calce, la traduzione in spagnolo.


L’Italia sta stabilendo un record: sperimentare, da paese del primo mondo e membro dell’Unione europea, della Nato e del G8, la trasformazione traumatica del suo assetto politico e istituzionale: da democrazia rappresentativa a qualcos’altro, le cui forme sono sconosciute ma la cui sostanza è evidente, un principato o dittatura monocratica che elimina la supremazia del parlamento sull’esecutivo, com’è scritto nella Costituzione del 1947, annulla l’indipendenza della magistratura, completa l’allineamento dei media al servizio del governo.
Pare una affermazione eccessiva. Molte voci, nel dibattito pubblico, replicano: «Ma noi non siamo una repubblica delle banane sudamericana». I pregiudizi sono duri a morire, e quel che sta accadendo in America latina, i movimenti sociali e i governi indipendenti dagli Usa, è per lo più ignoto, da noi. Tanto più che le forme della democrazia, fin qui, restano in piedi, come le facciate delle case dei villaggi del West nel film di Hollywood. Di più: la resistenza è forte, anche nelle istituzioni, come testimonia la sentenza della Corte costituzionale che qualche giorno fa ha annullato la legge grazie alla quale le quattro maggiori cariche dello Stato, il presidente della repubblica, i presidenti dei due rami del parlamento e soprattutto il presidente del consiglio, godevano di una sostanziale immunità, di fronte alla legge, per la durata del loro mandato. O come mostra, ancora, la grande manifestazione – centinaia di migliaia di persone in piazza a Roma – organizzata dal sindacato dei giornalisti a difesa della libertà di stampa, dopo gli attacchi del capo del governo a giornali e trasmissioni televisive che ne criticano scelte e atteggiamenti. Così, parrebbe che l’integrità dell’assetto costituzionale e i tentativi di modificarlo si scontrino tra loro, mantenendo un certo equilibrio.
Ma a guardare più da vicino, ed esercitando un poco di memoria, si vede come negli ultimi mesi siano arrivati a un punto critico processi di mutamento sostanziale del sistema politico e istituzionale cominciati una quindicina di anni fa con lo scandalo di Tangentopoli, che distrusse i partiti dominanti della cosiddetta «prima repubblica»; in particolare il partito-Stato della Democrazia cristiana, e con la «scesa in campo», nel 1994, di un potente delle televisioni, della finanza, dell’editoria, dell’edilizia e di molte altre cose, Silvio Berlusconi. Il quale introdusse un ingrediente fino ad allora sconosciuto: il marketing elettorale, gonfiato dalle sue televisioni, attorno a un partito-azienda, o partito-prodotto, chiamato Forza Italia. E soprattutto inaugurò la figura di un capo di governo che si comportava come il presidente di un consiglio di amministrazione, cioè lui stesso, dotato potenzialmente di ogni potere, dunque spogliato di ogni cultura democratica, che è appunto quella dell’equilibrio tra poteri che i costituenti, dopo il fascismo, avevano prudentemente disegnato. La frantumazione sociale causata dal liberismo, che ha indebolito le organizzazioni dei lavoratori e le sinistre, e l’illusione dell’arricchimento individuale, nonché il fenomeno della Lega nel nord del paese, che rappresenta appunto la spinta a competere nel mercato mondiale da parte di un popolo di piccoli industriali, hanno fatto da scenario positivo per l’avventura in politica di Berlusconi. Il cui messaggio fondamentale è stato, come fu per Napoleone III nel racconto di Marx, «arricchitevi!». Ovvero: potete tutti diventare ricchi, se mi imitate e mi sostenete.
La vita politica italiana è stata dominata, per un quindicennio, da questo personaggio e da questa «narrazione», e le due occasioni in cui il centrosinistra, con il suo discorso liberista moderato, ha prevalso alle elezioni, non sono state che parentesi. Ed ora il processo precipita in qualcos’altro. L’apparente rispetto di Berlusconi per le forme della democrazia, rendendola quel che qualcuno, utilizzando Guy Debord, ha chiamato «democrazia spettacolare», si sta sbriciolando. Quel che sta emergendo è il nucleo duro, dirigista e intollerante, del berlusconismo. Negli ultimi mesi una serie di scandali avrebbero dovuto indurlo a dimettersi o a moderare i toni. La clamorosa scoperta di un giro di prostitute che partecipavano a «feste» nella casa romana del primo ministro, ad esempio. Gli attacchi forsennati alla stampa e alle poche trasmissioni televisive che lo incalzano su queste faccende. I numerosi processi per corruzione e altri reati in cui è coinvolto, ultimo quello sulla Mondadori, grande casa editrice di cui Berlusconi si assicurò la proprietà, anni fa, corrompendo un giudice. Le ricorrenti voci sul fatto che i processi per le stragi di mafia dei primi anni novanta lo implicherebbero, cosa a cui lui stesso alluse in uno dei consueti comizi contro i «giudici rossi». Infine, appunto, la bocciatura, da parte della Corte costituzionale, della legge sull’impunità.
A tutto questo Berlusconi ha reagito con insulti al presidente della repubblica e alla Suprema corte, favorendo campagne di stampa diffamatorie contro i suoi avversari interni, come il presidente della camera Fini, cercando di impadronirsi definitivamente della tv pubblica, la Rai, riducendo il parlamento a un notaio degli atti del governo [il 90 per cento delle leggi approvate sono di iniziativa dell’esecutivo, da un anno in qua].
Ma questa è solo la superficie istituzionale, per così dire. La legge che ha introdotto il reato di «clandestinità», per cui è un migrante è colpevole per il solo fatto di essere in Italia senza documenti, ha creato un clima di paura e di caccia all’uomo. Altre leggi hanno del tutto escluso le comunità locali nei procedimenti per l’approvazione di «grandi opere», il che equivale, per citare i bolscevichi, a un «liberismo di guerra». La crisi economica, che sta provocando un drammatico aumento della disoccupazione, viene semplicemente negata dal governo, che non può abbandonare facilmente il messaggio dell’«arricchitevi». Mentre la campagna sulla «sicurezza» ha spinto nelle strade reparti dell’esercito, presuntamente alla ricerca di delinquenti, e legittimato le cosiddette «ronde», gruppi di civili che si sostituiscono alle forze dell’ordine. La spinta della Lega nord non solo verso un regime anche formalmente razzista, ma per il «federalismo fiscale», ossia la sottrazione delle regioni del nord dalla fiscalità generale, base dello Stato, hanno accentuato lo squilibrio già molto grave, e storico, tra sud e nord del paese.
L’Italia è in questo momento un paese molto interessante, purtroppo per i motivi sbagliati. La determinazione di Berlusconi nel restare al potere ad ogni costo può provocare eventi imprevedibili e, appunto, modificare l’assetto istituzionale democratico-liberale. In che tempi e con che mezzi nessuno lo sa, nemmeno il «premier». Siamo, come direbbe Almodovar, sull’orlo di una crisi di nervi, forse anche oltre.
El laboratorio italiano
Pierluigi Sullo*

