venerdì 31 luglio 2009

IL Terremoto ci ha trasformato nel Cile…lo sapevi?



dal blog 3.32 il post di oggi 31.7.09 (ed il video qui sopra, ripreso da Youdem.tv):
Ieri ennesima giornata di mobilitazione degli attivisti e delle attiviste dei comitati cittadini. Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi doveva recarsi a Cese di Preturo per innaugurare da un balcone intonacato, uno dei siti del progetto c.a.s.e. Ad aspettarlo con uno striscione che recitava “dopo quattro mesi ancora nelle tende. E’ questo il vostro miracolo”, cittadini e comitati.
Così il cavalliere è dovuto andare invece a Bazzano su un tetto in cemento armato, dove ha issato la bandiera della Protezione Civile, oltre che il tricolore. Lontano dalla gente, lontano da tutti, con Guido Bertolaso e l’ideatore del progetto Case, il professor Calvi.
Nel pomeriggio Berlusconi ha tenuto una conferenza stampa presso la caserma della guardia di Finanza. Delle attiviste e degli attivisti coraggiosi l’hanno seguito anche li, dove non si doveva. E’ apparso chiaro a tutt* quelli che provavano a manifestare il loro dissenso che ora è il momento della repressione: Dove passa il premier la strada deve essere pulita. Siamo stati schedati immediatamente uno ad uno, non ci è stato permesso pur essendo una ventina di metterci davanti l’ingresso della caserma, e ci è stato strappato da parte di un alterato poliziotto della digos lo strisicone mentre passavano le auto presidenziali scortate.



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La strategia autoritaria del governo

di Luigi de Magistris*, da Il Manifesto

Credo sia un grave errore pensare che il governo Berlusconi, la maggioranza berlusconiana, non persegua una ben precisa strategia che mira a modificare in modo radicalmente autoritario ed illiberale il nostro Paese. Il disegno, di chiara matrice piduista, impone sia ampie revisioni costituzionali che svuotamenti della Carta attraverso la legislazione ordinaria: matrice di fondo è la soppressione di quella che gli anglosassoni chiamano balance of powers, il bilanciamento dei poteri.


La Costituzione deve subire - in tale progetto strategico - una svolta presidenziale, con la concentrazione dei poteri di governo nelle mani di un'unica persona: il Parlamento ridotto a mero organo di ratifica dei voleri della maggioranza, Corte costituzionale e Consiglio superiore della magistratura modificati nella loro composizione attraverso l'aumento dei membri di nomina politica. Il Presidente della Repubblica sarà quindi capo del governo, capo delle forze armate, capo del Csm e magari, se lo scenario di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico e politico-istituzionale del nostro paese rimarrà quello attuale, anche capo dei capi.
Dal momento che anche una maggioranza di chiara ispirazione autoritaria ed illiberale non potrà mai abolire formalmente l'art. 3 della Costituzione (l'uguaglianza delle persone di fronte alla legge) e l'art. 21 della Costituzione (libera manifestazione del pensiero e diritto di cronaca) ecco che si colpiscono - attraverso lo strumento della legge ordinaria - quelli che sono due baluardi di ogni stato di diritto che consentono l'effettiva attuazione di tali principi: l'autonomia e l'indipendenza della magistratura e dell'informazione. In questi ultimi mesi la maggioranza sta portando avanti un disegno di complessivo annichilimento dell'autonomia della magistratura e dell'indipendenza, libertà e pluralismo dell'informazione.
Corollari di un disegno autoritario di questo tipo sono anche taluni censurabili provvedimenti normativi adottati negli ultimi mesi e che offrono una chiara cornice dell'avanzare del fascismo del terzo millennio: 1) le ronde che - mortificando le forze dell'ordine - introducono la privatizzazione della sicurezza pubblica e l'istituzionalizzazione in alcune aree del controllo del territorio da parte della criminalità organizzata (tipico strumento utilizzato nel ventennio del secolo scorso e nel periodo iniziale dei paramilitari colombiani); 2) il ricorso sempre maggiore ai militari per compiti di ordine pubblico che - soprattutto in un'ottica di presidenzialismo di chiara ispirazione piduista - potranno essere utilizzati per affrontare conflitti sociali e reprimere il dissenso che viene sempre più criminalizzato nel nostro paese attraverso pratiche liberticide tipiche della tolleranza zero; 3) la criminalizzazione dell'immigrato in quanto tale e non perché ha commesso un reato, ossia l'introduzione della colpa d'autore tanto cara al regime nazi-fascista, con tratti xenofobi indegni di un paese democratico.
Un disegno autoritario di tale portata nasce e si consolida attraverso un ricercato crollo etico anche grazie all'imperversare della pubblicità commerciale, del consolidamento della teoria del consumatore universale, del radicamento del pensiero unico, del rovesciamento dei valori: non conta chi sei, qual è la tua storia, ma quanto appari; il culto del profitto, dell'avere al posto dell'essere, del dio denaro. Un revisionismo culturale realizzato in anni di bombardamento mediatico, in un conflitto di interessi mai affrontato da un opaco centro-sinistra intriso da tanti conflitti d'interessi. Un definitivo controllo delle coscienze e la narcotizzazione delle menti e finanche dei cuori deve passare attraverso la mortificazione della scuola pubblica, dell'università e della ricerca: deve apparire che siamo un paese normale (quanto bello ed attuale quell'articolo di Domenico Starnone che parlava di normale devianza).
Di fronte ad un disegno che appare a tratti anche eversivo dell'ordine costituzionale; di fronte ad un paese dove le mafie condizionano in modo devastante parte significativa del Pil e riciclano immani somme di denaro in ogni settore suscettibile di valutazione economica ed in ogni parte del territorio nazionale; di fronte ad una capillare penetrazione della criminalità organizzata in vasti settori della politica e delle istituzioni, attraverso soprattutto il controllo della spesa pubblica; di fronte ad un collante sempre più evidente tra sistema politico castale e criminalità organizzata; di fronte a tutto questo, le forze democratiche - in qualunque articolazione della società civile siano presenti - debbono impegnarsi concretamente per impedire la realizzazione di un tale progetto politico che condurrà inesorabilmente alla fine dello Stato di diritto.
Così come chi è investito di ruoli istituzionali e non è ancora totalmente assuefatto a tale sistema di potere deve battere un colpo per difendere la Costituzione nata dalla Resistenza e per far sì che venga attuata giorno per giorno.
* parlamentare europeo Idv