Italia está imponiendo récord: como país del primer mundo, miembro de la Unión Europea, de la Organización del Tratado del Atlántico Norte (OTAN) y del G-8, experimenta la transformación traumática de su ordenamiento político e institucional; de una democracia representativa va hacia otra cosa, cuya forma aún es desconocida pero sostenida y evidente, como un principado o una dictadura unipersonal, que elimina la supremacía del Legislativo sobre el Ejecutivo –según lo ordena la Constitución de 1947–, anula la independencia del Poder Judicial y se complementa con la alineación de los medios de comunicación que se ponen al servicio del gobierno.
Lo anterior puede parecer una afirmación excesiva. Muchas voces replican: Nosotros no somos una republiqueta bananera. Los prejuicios se niegan a morir, y aquello que acontece en América Latina, los movimientos sociales y los gobiernos independientes de Estados Unidos, son ignorados por gran parte de nuestro público. Otro tanto ocurre con las formas de democracia en esas latitudes: al fin, lo que predomina son las visiones estereotipadas que nos aportaron las películas de Hollywood.
En contrasentido, la resistencia aquí es fuerte por parte de las instituciones, como lo testimonia la sentencia del Tribunal Constitucional que en estos días anuló la ley por la cual los cuatro principales cargos del gobierno estatal –el presidente de la república, los presidentes de cada rama del Legislativo y sobre todo el presidente del consejo de gobierno– gozaban de inmunidad especial durante sus mandatos.
Otro tanto exhiben ahora las grandes manifestaciones, como la organizada por el sindicato de periodistas –que reunió a centenares de miles de personas en Roma– en defensa de la libertad de expresión, tras los ataques del gobierno a los periódicos y a las transmisiones televisivas especialmente críticas y mordaces. Así, entonces, pareciera que la confrontación entre los defensores de la integridad del ordenamiento constitucional y quienes pretenden modificarlo se encuentran, ambas, en cierto equilibrio.
Pero si se observa más de cerca, y se ejercita la memoria, se ve cómo en los últimos meses han arribado a un punto crítico los procesos de cambios sustanciales en el sistema político e institucional, comenzando una quincena de años con el escándalo de Tangentopoli1, que destruye a los partidos dominantes de la considerada primera república, en particular el partido (Estado) de la Democracia Cristiana, y con el surgimiento –a partir de 1994– de un poderoso empresario de las televisoras, las finanzas, las editoriales, las constructoras y muchas otras cosas: Silvio Berlusconi. Éste introdujo en su momento un ingrediente novedoso, hasta ese momento desconocido, el marketing electoral –propulsado por los aires de sus televisoras– en torno a su partido-hacienda, su partido-producto llamado Forza Italia. Pero, sobre todo, instaló la figura de un “capo de gobierno” que se comportó como el presidente de un consejo de administración; es decir, idéntico a éste, dotado potencialmente de todos los poderes –aunque despojado de cualquier cultura democrática respetuosa de la máxima que otorga equilibrio entre los poderes constituidos–, desde un fascismo largamente proyectado.
El rompimiento social causado por el liberalismo, que debilitó las organizaciones de trabajadores y a la izquierda con las ilusiones del enriquecimiento individual, así como la Liga del Norte del país –representante ni más ni menos del impulso para competir en el mercado mundial por parte de un sector de pequeños industriales– montaron un escenario positivo para la aventura política de Berlusconi. Su mensaje político fundamental, como fue el de Napoleón III en la narración de Marx, ¡arriésguense! Claro: todos pueden volverse ricos, si me imitan y me sostienen.
La vida política italiana ha estado dominada, durante tres lustros, por este personaje con este mensaje, y en las dos ocasiones en los que la centroizquierda, con un discurso liberal moderado, ha ganado las elecciones, no han sido más que un paréntesis. Ahora el proceso institucional se precipita hacia otro lado. El aparente respeto de Berlusconi por las formas de la democracia, asegurando que él es sólo uno más, utilizando lo que Guy Debord llama democracia espectacular, se está desmenuzando. Aquello que está emergiendo es el núcleo duro, dirigista e intolerante del berlusconismo. En los últimos meses una serie de escándalos debieron inducirlo a dimitir o por lo menos, aunque más no fuera, a moderar los tonos. El estruendoso descubrimiento de un circuito de prostitutas que participaban en fiestas en la residencia romana del primer ministro es un ejemplo. Los ataques se publicaron en periódicos y por algunas pocas trasmisiones de televisión que lo captaron en sus quehaceres.
Los numerosos procesos por corrupción y otros hechos en los que se ha visto envuelto, el último en Mondadori –la gran casa editorial de la que Berlusconi se hizo propietario hace unos años– incluyen a un juez. Son recurrentes, también, las voces en los procesos contra la mafia en los 90 que lo implicaron, ante lo cual se defiende argumentando con uno de sus recursos favoritos que acusa a la judicatura de tener jueces rojos.
En fin, subrayo la reprobación por parte del Tribunal Constitucional de la ley de la impunidad.
A todo esto Berlusconi ha reaccionado con insultos hacia los presidentes de la república y de la Suprema Corte, iniciando una campaña difamatoria contra sus adversarios internos, como el presidente de la Cámara de Diputados, Gianfranco Fini, al intentar apoderarse definitivamente de la televisión pública –la Rai– reduciendo el Congreso a un notario de los actos del gobierno (90 por ciento de las leyes aprobadas en el último año han sido iniciativa enviadas por el Ejecutivo).
Pero, hay que decirlo, esto es sólo la superficie institucional. La ley que ha introducido el delito de clandestinidad, por el cual un migrante es culpable por el solo hecho de estar en Italia sin documentos, ha creado un clima de terror y de caza del hombre. Otras normas han excluido del todo a las comunidades locales en los procedimientos para la aprobación de las grandes obras, lo que equivale –parafraseando a los bolcheviques– a un liberalismo de guerra. La crisis económica, que está provocando un dramático aumento de la desocupación, es simplemente negada por el gobierno, que no puede abandonar con facilidad el mensaje de arriésguense. Mientras la campaña sobre la seguridad ha justificado las apariciones del ejército italiano en las calles, presuntamente en búsqueda de apresar delincuentes, se han legitimado las denominadas rondas, los grupos de civiles que suplantan a las fuerzas del orden.
El impulso dado por la Liga del Norte no es sólo hacia un régimen que fomenta el racismo, sino el federalismo fiscal, o sea la sustracción de la región del norte de las cargas fiscales generales, base de la captación del Estado, con lo cual acentúan los desequilibrios, ya muy graves, históricos, entre el sur y norte del país.
Italia es en este momento un país sumamente interesante para observar por todos los motivos señalados. La determinación de Berlusconi de mantenerse en el poder a cualquier costo puede provocar situaciones impredecibles y, advierto, modificar la ingeniería institucional democrático-liberal. En qué tiempo y con qué medios, nadie lo sabe, y menos el premier. Estamos, como diría Almodóvar, al borde de una crisis de nervios, o, tal vez, más allá.
1 Manos Limpias (Mani pulite) se conoce al proceso judicial llevado a cabo por el fiscal Antonio di Pietro en 1992. El mismo descubrió una extensa red de corrupción que implicaba a los principales partidos políticos de entonces y a varios grupos empresariales. Los hechos causaron conmoción pública, conociéndose como la tangentopoli. Tangente se entiende como comisión ilegal (mordida) en italiano (N. del T.).



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Verità e potere. Il 3 Ottobre scorso, In piazza per la libertà di stampa

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giovedì 15 ottobre 2009

Emergency presenta: "Domani torno a casa", il 12 Novembre p.v. al cinema Rosebud, Reggio E.

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mercoledì 14 ottobre 2009

Reggio Fahrenheit: Il caso Luzzara e l'integrazione - Cittadini a scuola

Reggio Fahrenheit: Il caso Luzzara e l'integrazione - Cittadini a scuola

In tema di esternalizzazione dei servizi, giustamente sollevato da Matteo, mi riservo di dire qualcosa nei prossimi giorni.
Se qualcuno vuole intervenire nel blog può farlo cliccado su crea un link.
Dino Angelini

Il resto lo nascondi qui :)

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Il caso Luzzara e l'integrazione - Cittadini a scuola

di Matteo Rinaldini (*), da Il manifesto on line

La vicenda dell'inserimento differenziato dei figli di immigrati nelle scuole dell'infanzia di Luzzara sta facendo molto discutere. Questa vicenda ha il pregio di fare emergere alcune questioni antiche, di anticipare scenari futuri e allo stesso tempo di relativizzare alcuni luoghi comuni sugli immigrati e sui processi migratori. Il dibattito è proseguito inasprendosi sempre di più e determinando delle vere e proprie contrapposizioni: da una parte il Comune di Luzzara e l'istituzione scolastica hanno fatto appello alla complessità del problema, stigmatizzando (quasi irridendo) coloro che avevano idee chiare sull'argomento, salvo poi prendere provvedimenti che di complesso non avevano nulla, ma che anzi risultavano essere sorprendentemente semplicistiche; dall'altra parte la Cgil, a cui solo successivamente si è aggiunta Rifondazione Comunista, che hanno denunciato il modo in cui la complessità del problema è stata gestita e hanno accusato il Comune di Luzzara e l'istituzione scolastica di avere messo in atto pratiche discriminatorie che non favoriscono l'integrazione.

Il dibattito è poi progressivamente salito di tono. Prc e Cgil sono stati definiti come «anime belle», «beati loro che hanno la soluzione in tasca», «i signori so-tutto-io", "opportunisti», «ignoranti», «soliti movimentisti», quasi che loro fossero il vero problema per il fatto di avere mostrato un senso civico oggi più unico che raro. D'altro canto al Comune e alla scuola sono giunte da qualche parte critiche di razzismo, di discriminazione razziale, di produttori di un regime di apartheid, ecc... Anche se, oggi più che in passato, per fare arrivare un messaggio c'è bisogno di bucare il muro mediatico attraverso termini d'impatto, continuo a ritenere che il linguaggio sia importante e le parole vadano sempre dosate: "anime-belle" e "ignoranti" utilizzati in questa occasione risultano essere termini gratuitamente offensivi, indicatori del poco apprezzamento che alcuni hanno per chi oggi a sinistra ancora possiede senso critico e ha il coraggio di portare avanti senza compromessi alcuni valori e principi; lo stesso termine complessità dovrebbe essere utilizzato con maggiore rispetto e non dovrebbe essere utilizzato per coprire provvedimenti azzardati o per proteggersi da critiche legittime; allo stesso tempo "apartheid" e "razzismo" sono due termini precisi e al contempo (questi sì) complessi che non dovrebbero essere usati con disinvoltura. L'utilizzo di un linguaggio improprio, tuttavia, non dovrebbe distogliere l'attenzione su ciò che è accaduto a Luzzara, né dovrebbe impedire di prendere una posizione netta su questa vicenda. Inoltre, se è vero che oggi a sinistra c'è più che mai bisogno di una posizione ferma su queste tematiche, non disprezzerei il fatto che qualcuno ha avuto il coraggio di assumerla. L'impressione, invece, è che in molti (anche a sinistra) nel dibattito locale hanno colto l'occasione o per mantenere una equidistanza o per lanciare un generico "abbassate i toni!", evitando di andare al nocciolo della questione. Ma al nocciolo della questione è necessario andare una volta per tutte e per fare ciò c'è bisogno di considerare alcuni aspetti che nel dibattito che si è sviluppato sui media sono stati omessi.
Andiamo per ordine e ricostruiamo schematicamente la vicenda. A Luzzara nasce una sezione della scuola dell'infanzia statale di soli figli di genitori stranieri o di origine straniera. La scuola e il Comune si difendono sostenendo che da anni i genitori italiani hanno cominciato a portare i figli alla scuola privata che è presente nel territorio (quella della parrocchia) e che nella scuola statale sono rimasti talmente pochi figli di genitori italiani e talmente tanti figli di genitori immigrati che risulta impossibile formare due sezioni miste. L'unica soluzione possibile, secondo la scuola e il Comune, sarebbe stata quella di formare una sezione di soli figli di immigrati e un'altra formata al 50% da figli di italiani e al 50% da figli di immigrati. Una ripartizione alternativa (ad esempio il 75% di bambini figli di immigrati per sezione), secondo il Comune e la scuola sarebbe stata controproducente per tutti, in quanto ne avrebbe risentito la qualità dell'insegnamento e il lavoro delle maestre. Alcune famiglie immigrate quando si accorgono di quello che è stato deciso non lo accettano passivamente: i genitori immigrati temono che questa separazione non vada a favore delle possibilità di socializzazione dei loro figli, che comprometta le loro possibilità future di integrazione e decidono di chiedere aiuto alla Cgil, la quale decide di appoggiare la causa delle famiglie immigrate.
Già a questo punto ci sarebbe materiale per fare diverse riflessioni: una prima riguarda il fatto che non sono stati gli immigrati ad essere organizzati e mobilitati dalla Cgil, ma che sono stati gli immigrati a "svegliare" la Cgil; una seconda riguarda proprio il fatto che le famiglie di immigrati si sono rivolte alla Cgil e non a un'altra organizzazione o partito, non a Rifondazione e nemmeno al Pd, nonostante i rappresentanti di quest'ultimo sbandierino come simbolo di vocazione integrazionista l'iscrizione tra le fila del partito di una edicolante indiana; una terza riguarda il fatto che tra le famiglie di immigrati ci sono anche persone che hanno acquisito la cittadinanza italiana (per non parlare dei bambini, molti dei quali sono nati in Italia e che non sono cittadini italiani solo a causa di una legge degna della Svizzera degli anni '50) e di conseguenza verrebbe da chiedersi su quale criterio la distribuzione dei bambini per sezione è stata fatta (etnia, religione, cultura, origine geo-culturale, ecc? Tutte categorie non proprio a-problematiche se adottate da un'autorità pubblica); una quarta è quella sull'opportunità che il criterio della residenza delle famiglie rivesta ancora una importanza esclusiva, per di più su scala microterritoriale, nel meccanismo di distribuzione dei bambini nelle diverse scuole o se invece, in un mondo così cambiato rispetto a quando questo criterio è stato pensato, non sia più opportuno ridimensionarlo.
Ciò che però è riportato solo parzialmente sui giornali e dalle televisioni è come si è arrivati a questa situazione così complessa (perché bisogna ammettere che qualche elemento di complessità in effetti c'è, vista l'alta presenza di immigrati su un territorio così piccolo, l'alta percentuale di bambini con genitori immigrati e il problema che ci si deve porre di come inserirli a scuola).
Proviamo allora a sintetizzare brevemente le questioni omesse. È spesso ricordato sui giornali che l'alto numero di bambini figli di immigrati nella scuola statale è determinato dalla fuga, in atto da diversi anni, dei genitori italiani verso la scuola privata del parroco. Questo dato incontestabile pone evidentemente un problema: ci si deve, infatti, interrogare sui motivi che portano i genitori italiani a separare i loro figli dai figli degli immigrati, a fargli vedere solo una parte di mondo e a precludergli la possibilità di crescere con i bambini che vivono oggi e vivranno da adulti nello stesso territorio. Prima o poi questo problema di separatezza, che appunto non riguarda solo i figli degli immigrati ma anche quelli degli italiani, lo si deve affrontare, se mai proprio attraverso il coinvolgimento delle famiglie e la dimensione di Luzzara, non essendo quella di New York, dovrebbe favorire questo confronto. Detto questo, però, nessuno ricorda che la scuola del parroco è finanziata anche dallo stesso Comune di Luzzara e questo sposta l'attenzione su un altro aspetto del problema. Il Comune di Luzzara, alla pari di molti altri Comuni della provincia, durante gli anni '80 ha rinunciato alle scuole dell'infanzia comunali e ha deciso di distribuire i finanziamenti annuali alle scuole già stanziate sul territorio, sia a quelle statali che a quelle private (e cioè quella del parroco). Il motivo di questa scelta bisognerebbe chiederlo agli amministratori di allora, ma è facile immaginare che due fattori come il declino delle nascite di quel periodo e la non convenienza a breve termine dell'apertura di una scuola dell'infanzia abbiano pesato molto nel prendere questa decisione. Le conseguenze delle scelte operate allora oggi si vedono tutte e sempre oggi ne emergono le contraddizioni. Oggi a Luzzara non ci sono scuole comunali e i fondi sono distribuiti tra la scuola statale e quella privata. È sempre bene ricordare che i fondi e i finanziamenti a cui ci stiamo riferendo sono quelli dei cittadini residenti a Luzzara (che siano italiani o indiani o pakistani o marocchini). Ora, il Comune di Luzzara, o meglio i cittadini di Luzzara (tutti), finanziano entrambe le scuole, ma i figli dei cittadini di origine straniera sono di fatto obbligati a iscrivere i propri figli nelle scuole statali (e non per una questione di costi, perché a Luzzara la scuola della parrocchia costa meno di quella statale). Il motivo è che le scuole statali sono dotate di un regolamento che permette di avere un tetto alto riguardo il numero di bambini stranieri da inserire nelle sezioni, mentre la scuola della parrocchia ha la facoltà di stabilire in autonomia il proprio regolamento e il proprio tetto di inserimenti e nel caso della scuola della parrocchia di Luzzara il tetto sembra essere stato stabilito a 5 bambini! Cosa succede quindi? Succede che le famiglie immigrate quest'anno, una volta saputo che i loro figli avrebbero rischiato di essere messi in una classe separata rispetto a quella dei bambini italiani, hanno chiesto di inserire i propri figli nella scuola della parrocchia, mandando in tilt tutti i teorici del conflitto tra culture e dello scontro tra civiltà, ma si sono sentiti dire che nella scuola della parrocchia c'era posto solo per un bambino straniero perché se ne erano iscritti già 4 (ora sembra che il numero sia arrivato ad 8, facendo un'eccezione). Se si tiene presente questo aspetto la complessità della vicenda di Luzzara assume tratti diversi. Molti degli elementi di complessità, infatti, sono riconducibili al contesto in cui si trovano collocati gli immigrati e non tanto a questi ultimi, alle politiche di breve respiro e non solo ai progetti di stabilizzazione a lunga permanenza degli immigrati, agli scarsi investimenti verso un settore strategico come quello dell'istruzione (di qualsiasi grado) e non solo all'alta presenza di minori immigrati (o con genitori immigrati) in età scolare. A fronte di tutto ciò, risulta sorprendente il fatto che il Comune di Luzzara non abbia detto nulla, né abbia avanzato alcuna richiesta di modifica del regolamento della scuola della parrocchia pur contribuendo a finanziare quest'ultima. In questo caso non si tratta di avere dubbi riguardo la legittimità del finanziamento del Comune alla scuola parrocchiale. Siamo, infatti, ad un livello più avanzato. Il problema in questo caso è che se un cittadino (italiano, indiano o pakistano), attraverso il Comune, finanzia una scuola privata dovrebbe avere voce in capitolo almeno sulle regole in vigore nella scuola e soprattutto non può accettare che siano in vigore regole che tendono ad escluderlo. Se il Comune invece di avere reazioni scomposte con coloro che nutrono legittimi dubbi sui supposti aspetti virtuosi di questa operazione di separazione dei bambini cominciasse a contrattare l'applicazione di uguali regolamenti nelle scuole statali e private del territorio, probabilmente alcuni problemi si risolverebbero. Ovviamente per fare questo è necessario rimettere in discussione assetti che fino ad ora si era abitati a considerare acquisiti.
La situazione che si è verificata a Luzzara non va sottovalutata soprattutto perché la complessità della situazione non coincide con la sua eccezionalità, dal momento che quello che si sta verificando in quello specifico territorio ha tutto l'aspetto di essere un fenomeno di avanguardia, un caso avanzato ed emblematico di quello che gradualmente diventerà una situazione estesa a livelli che non riguardano solo la provincia in questo caso interessata. Nessuno si illuda infatti: l'attuale crisi economica non avrà effetti molto significativi sul volume dei flussi reali di migranti in entrata nel nostro paese, né tanto meno ne avrà sulla presenza degli immigrati già residenti sul nostro territorio. Forse questa che ci si presenta può essere una occasione da cogliere al volo per evitare di avere problemi più grossi e più estesi in futuro. Perché una cosa è certa: con l'immigrazione niente rimane come prima.
* Università di Modena e Reggio Emilia