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Due proposte per fermare il regime

di Paolo Ferrero*, il Manifesto

Condivido l’articolo di Luigi de Magistris sulla strategia autoritaria del governo. Condivido e ritengo necessario, dopo la raccolta di firme che Rifondazione comunista ha fatto con l’Italia dei Valori per sottoporre a referendum il lodo Alfano, proseguire l’iniziativa per contrastare l’azione antidemocratica del governo. Occorre costruire una manifestazione nazionale unitaria contro il pacchetto sicurezza ma anche una azione unitaria delle diverse forze politiche, culturali e sociali che si collocano all’opposizione, articolata sul territorio, che sveli a fondo il carattere eversivo dell’azione di governo. Occorre fare una vera e propria campagna di massa.

Sono rimasto colpito però della assenza nell’intervento di de Magistris della questione sociale. Ritengo infatti che senza una discussione di fondo sul rapporto tra questione democratica e questione sociale, Berlusconi non solo demolirà la democrazia nel nostro paese ma lo farà con il sostanziale consenso – attivo o passivo – del paese. Occorre cioè fare i conti con la situazione reale del paese che a me pare caratterizzata da due elementi: da un lato la separazione nella testa di milioni di persone tra questione sociale e questione democratica. Dall’altra la questione sociale oggi non trova “naturalmente“ uno sbocco a sinistra, in termini di conflitto di classe, o se volete di conflitto del basso contro l’alto; sempre più spesso è la guerra tra i poveri, dei penultimi contro gli ultimi, ad esprimere la questione sociale.
Penso che se l’opposizione non saprà fare i conti con questo doppio problema, sarà destinata a soccombere di fronte all’avanzata della destra populista e della crisi della politica: non sarà efficace al fine di battere Berlusconi e il berlusconismo.
In altri termini Berlusconi trae un vantaggio decisivo dal fatto che milioni di persone appartenenti agli strati subalterni o non vanno più a votare, schifati dalla politica, oppure votano a destra – a partire dalla Lega – perché la ritengono più efficace per difendere i loro interessi.
Occorre quindi unire alla denuncia del carattere eversivo dell’azione di governo, una azione coerente di denuncia del carattere di classe dell’azione del governo e la costruzione di una seria opposizione alle sue misure economiche e sociali. A tal fine è completamente suicida la linea di gran parte dell’opposizione di appoggiarsi a Confindustria per criticare il governo; è suicida che il provvedimento più estremista varato dal governo sul piano economico e sociale e cioè il federalismo fiscale, sia stato approvato dall’Italia dei Valori e abbia visto l’astensione del Pd. Col federalismo fiscale si taglierà la spesa sociale, la guerra tra i poveri verrà istituzionalizzata e si apre una autostrada alla distruzione del contratto nazionale di lavoro e alla gestione localistica dei conflitti. Il federalismo fiscale è una manna per la Lega Nord e per il nascituro partito del Sud, per balcanizzare l’Italia. Ho fatto questo esempio ma potrei proseguire con l’opposizione che vota mozioni di sostegno al finanziamento delle scuole private, non dice nulla sulla spesa di 14 miliardi per l’acquisto di cacciabombardieri, non dice nulla sulle prebende per il sistema bancario, balbetta sull’attacco al contratto nazionale di lavoro, concorda sulla riduzione della tassazione per le rendite fondiarie, ecc.