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martedì 13 ottobre 2009

Sintesi del rapporto Italia eurispes 2009

Sintesi Rapporto Italia Eurispes 2009




mi pare molto importante anche questa notizia che viene da una pagina di facebook :
.. La notizia sul rapporto Eurispes di oggi è stata già censurata dai principali media on line, Corriere.it e Repubblica.it infatti, sono tra le prime testate on line a non dare la notizia nella loro homepage. Il Ministro Maroni ha, infatti, rubato la scena dell’attenzione della stampa con il “traffico di organi di bambini” – notizia gravissima – ma che in queste ore sta eclissando tutte le notizie drammatiche che arrivano sulla recessione negli Usa e sicuramente occuperà le prime pagine dei quotidiani di domani e le aperture di tutti i tg di prima sera. E’ una notizia che cerca ovviamente di distrarre gli italiani da tutto il resto.

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La questione della “razza” in Italia. Genealogia del razzismo lungo le trasformazioni dello sfruttamento

di Anna Curcio, da: Informazione libera su Facebook
11 / 10 / 2009

Alla fine degli anni settanta, quando la Rai mise in onda Radici, il serial televisivo sulla storia degli schiavi africani in America, mia nonna che il novecento lo ha attraversato tutto, chiedeva con insistenza di cambiare canale: “i negri mi fanno impressione” diceva. É stato in questo modo che, bambina, ho scoperto la “razza” e il razzismo, anche se solo nei decenni successivi avrei compreso fino in fondo di cosa si trattava, perché quei corpi neri terrorizzavano tanto mia nonna.


Dieci anni dopo, verso la fine degli anni ottanta, la musica di Chuck D, i Public Enemy e la storia delle Black Panther che presi a divorare, forse spinta proprio dalla curiosità aperta dall’affermazione di mia nonna, mi insegnarono che la “razza” non é un fattore biologico, ma anche che le discriminazioni razziali e le lotte che sfidavano apertamente tali discriminazioni, non sono un affare americano. Anche in Italia, oggi come ieri, le discriminazioni sul terreno della “razza” hanno stabilito gerarchie, rapporti di subordinazione e forme dello sfruttamento.
Mia nonna, settantaquattro anni nel 1978 e trentadue nel 1936 al momento dell’espansione italiana in Etiopia, aveva direttamente vissuto la grande depressione, quando la retorica fascista ed il progetto di espansione in Africa si proponevano di gestire il terremoto che aveva investito la divisione internazionale del lavoro. All’indomani della crisi si trattava di definire una nuova organizzazione del lavoro e la “faccetta nera” avrebbe garantito l’esistenza di un bacino di forza lavoro a basso costo.
A partire dall’Unità d’Italia, era stato il lavoro meridionale a garantire alle nascenti imprese industriali l’approvvigionamento di forza lavoro a basso costo. Supportato da un’ampia letteratura che distingueva una razza ariana e caucasica nel nord ed una razza negroide nel sud, produttiva la prima, pigra e indolente la seconda, il razzismo antimeridionale di fine ottocento aveva gestito la costituzione del mercato del lavoro dell’Italia unitaria, stabilendo la subordinazione dei lavoratori meridionali. Ma é soprattutto con lo sviluppo industriale del secondo dopoguerra che una «nuova costellazione del razzismo» si impose. Sono gli anni delle migrazioni interne, quando le grandi città industriali del nord moltiplicano rapidamente la popolazione e la razzializzazione del lavoro dal sud trova nei cartelli “non si affitta a meridionali” una delle innumerevoli manifestazioni.
Ancora una volta la subordinazione del lavoro razzializzato si pone a servizio del capitale gestendo, questa volta, le trasformazioni produttive e il “miracolo italiano”. Ma la “razza”, la storia americana e il Black Power insegnano, é anche un potente terreno di soggettivazione, spazio per la produzione di conflitti e ambito di trasformazione politiche e sociali. Sono proprio gli operai meridionali razzializzati che animano le lotte degli anni sessanta e settanta, riconfigurando le relazioni del lavoro e dell’intera società.
Negli anni successivi, i processi di globalizzazione e le trasformazioni produttive, proporranno il razzismo in forma nuova. Ma quando la Rai manda in onda Radici, l’Italia non é un paese multietnico. Il colonialismo straccione di questo paese non ha mai avviato i trasferimenti in massa dalle ex colonie che in Francia o in Gran Bretagna avevano disegnato una società multietnica. Ci vorranno gli anni Ottanta, quando, le spiagge di mezza Italia e le città d’arte del paese si popolano di venditori ambulanti: i «vu cumpra’» in Calabria, dove sono cresciuta. Di lì in avanti accantonato il razzismo meridionale sarà un crescendo di razzismo anti-immigrati che andrà di pari passo al crescere ininterrotto delle migrazioni.
Nel febbraio del 1991 i bottegai fiorentini organizzano un raid contro gli ambulanti. Si tratta a mia memoria, del primo episodio di nuovo razzismo, il primo di una lunga serie di episodi che hanno avuto una violenta recrudescenza negli ultimissimi anni, con l’insediamento del governo razzista di Pdl e Lega Nord. Ma il razzismo istituzionale nella storia più recente di questo paese ci rimanda almeno alla primavera del 1996. Una corvetta della guardia di finanza sperona e affonda nel canale di Otranto l’ennesima nave di profughi albanesi diretta verso le coste pugliesi, Romano Prodi é alla guida del governo. Nel 1998 la legge Turco-Napolitano che istituisce i Centri di Permanenza Temporanea istituzionalizza definitivamente il razzismo anti-immigrati.
Razzializzazione e illegalizzazione saranno di lì in avanti le parole d’ordine bipartisan per la gestione del mercato del lavoro in Italia e in Europa. Nordafricani, filippini, albanesi, senegalesi, etiopi, e poi donne e uomini da Ucraina, Russia, Romania hanno visto alternativamente restringersi o dilatarsi le maglie del razzismo. Un vero e proprio «management razziale» ha a fasi alterne garantito l’accesso di alcuni e l’espulsione di altri. Un sistema a soffietto che si é indiscutibilmente irrigidito con la crisi economica globale. Gli “extracomunitari” albanesi, nemico pubblico negli anni Novanta, hanno lasciato il posto ai rumeni, ormai cittadini europei, quando hanno trovato una collocazione, benché subordinata, nel mercato del lavoro Oggi moltissimi indiani, pachistani, magrebini, senegalesi hanno assunto ruoli chiave, spesso indispensabili, in molti settori produttivi, altri si sono fatti carico del lavoro edilizio, quello in subappalto e privo di garanzie. Finanche il pacchetto sicurezza, la più grande stretta sull’immigrazione che questo paese ricordi, ha dovuto cedere alle pressioni del mercato e garantire un sistema, seppur capestro, per legalizzare i lavoratori e soprattutto le lavoratrici migranti impegnate nel lavoro di cura ormai ampiamente esternalizzato dalle famiglie.
La questione della “razza”, dunque, in Italia come altrove, lungi dall’essere un mero fenomeno ideologico ha radici profondamente materiali. Bisogna indignarsi davanti al respingimento dei richiedenti asilo, alla criminalizzazione di chi é privo di documenti, alle espulsioni. Poiché le condizioni dei migranti sono il paradigma delle nuove forme di vita e della precarietà di tutti, occorre costruire ampie coalizioni che sappiano mettere a tema il nodo dello sfruttamento per rovesciare l’ordine sociale e del lavoro vigente.


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lunedì 12 ottobre 2009

Caro Silvio, c'è una cosa che tu non avrai mai...



questo video mi è stato segnalato un amico, che lo ha così commentato: "soavemente inesorabile!", ciao! dino

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sabato 10 ottobre 2009

Il Sud che resiste. Storia di lotte per la cultura della legalità in Terra di Lavoro

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venerdì 9 ottobre 2009

Il corpo delle donne, un documentario di Lorella Zanardo e Marco Malfi Chindemi

da you tube

Il corpo delle donne, 1




Il corpo delle donne, 2




Il corpo delle donne, 3

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Lapsus di Berlusconi sui giudici

Lapsus (*) di Berlusconi sui giudici, da you tube



(*) I lapsus rivelano qualcosa di noi, qualcosa che la nostra coscienza vorrebbe tenere nascosto agli altri ma anche noi stessi. Il lapsus è un processo mentale in cui un pensiero che c'è dentro di noi e che noi non vogliamo ammettere (di fornte a noi stessi ed agli altri), fa un'opera di giustizia uscendo allo scoperto!!!

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Due cose che sciolgono il cerone

di Ida Dominijanni, da Il Manifesto on line

Concitato, ecco, Berlusconi era solo un po’ concitato, dice il fido Bonaiuti, e quando uno è concitato «può succedere»... Può succedere che gli scappi una battuta più sessista che razzista o più razzista che sessista, scegliete voi. Ma può anche succedere, a Berlusconi succede sempre più spesso, che la concitazione gli strappi dalla faccia la maschera di cerone con cui di solito si ingessa in tv, e che improvvisamente ci appaia com’è in natura: un poveraccio circondato da poveracci, uno che non sa più che fare di se stesso e che come tutti quelli che non sanno che fare di se stessi se la prende con la prima donna che gli capita a tiro. «Vedo che c’è la signora Bindi, che è sempre più bella che intelligente». Bell’autogoal, complimenti.