A me pare evidente che la sostanziale subalternità dell’opposizione parlamentare (e quindi dell’opposizione presente sui mass media) alla Confindustria apra uno spazio politico immenso alla destra populista di Berlusconi e alla sua azione demolitrice dell’impianto costituzionale.
Per questo faccio a mia volta un appello a de Magistris: costruiamo insieme nell’autunno, tutte le forze disponibili, una mobilitazione sociale degna di questo nome che contesti radicalmente la politica e economica e sociale del governo, contro la precarietà, per la redistribuzione del reddito e del lavoro, per una riconversione ambientale dell’economia. Per rendere credibile agli occhi di larghi strati popolari la nostra battaglia per la democrazia occorre schierarsi dalla loro parte nel conflitto sociale, altrimenti i nostri discorsi saranno incomprensibili.
Aggiungo una seconda considerazione e una seconda proposta che concerne il piano istituzionale. Con questa legge elettorale maggioritaria e bipolare è pressoché impossibile sconfiggere il berlusconismo. Berlusconi ha uno schieramento che vale il 45% mentre i suoi oppositori sono divisi e hanno voti non facilmente sommabili. Non penso possibile fare una alleanza con l’Udc di Cuffaro per governare l’Italia. La gabbia bipolare, costruita stupidamente dal centrosinistra negli anni ’90, si è rivelata il contesto concreto in cui è nato e cresciuto il berlusconismo, il sistema che più favorisce Berlusconi e il suo tentativo di trasformare in regime il suo governo. Se fosse passato il referendum sul partito unico su cui il Pd ha dato indicazione di voto favorevole e per cui Di Pietro ha raccolto le firme, il discorso sarebbe chiuso. La sconfitta del referendum apre però una strada che voglio proporre a de Magistris. Prendere atto che il bipolarismo è all’origine del successo berlusconiano e proporre una legge elettorale proporzionale. Una legge proporzionale garantirebbe una cosa semplicissima e cioè che Berlusconi, che è minoranza nel paese, non si trovi poi ad avere la maggioranza assoluta di parlamentari in virtù della legge elettorale bipolare. L’Udc e le forze della sinistra propongono il sistema elettorale tedesco, se l’Italia dei Valori si pronunciasse chiaramente su questo indirizzo avremo buone possibilità che anche il congresso del Pd si muova in questa direzione. Un comune orientamento di questo tipo permetterebbe di costruire uno schieramento di salvaguardia costituzionale con l’obiettivo di fare una legge elettorale proporzionale e una legge sul conflitto di interesse. Questi provvedimenti si possono fare in sei mesi e su questo obiettivo si può costruire uno schieramento per dar vita ad una brevissima legislatura di salvaguardia costituzionale che cambi le regole del gioco per poi andare a votare con un sistema proporzionale, ognuno con la propria faccia e il proprio programma. Noi tutti ci battiamo perché Berlusconi cada ma è nostro obbligo avanzare un proposta per sconfiggerlo senza fare pasticci: questa proposta a me pare utile e praticabile.
Riassumendo voglio quindi dire a de Magistris che per impedire a Berlusconi di realizzare il proprio disegno eversivo occorre costruire sul piano sociale una forte opposizione alla sua politica di classe e sul piano istituzionale porre con chiarezza l’obiettivo dell’uscita dal regime bipolare. Questo non dipende solo dagli altri ma in buona misura anche da che cosa farà l’Italia dei Valori nei prossimi mesi.
*Segretario nazionale Prc


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martedì 28 luglio 2009

Un esplosivo tranquillo autunno

di Alessandro Robecchi, da Il Manifesto on line del 26.7.09

Credo che succederà questo. Che in settembre-ottobre avremo 700-800 mila posti di lavoro in meno (un impoverimento per alcuni milioni di persone). Che taglieranno fondi alle università con metodi furbetti parlando di merito e di efficientismo. Che aumenteranno le tasse universitarie. Che i terremotati de L'Aquila non avranno nuove case, con l'eccezione di una minuscola quota da mostrare in apertura di Tg1 e Tg5.

Che i precari passati da «reddito poco» a «reddito zero» diventeranno un esercito. Che la crisi servirà a giustificare l'ennesima mattanza sociale. Insomma, credo che succederà quel che tutti dicono debba succedere: paura e casino. Per una volta non è peregrino misurare la società con i meccanismi della domanda e dell'offerta: la domanda è molto forte. Domanda di stabilità, di difesa dalla crisi, di qualità dell'offerta scolastica. Domanda di uscire dalle tende. Domanda di arrestare l'erosione di reddito e di diritti. Domanda di dignità per il paese (vero, papi?). Domanda di fermare la ristrutturazione feroce attuata con la scusa della crisi. La domanda non manca, ma l'offerta è inesistente. Credo che succederà questo, che quando salterà il tappo non capiremo al volo. Ci siederemo lì a leggere, che so, le pagelle della signorina Serracchiani. O annuiremo al vecchio buon senso progressista di Bersani su musica di Vasco. O commenteremo le astute strategie dalemiane di apertura all'Udc. O leggeremo come fondi di caffè le elucubrazioni di partitini inconcludenti che prendono il tre per cento se si presentano insieme e il tre per cento a testa se si presentano divisi, miracolo dell'aritmetica comunista. Credo che ci siederemo comodi, tristi ma dignitosi. E quando comincerà a volare qualche sasso, e qualche schiaffone farà sciak!, ci chiederemo esterrefatti: ehi, come? Cosa? E dovremo reimparare da capo a scrivere e pronunciare la parola «conflitto». E sarebbe anche ora.

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Lo stato di salute della democrazia e l'incapacità di provare vergogna

di Gianrico Carofiglio, da Repubblica on line

Un sintomo del grado di sviluppo della democrazia e in generale della qualità della vita pubblica si può desumere dallo stato di salute delle parole, da come sono utilizzate, da quello che riescono a significare. Dal senso che riescono a generare. Oggi, nel nostro paese, lo stato di salute delle parole è preoccupante. Stiamo assistendo a un processo patologico di conversione del linguaggio a un'ideologia dominante attraverso l'occupazione della lingua.


E l'espropriazione di alcune parole chiave del lessico civile. È un fenomeno riscontrabile nei media e soprattutto nella vita politica, sempre più segnata da tensioni linguistiche orwelliane. L'impossessamento, la manipolazione di parole come verità e libertà (e dei relativi concetti) costituisce il caso più visibile, e probabilmente più grave, di questa tendenza.

Gli usi abusivi, o anche solo superficiali e sciatti, svuotano di significato le nostre parole e le rendono inidonee alla loro funzione: dare senso al reale attraverso la ricostruzione del passato, l'interpretazione del presente e soprattutto l'immaginazione del futuro.

Se le nostre parole non funzionano - per cattivo uso o per sabotaggi più o meno deliberati - è compito di una autentica cultura civile ripararle, come si riparano meccanismi complessi e ingegnosi: smontandole, capendo quello che non va e poi rimontandole con cura. Pronte per essere usate di nuovo. In modo nuovo, come congegni delicati, precisi e potenti. Capaci di cambiare il mondo.

Proviamo allora a esercitarci in questo compito di manutenzione con una parola importante e più di altre soggetta allo svuotamento (e alla distorsione) di significato di cui dicevamo. Proviamo a restituire senso alla parola vergogna.
Nell'accezione che qui ci interessa la vergogna corrisponde al sentimento di colpa o di mortificazione che si prova per un atto o un comportamento sentiti come disonesti, sconvenienti, indecenti, riprovevoli.