Raddoppiato dal compagno di merenda di turno, l’ingegner Castelli nonché - absit iniuria verbis - ex guardasigilli: «Ma perché parli sempre, zitella petulante?». Complimenti raddoppiati. Giacché si diverte a portare in tribunale salvo se stesso chiunque e qualsiasi cosa, domande impertinenti comprese, il premier potrebbe querelare la tv e la sua adorata Porta a porta per alto tradimento. L’immagine non mente, e lo schermo assegna nettamente il vantaggio a Bindi. Per quello che dice, «Presidente, io sono una donna che non è a sua disposizione, e che dice la verità», e per come lo dice, a testa alta, sguardo piantato nella telecamera e concitazione zero. L’immagine non mente anche sugli astanti, uomini: tutti zitti stecchiti, dal padrone di casa agli ospiti. E poi dicono che su Berlusconi c’è «il silenzio delle donne».
Per l’occasione peraltro ritrovano la lingua anche molte colleghe della vicepresidente della Camera che in questi mesi l’avevano perduta o balbettavano, e perfino molti colleghi, gli stessi che finora hanno parlato solo per dire che la faccenda dei rapporti di Berlusconi con le donne è una sua faccenda privata poco seria in cui la politica, che invece è una cosa seria, non deve mettere il dito. Rosi Bindi, che invece è una che sulla faccenda ha parlato e con nettezza fin da subito, da donna e da cattolica, merita beninteso questo e altro, infatti siamo tutte pronte a sostenere con lei quella tranquilla sfida - «la vedremo» - con cui ha chiuso il suo duello col premier. Ma è lecito chiedersi se anche sulla dignità delle donne valgano, in casa Pd, due pesi e due misure? La dignità delle donne vale doppio nel caso che la donna in questione sia una parlamentare, e vale la metà nel caso di mogli (Veronica), giornaliste (variamente aggredite dal premier qua e là), per non dire delle escort (minacciate di essere spedite in galera per 18 anni)? Misteri di classe e di ceto (politico). Incassiamo comunque questo risveglio. Meglio ancora, il ceffone di rimando di Livia Turco al premier: «Le donne pensano, sanno valutare e presto lo manderanno a casa». Lo sa anche il premier, che sono le donne che lo stanno mandando a casa. Da sua moglie a Rosi Bindi, una vera persecuzione, altro che i giudici. «Sono una donna che non è a sua disposizione» e «dico la verità» sono precisamente le due cose che Berlusconi e quelli come lui da una donna non possono sopportare: gli si rompe lo specchio in cui ricompongono a fatica un sé inesistente. E’ per questo, Bonaiuti, che il premier è ormai da mesi perennemente concitato?

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Sesso e politica nel post-patriacato - 10 ottobre dalle ore 10 alla Casa internazionale delle donne di Roma

Maria luisa Boccia, Ida Dominijanni, Tamar Pitch, Bianca Pomeranzi, Grazia Zuffa

Sesso e politica nel post-patriacato
Lo scambio tra sesso, potere e denaro, nel caso-Berlusconi, ci parla del degrado della cosa pubblica. Dell’uso privato delle istituzioni e del potere. Dell’asservimento dell’informazione – non tutta, ma la maggior parte -, con conseguente aggressione ai pochi spazi di libertà e di critica.


Ma resta oscurato, nella rappresentazione che ne è stata data, quello che è il cuore della vicenda: la sessualità maschile e il rapporto con le donne di un uomo di potere. Ci troviamo di fronte a una sessualità e a un potere maschili che si esercitano su donne ridotte a corpi rifatti, per essere oggetti compiacenti di consumo. Nell’harem, a pagamento o meno, di Berlusconi la virilità è messa in scena come protesi del mito del capo. E le donne sono disponibili, perché subalterne a quella messa in scena. O al più interessate a uno scambio. Siamo all’eterno ritorno dei ruoli tradizionali? L’uomo al centro, da vero protagonista, le donne intorno, interscambiabili, accomunate e confuse in una stessa immagine? Noi pensiamo di no.
La vicenda sessuale e politica del premier e della sua corte ci parla, al contrario, del dopopatriarcato: intendendo con questo termine non la risoluzione, ma una nuova configurazione del conflitto fra i sessi. La sessualità maschile è, in tutta evidenza, in crisi. Non (solo) di prestazione, con relativo corredo di protesi tecnologiche e farmacologiche: bensì di desiderio, e di capacità di relazione. Gli uomini hanno ancora potere e lo usano nei rapporti con le donne. Ma è un potere senza autorità: nudo, come è nuda la miseria di una virilità tradizionale che si tenta di ripristinare contro la destabilizzazione dei ruoli sessuali provocata da quarant'anni di femminismo.
Quanto a noi donne. Siamo davvero tutte accomunate in quell’immagine del corpo femminile
plastificato, privo di cervello e oggetto del godimento maschile? O c’è uno scarto tra la fiction del femminile allestita dal regime televisivo e politico berlusconiano e la realtà delle vite e dei
desideri delle donne? Certamente, quella fiction produce effetti di realtà e ha un forte potere di colonizzazione dell'immaginario e delle aspirazioni femminili. Tuttavia noi crediamo che fra quella fiction e la realtà uno scarto resti, e che proprio questo scarto abbia reso possibili le parole e i gesti di libertà di alcune donne coinvolte nella vicenda, prima tra tutte Veronica Lario, e di quante fra noi hanno dato a quelle parole e a quei gesti rilevanza politica.
Si può dunque, e come, lavorare sullo scarto tra fiction e realtà? Spetta a noi leggere la condizione femminile inforcando le lenti giuste per riconoscere tracce di libertà e forme di resistenza e dissociazione che si sviluppano anche laddove la politica e l’informazione non le vedono. In donne differenti tra loro, e anche in quelle in tutto dissimili dalle femministe di ieri e di oggi.
Vistoso è, nello scambio fra sesso, potere e denaro, il degrado della politica. Lo si denuncia sempre oscurandone, però, il segno sessuato. Certo, non è di oggi la perfetta continuità fra le aziende spettacolo del presidente e il suo uso privato della cosa pubblica e delle istituzioni. Ma la novità è che il premier-imprenditore dispensa, in cambio di sesso, un provino da velina o un posto da parlamentare come fossero equivalenti. E ancora: Berlusconi si appella al “gradimento degli italiani” pubblico (l’audience) e privato (la complicità sulla sua presunta prestanza sessuale) per sottrarsi a qualsiasi regola di democrazia e di trasparenza. Di più: il “gradimento” legittima la menzogna, o meglio crea la verità di regime “della maggioranza”.
Ma la politica così degradata perde ogni residua autorevolezza. Lo conferma il modo in cui tutta questa vicenda (non) è stata affrontata nelle istituzioni politiche. Per mesi, uomini e donne della maggioranza, ma anche dell’opposizione, si sono attestati sulla linea Maginot della distinzione fra il pubblico e il sacro “privato dell’alcova”. Il disprezzo verso le donne è stato coperto con le accuse al “moralismo dei parrucconi”. E la manipolazione della verità ad opera dei media controllati dal premier con il rifiuto del gossip.
Anche negli appelli alla mobilitazione in nome della democrazia e dei diritti, però, la questione sesso e potere resta opaca. Perché oggi, come e diversamente dagli anni ’70, quell’intreccio chiama in causa una trasformazione radicale della politica, e un'autocritica ruvida delle connivenze culturali dell'opposizione con il berlusconismo. Ed è troppo scomodo per i partiti di opposizione, presenti in Parlamento e non, perché mette in questione il patto a cui tutti si attengono nella selezione e cooptazione del ceto politico, femminile e maschile.
Mai come oggi i rapporti tra i sessi sono il cuore della politica. Dopo la rivoluzione femminile, nel disordine del presente, si può e come riprendere parola su sessualità e politica? A partire da quali esperienze di relazione (o non) con gli uomini? Da quale desiderio? C’è da confrontarsi sui mutamenti del presente. Sono molte le donne che oggi si sentono schiacciate dalla suddetta fiction del femminile, e invocano una nuova stagione di lotte femministe. Ma c’è da chiedersi quanto siamo state disposte a rischiare, ciascuna nel suo contesto, perché “il modello dominante” fosse meno visibile o meno coccolato, e di converso il pensiero femminista fosse registrato, la parola femminile diventasse più autorevole, la bellezza femminile non venisse colonizzata.
La questione dirimente è quella delle pratiche femminili quotidiane di resistenza, conflitto, secessione, autonomia, libertà. Sono queste le pratiche che hanno reso forte il femminismo in Italia e altrove, e molecolare la trasformazione dei rapporti fra i sessi che la fiction berlusconiana combatte e occulta, ma non vanifica. Come valorizzare queste pratiche, sottraendole all'occultamento? Come rilanciare il senso politico della libertà femminile, strappandola al suo stravolgimento in libertà di competere sul mercato del corpo? Come dare alla parola femminile una forza più duratura dell'indignazione?
Di tutto questo invitiamo a discutere donne e uomini il 10 ottobre dalle ore 10 alla Casa internazionale delle donne di Roma
Maria luisa Boccia, Ida Dominijanni, Tamar Pitch, Bianca Pomeranzi, Grazia Zuffa

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giovedì 8 ottobre 2009

Come siamo caduti in basso!