E' una parola da ultimo molto utilizzata al negativo: per escludere, sempre e comunque, di avere alcuna ragione di vergogna o per intimare agli avversari - di regola con linguaggio e toni violenti - di vergognarsi. La forma verbale "vergognatevi" è oggi spesso utilizzata nei confronti di giornalisti che fanno il loro lavoro raccogliendo notizie, formulando domande e informando il pubblico.

Sembra dunque che vergognoso sia vergognarsi. La vergogna e la capacità di provarla appaiono qualcosa da allontanare da sé, una sorta di ripugnante patologia dalla quale tenersi il più possibile lontani.

Sulla questione Blaise Pascal la pensava diversamente, attribuendo alla capacità di provare vergogna una funzione importante nell'equilibrio umano. Nei Pensieri leggiamo infatti che "non c'è vergogna se non nel non averne".

In tale prospettiva è interessante soffermarsi sull'elencazione, che possiamo trovare in qualsiasi dizionario, dei contrari della parola. Troviamo parole come cinismo, impudenza, protervia, sfacciataggine, sfrontatezza, sguaiataggine, spudoratezza, svergognatezza.

Volendo trarre una prima conclusione, si potrebbe dunque dire che il non provare mai vergogna, cioè il non esserne capaci, è patologia caratteriale tipica di soggetti cinici, protervi, sfacciati, spudorati. Al contrario, la capacità di provare vergogna costituisce un fondamentale meccanismo di sicurezza morale, allo stesso modo in cui il dolore fisiologico è un meccanismo che mira a garantire la salute fisica. Il dolore fisiologico è un sintomo che serve a segnalare l'esistenza di una patologia in modo che sia possibile contrastarla con le opportune terapie. La ritardata o mancata percezione del dolore fisiologico è molto pericolosa e implica l'elevato rischio di accorgersi troppo tardi di gravi malattie del corpo.

Così come il dolore, la vergogna è un sintomo, e chi non è capace di provarla - siano singoli o collettività - rischia di scoprire troppo tardi di avere contratto una grave malattia della civilizzazione.

Qualsiasi professionista della salute mentale potrebbe dirci che le esperienze vergognose, quando vengono accettate, accrescono la consapevolezza e la capacità di miglioramento, e in definitiva costituiscono fattori di crescita. Quando invece esse vengono negate o rimosse, provocano lo sviluppo di meccanismi difensivi che isolano progressivamente dall'esterno, inducono a respingere ogni elemento dissonante rispetto alla propria patologica visione del mondo, e così attenuano il principio di realtà fino ad abolirlo del tutto.

Come ha osservato una studiosa di questi temi - Francesca Rigotti - l'azione del vergognarsi è solo intransitiva e non può mai essere applicata a un altro. Io posso umiliare qualcuno ma non posso vergognare nessuno. Sono io che mi vergogno, in conseguenza di una mia azione che avverto come riprovevole. Pertanto la capacità di provare vergogna ha fondamentalmente a che fare con il principio di responsabilità e dunque con la questione cruciale della dignità.

Diversi autori si sono occupati alla vergogna. La parola è presente in alcuni bellissimi passi di Dante e ricorre circa trecentocinquanta volte in Shakespeare. Ma è davvero interessante registrare cosa dice della vergogna Aristotele nell'Etica Nicomachea. "La vergogna non si confà a ogni età, ma alla giovinezza. Noi infatti pensiamo che i giovani devono essere pudichi per il fatto che, vivendo sotto l'influsso della passione, sbagliano, e lodiamo quelli tra i giovani che sono pudichi, ma nessuno loderebbe un vecchio perché è incline al pudore, giacché pensiamo che egli non deve compiere nessuna delle cose per le quali si ha da vergognarsi".

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sabato 25 luglio 2009

Crisi della politica, e della democrazia

di Alberto Burgio, da il Manifesto on line

In un breve e complicato discorso di un mese fa, il presidente Napolitano esortò a non confondere la crisi della politica (che c'è) con la crisi della democrazia (a suo parere inesistente) e indicò nelle istituzioni repubblicane un riferimento fondamentale al fine di evitare pericolose confusioni. Non è semplice districarsi. Cos'è la crisi della politica? È crisi di efficacia? Di credibilità e prestigio? È crisi morale o istituzionale? Soprattutto: può, in una repubblica democratica, darsi crisi della politica senza che la qualità della democrazia ne venga intaccata?