.. E intanto Vittorio Sgarbi rivendica la primogenitura della frase rivolta dal premier alla Bindi nel corso di "Porta a Porta". Sgarbi ricorda che fu pronunciata in un dialogo tra lo stesso critico d’arte e Mino Martinazzoli nel 1993. «Berlusconi - dice Sgarbi - ha una sintonia con la gente reale. Non chiedo i diritti per la mia frase sulla Bindi, perchè mi sento gratificato e riconosciuto in considerazione e stima. Come sempre accade, in Berlusconi la vita è più forte della forma».
e Dino dice: forza Rosy!! io non mi sento assolutamente in sintonia con quella gente reale.

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Intervento telefonico di Silvio Berlusconi a Porta a Porta dopo la bocciatura del Lodo Alfano

da you tube
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mercoledì 7 ottobre 2009

Viva la Costituzione

il Lodo Alfano è stato bocciato: viva la Costituzione!!!

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lunedì 5 ottobre 2009

Il doppio stato

di Francesco Ciafaloni, da Sbilanciamoci.info

Sono da sempre a disagio con l’espressione conflitto di interessi per intendere la compresenza nella stessa persona delle funzioni di controllore e controllato, di concedente e affidatario di pubblico servizio o concessione, di valutatore e valutato, di imprenditore e politico, di assessore alla sanità e produttore di protesi mediche.

Mi rendo conto che l’uso del termine ha fini virtuosi. Il conflitto dovrebbe essere quello tra l’interesse privato (dell’imprenditore, del produttore di protesi, del valutato, dell’affidatario), e quello pubblico, generale (rappresentato dal valutatore, dal politico, dall’assessore). Sarebbe un conflitto tra l’essere e il dover essere. Il termine viene usato per ribadire che il politico, l’assessore, il valutatore, non stanno lì a fare i comodi loro ma a servire il pubblico; per difendere la concezione della politica, in democrazia, come servizio, o anche come servizio, oltre che come ricerca di un potere legittimo per realizzare il mandato che gli elettori, direttamente o indirettamente, affidano a chi svolge un ruolo pubblico.



Purtroppo l’espressione fa pensare ad una difficoltà, ad un dilemma percepito, a un evento che si cerca – che tutti cercano – di impedire o depotenziare; persino, volendo esagerare, a un disagio, ad un trauma personale. Come farò mai a decidere con equità sulla carriera di mio figlio? Non danneggerò gli altri concorrenti? O non danneggerò lui, per sottolineare la mia imparzialità?



Tutti sappiamo che non è così. La compresenza di ruoli incompatibili nella stessa persona è diventata lo strumento più importante per la conquista e l’esercizio del potere, per la selezione della classe dirigente, per la scelta – è del tutto improprio parlare di elezione – dei parlamentari, per l’accesso e il successo nella dirigenza pubblica e negli enti pubblici e privati.

L’essere imprenditore nelle telecomunicazioni e monopolista della pubblicità rende più facile vincere le elezioni, e diventare Presidente del Consiglio, e nominare i dirigenti della televisione pubblica, al di là delle attribuzioni formali, e scegliere i parlamentari, e trattare i propri affari con capi di stato esteri, ecc. L’essere valutatori consente di promuovere i propri clienti e rimuovere quelli altrui, di decidere, davvero, giorno per giorno, le scelte di università e aziende, ministeri e partiti. Così si governa.



Bisognerebbe parlare di convergenza, non di conflitto di interessi. Dire conflitto nasconde la realtà, rende impossibile o sviante ogni analisi ed azione. Meglio ancora, per dare un po’ di spessore all’analisi, bisognerebbe dire unioni personali.



Unioni personali fu l’espressione che Carl Schmitt usò, nel ’38, a Milano, ad un convegno di giuristi sugli stati a partito unico – Italia, Unione sovietica, Germania – per designare lo strumento con cui il partito nazionalsocialista aveva interamente rovesciato la costituzione tedesca senza dirlo.



La tesi proposta dalla presidenza – italiana – del convegno era stata che in Italia lo Stato controllasse il Partito; in Russia il Partito controllasse lo Stato; in Germania Stato e Partito fossero ciascuno sovrano nel proprio ambito. Infatti, diceva la relazione, c’erano i tribunali speciali per giudicare tutti gli atti dei membri del partito nazionalsocialista, in qualunque ambito, mentre per tutti gli altri cittadini c’erano i tribunali ordinari; e la Costituzione restava in vigore, sostanzialmente senza modifiche.



Schmitt cominciò col dire che rifiutava interamente la tesi. Che i giovani giuristi tedeschi diffidavano delle idee generali. Che sembrava che la Costituzione fosse rimasta immutata; ma era stata interamente rovesciata attraverso una serie di unioni personali. Membri fedeli del Partito, gerarchicamente obbedienti al Fuehrer, erano stati nominati in tutti i ruoli. Il partito nazista controllava tutto. La Costituzione era un guscio vuoto. La vera macchina del potere si muoveva sotto le sembianze costituzionali sostituendo integralmente i meccanismi legali. Era, scrisse Neumann, Behemoth, la sorella cattiva di Leviathan; era Il doppio stato, l’espressione che Fraenkel usò come titolo per il suo libro più noto.
Ci sono due tipi di obbiezioni a queste affermazioni. Si può dire che tutto il mondo è paese, che se i meccanismi della democrazia fossero perfetti Democracy Incorporated – il dominio delle grandi aziende sulla politica e la aziendalizzazione della politica – non sarebbe stato mai scritto (Sheldon Wolin, 2008), o non sarebbe stato preso sul serio, le agenzie di rating non sarebbero state legate a filo doppio con le banche e le finanziarie, non ci sarebbe mai stata la crisi attuale, le assicurazioni sanitarie non stringerebbero alla gola il Presidente degli Stati uniti: rassegnamoci. Si può dire che non è vero che qui ci sia il doppio stato, che non c’è il partito unico – ce ne sono anche troppi –, che nessuno ha ammazzato gli spartachisti, e le Sa, e gli ebrei: non fasciamoci la testa prima di averla rotta, non facciamo paragoni impropri.



Ci sono due linee di risposta.



E’ vero che il dominio dell’economia sulla politica è un fenomeno globale. Che la malavita ha un notevole peso anche nei paesi che prendiamo ad esempio. Ma ci sono differenze; e questo paese non è messo bene nelle graduatorie. Certo, al peggio non c’è mai fine: ci sono i più di 100 morti ammazzati per 100.000 abitanti di Caracas, Bogotà, Johannesburg, contro i meno di 1 di Torino. Ma Obama non si è fatto eleggere dichiarando di avere una vocazione maggioritaria – bolscevica, se si vuole guardare alle continuità – e cercando di liberarsi delle minoranze. Si è fatto eleggere alla carica di Presidente degli Stati uniti, controllata dal Senato, dalla Camera, dai giudici, dalla stampa, con poteri e limiti, elastici qualche volta, ma ben esistenti nella Costituzione. Non si è candidato come per una elezione diretta ad una carica monocratica ombra di Presidente del consiglio, che non esiste nella Costituzione, non controllata da nessuno, non imputabile per legge, arbitra del suo partito, padrona di buona parte del sistema dei media, come hanno fatto, simmetricamente, Berlusconi e Veltroni. (Poi ha vinto quello che era potente davvero nella parte oscura del doppio stato.) Le differenze contano, sia per la minore violenza sia per la maggiore illegalità e incostituzionalità.



Kefauver nel rapporto Crime in America, che aveva un capitolo su Chicago, scriveva che in qualunque posto se uno va ad escort (come si dice adesso), gioca d’azzardo, si droga, sa di dover avere a che fare con la malavita. Chicago era diversa perché lì bisognava avere a che fare con la malavita per fare una festa di nozze, per farsi seppellire, per andare in ospedale, per farsi lavare una camicia. Ecco, noi siamo come la Chicago di allora. Con meno morti ma con una pervasività simile. Non per niente Luciano Gallino, forse il sociologo italiano più autorevole in piena attività, dovendo aprire una settimana di discussioni storiche e sociologiche sulla politica in Italia, all’Università di Torino, ha scelto come tema l’illegalità. E, giustamente, nessuno si è stupito. Qui abbiamo persino smesso di far finta.



La seconda linea di risposta riguarda la legittimità dei paragoni.



Certo che nella Germania del primo dopoguerra la violenza era incomparabilmente maggiore; che c’erano i corpi armati, che qui non ci sono, anche se qualcuno li vorrebbe, con le camice di un colore più vivace; che il Partito, vinte le elezioni, per cui Hitler ringraziava i contadini tedeschi per avergli dato il possesso legittimo della forza, cancellò gli altri e abolì i sindacati dando in cambio la presenza dei rappresentanti dei dipendenti in Consiglio di amministrazione. Ma la tendenza a una consociazione unica, a rapporti bloccati o contrattati, è ben presente da tempo. Da decenni l’Italia viene governata attraverso le aziende pubbliche, attraverso giornali di proprietà di aziende pubbliche, anche ottimi, attraverso un infinito sistema di sottogoverno. Quello che è, o sta diventando, doppio stato si è chiamato partitocrazia, come non si stanca di ripetere Marco Pannella, lottizzazione, consociativismo, sottogoverno. Questo disastro non lo ha costruito Silvio Berlusconi, a mani nude.



Ma una discontinuità, grave, c’è stata. Il sottogoverno è diventato Governo, l’illegalità, messa alle strette, ha deciso di autolegittimarsi, condonandosi, prescrivendosi e dichiarandosi penalmente irresponsabile. I rari liberali che avevano appoggiato la discontinuità perché, come sempre, avevano più paura delle classi subalterne che della illegalità, sono scomparsi, sostituiti, come l’altra volta, dai socialisti, dai nazionalisti – quelli di An, preferisco gli aggettivi derivati dalle idee alle sigle – dai nazionalisti etnici, che, per le idee, sembrano tanto dei neo-nazi. Siamo qui a sperare che i nazionalisti non ripetano fino in fondo la vecchia fusione che portò al Partito nazionale fascista e si schierino per una qualche forma di repubblicanesimo.



In ogni caso i paragoni si possono fare sempre: basta limitarli agli aspetti di cui si parla.



Come è nota la appropriazione da parte di Benito Mussolini dei programmi del New Deal nel discorso di Pesaro, e sono note le ambiguità della intellighenzia liberale di cui ha scritto Gabriele Turi in Il fascismo e il consenso degli intellettuali, e si può ben ricordare che le spedizioni in Kossovo, Iraq e Afghanistan non sono la guerra di Spagna e la conquista dell’Impero, è anche evidente che tra Alfredo Rocco e Castelli o Alfano, tra Giovanni Gentile e la Gelmini, c’è un abisso di qualità, a tutto vantaggio dei ministri fascisti. Giovanni Gentile, con Giorgio Pasquali e tanti altri, pensò e realizzò una riforma della scuola, in cui siamo cresciuti e che non ci piace, che segregava i fruges consumere nati dalle élites, ma era qualcosa; la Gelmini non esiste; è una licenziatrice di insegnanti che approfitta del pensionamento per età di metà dei dipendenti della scuola in pochi anni per aver partita vinta e tagliare la scuola pubblica senza neppure scontrarsi davvero.



Si può dire: cosa cambia se parliamo di convergenza di interessi e doppio stato anziché di conflitto di interessi?



Cambia che ci rendiamo conto che chi non è forte nel doppio stato o non lo sta combattendo, non denuncia le illegalità, non si presenta con una visione generale, è fuori, politicamente non esiste. Non è debole, non esiste. Denunciare la malavita al potere non è essere forcaioli ma difendere la libertà, e le alternative, anche economiche.



Gli eredi del Pci, che della lottizzazione erano stati parte subalterna ma importante, hanno pensato di avere un ruolo nel doppio stato, di governare anche loro con presenze nelle aziende, nelle banche, nelle televisioni, pensando di poter affidare a una sorta di giudizio di dio elettorale la scelta del Capo. Tutti o quasi tutti sembrano aver accettato il Fuehrerprinzip. Tutti vogliono scegliere un leader, un duce, non un segretario o un candidato: l’uno o l’altro dovrebbe essere. Candidato a una carica, una alla volta, non a fare il Capo. In questo congresso del Pd qualcuno usa una terminologia meno totalitaria, ma nella maggior parte degli interventi e dei commenti si parla ancora di leader. “La volontà di un popolo non è la somma delle volontà dei suoi membri ma la volontà di quell’uno che la rappresenta, in quanto ci riesca” – recitava la voce Fascismo della vecchia Treccani, scritta da Giovanni Gentile e firmata da Benito Mussolini. A questo siamo tornati: a destra sovranamente; ma anche altrove.



Contro il doppio stato non vale dire che i problemi dei lavoratori sono la disoccupazione, la crisi, la famiglia. Così si rischia di finire nella vignetta di Altan sulla Repubblica di venerdì 25 settembre: “La gente vuole libertà di informazione.” – dice un genuflesso. “Ma che pensino a sbarcare il lunario quei disperati con le pezze al culo!” – risponde il Banana. E’ il doppio stato – le convergenze di interessi, la illegalità, la evasione fiscale, la assenza giuridica e politica dei lavoratori migranti – il macigno che ci impedisce di discutere chiaramente di alternative. I pochi esempi di successo, parziale e locale, come la opposizione alla Tav, fino ad ora, derivano dall’essere stati capaci di partire dai problemi e schierarsi contro la convergenza di interessi tra costruttori e amministratori con una visone generale.



Almeno una parte della sinistra potrebbe obbiettare che loro sono contro il Capitalismo, per il Comunismo, e che questa è una prospettiva sufficiente. Qualcuno ha deciso che stare al governo è stato un errore – ed è vero; non in quella maniera! – e che questo basta. Ma qualcosa di più bisogna aggiungere, sulla legalità, sulla natura dello Stato, sugli obbiettivi istituzionali, economici, di politica estera, oltre la difesa dei posti di lavoro. Altrimenti vale sempre l’argomento che il Capitalismo finirà da sé, perché andava fortissimo quando c’erano pochi prodotti e molte risorse; ma non può sopravvivere alla sovrabbondanza dei prodotti e alla fine delle risorse, se qualcuno non scopre che da qualche parte c’è un’altra Terra da sfruttare.



La prossima pars destruens della distruzione creatrice potrebbe costare mezzo miliardo di morti anziché 50 milioni; e non ci sono risorse per la prossima pars construens. Così non si va da nessuna parte. Dovremmo almeno rendere il passaggio meno disumano, come diceva l’uomo con la barba un secolo e mezzo fa.




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domenica 4 ottobre 2009

3 ottobre: testimonianze




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venerdì 2 ottobre 2009

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