In una democrazia, sinonimo di sovranità popolare, è essenziale il rispetto delle norme, a cominciare da quella fondamentale, che racchiude i principi-base del patto tra cittadini e istituzioni. Se accettiamo questo schema elementare, allora sembra difficile concordare con il presidente. La crisi è profonda e investe precisamente il fondamento della nostra democrazia. Limitiamoci a nominare pochi esempi.
La Costituzione del 1948 è pacifista e l'Italia è in guerra da una quindicina d'anni. La Costituzione indica nel lavoro il fulcro della democrazia, considera il lavoro subordinato un soggetto unitario, meritevole di protezione e titolare di diritti inalienabili, e da oltre dieci anni i governi non fanno che ridurre tutele, cancellare diritti, accrescere precarietà e segmentare il lavoro dipendente. La Costituzione disegna un sistema politico a centralità parlamentare e allude a una rappresentanza proporzionale. Ma da un decennio non si fa che varare «riforme» elettorali e istituzionali che emarginano il Parlamento, introducono elementi di presidenzialismo decisionista e impongono una sorta di bipolarismo coatto tendente al bipartitismo, in violazione del principio di uguaglianza nel diritto alla rappresentanza.
La legge sulla sicurezza, poi, privatizza una funzione-chiave della sovranità come la tutela della sicurezza sul territorio nazionale e re-introduce norme francamente razziste (si è puniti per quel che si è, non per quel che si fa) che ci riportano dritti al 1938. Il progetto TivùSat (di cui pochissimi giornali - tra cui il manifesto - hanno parlato) concentra nelle mani di un'unica persona (il padrone di Mediaset, presidente del Consiglio) il controllo del 96% della nuova piattaforma satellitare. Infine, il terzo scudo fiscale di Tremonti vara l'ennesima amnistia mascherata per gli evasori nel Paese occidentale che vanta il record assoluto di evasione fiscale. Uno dei fondamenti delle democrazie borghesi lega l'onere fiscale al diritto di rappresentanza. C'è da chiedersi se il fatto che in Italia il potere politico sia da tempo prerogativa dei grandi evasori e dei loro garanti non leda in radice questo principio-base. Ce n'è abbastanza per dire che la Costituzione somiglia sempre più a un venerabile simulacro, e il problema non si risolve certo rimuovendolo. Per parafrasare le parole di Napolitano, la crisi della politica c'è ed è grave proprio perché è in crisi la democrazia e le sue istituzioni.
Resta da domandarsi dove nasca questa grave patologia. Una volta tanto non daremo tutta la colpa a Berlusconi e alla sua parte politica. Il problema nasce a monte. È il neoliberismo a scaricare un impatto eversivo sulla Costituzione. L'estrema subordinazione del lavoro dipendente; la privatizzazione delle istituzioni e della sfera pubblica; lo smantellamento del welfare; la guerra e la gestione razzista delle migrazioni, tutto questo è parte integrante della costituzione materiale del capitalismo neoliberista ed è l'esatto contrario del modello sociale inclusivo ed egualitario al quale guardavano i nostri costituenti.
Se la Costituzione resta formalmente in vita mentre prende corpo una forma di governo autoritaria e oligarchica (che ricorda il progetto piduista), non torna allora utile il discorso del «doppio Stato»: l'ipotesi che, nel rispetto apparente della legalità costituzionale, si venga consolidando un diverso sistema di dominio improntato all'arbitrio e alla corruzione, plasticamente aderente agli assetti di potere di una società sempre più ineguale ed immobile? Dovessimo rispondere di sì, potremmo finalmente celebrare la nascita della famigerata «seconda Repubblica».

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giovedì 23 luglio 2009

Il sindaco Cialente: «Tassati e umiliati»

di Eleonora Martini, dal Manifesto on line

«È un’ingiustizia palese, una grande umiliazione che la mia gente non meritava». Lo dice con un filo di voce Massimo Cialente, eppure non è certo tipo incline al facile imbarazzo. Epperò è difficile davvero per lui, sindaco de L’Aquila, come per tutti i primi cittadini dei comuni terremotati, «dover spiegare agli italiani che davvero non ce la faremo a restituire le tasse non pagate in questi nove mesi, a partire da gennaio prossimo». Una norma, questa, contenuta nel decreto anticrisi che verrà approvato martedì alla Camera con il voto di fiducia, che sta creando non poche tensioni interne al Pdl. Con Tremonti e la Lega che non retrocedono di un millimetro, mentre l’abruzzese Gianni Letta tenta di opporsi trascinandosi dietro lo stesso Berlusconi. Al governatore della Regione Gianni Chiodi il ruolo peggiore, quello di raccontare la storia che in ottobre un’ordinanza del presidente del Consiglio correggerà poi l’"errore" contenuto nella legge. Stessa favola del decreto Abruzzo e delle successive correzioni di Bertolaso: non ci crede più nessuno.


E allora, Cialente, cosa avete deciso mercoledì scorso nell’assemblea di tutti i sindaci del cratere?
Riconsegneremo – tutti, di destra e di sinistra – la nostra fascia tricolore, quella ufficiale, al Presidente Giorgio Napolitano. Non si tratta di dimissioni: è un gesto simbolico per rendere evidente la nostra protesta. Le riprenderemo quando l’Italia avrà capito in quale situazione siamo.
Chiederete udienza al capo dello Stato?
Non ora. Non posso certo chiedere al Presidente della Repubblica di riceverci mentre il decreto è in iter tra Camera e Senato.
Allora, una manifestazione?
Non certo sotto il Quirinale, che è il tempio dell’Italia, un luogo sacro. E noi abruzzesi abbiamo dimostrato non solo grande dignità ma anche di saperci comportare da bravi italiani, da cittadini responsabili. La popolazione e la classe politica locale avrebbe potuto agire diversamente anche durante il G8, perché già allora sapevamo del decreto, e avremmo avuto un’occasione di visibilità irripetibile. Invece abbiamo contribuito al buon andamento del vertice accogliendo l'appello del presidente Napolitano. E ora mi sento accusare dal capogruppo regionale del Pdl Giuliante di «fare la sceneggiata». È un’ingiustizia palese: sono arrabbiato e umiliato.
Dal Pdl spiegano che chi ha guadagnato poco in questi mesi pagherà poche tasse...
È una presa in giro perché dall’anno prossimo ricominceremo a pagare tutte le imposte, perfino i mutui e l’Ici delle case crollate. E in più dovremo restituire in 24 rate 1,5 miliardi di euro: le tasse sospese dal 6 aprile a dicembre 2009. Come ho già detto, gli abruzzesi vengono trattati in modo molto diverso dagli altri terremotati italiani: in un anno, gli aquilani pagheranno 725 milioni di euro di tasse, esattamente il costo del piano C.a.s.e. Nessuno ci ha regalato niente, dunque: i terremotati si pagano da soli le new town dove alloggeranno solo una parte dei senza tetto. Ricordiamoci che il 78% del centro storico de L’Aquila è da demolire. E che c’è molta gente che ha perso il lavoro e non sa come mantenersi pur avendo la casa agibile. I soldi della cassa integrazione stanno arrivando solo ora, l’economia è a zero. Non ce la possiamo fare.
La solidarietà è già finita?
Purtroppo questo terremoto è stato cattivo, ed è venuto pure nel momento sbagliato

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Terremotati e tassati. Sfumano le promesse, in rivolta i sindaci dei centri colpiti

da L'Unità on line

Mentre Berlusconi annuncia case a tempo di record e con frigoriferi pieni, il governo si sta rimangiando una delle tante promesse ai terremotati ossia l'esenzione dalle tasse. Nel silenzio dei media la protesta sta montando. Respinte le richieste dell'opposizione, in barba ai proclami, la beffa delle tasse sta per diventare legge col dl anticirsi".


I sindaci dei Comuni del «cratere» del terremoto sono pronti a scendere in piazza al fianco del sindaco dell'Aquila, Massimo Cialente, riconsegnando per protesta la fascia tricolore. Gli amministratori sono pronti a unirsi all'azione del primo cittadino, il quale nei giorni scorsi aveva criticato alcune misure del Governo, in particolare le modalità di restituzione delle tasse sospese in seguito al sisma del 6 aprile scorso. La volontà è stata espressa in maniera netta nell'assemblea dei sindaci del cratere, coordinata da Cialente. La protesta collettiva scatterà se, come sembra certo, i cittadini saranno costretti a tornare a pagare le tasse dal mese di gennaio e a restituire le somme bloccate in 24 mesi, sempre da gennaio.

Nel 2010 la città dell'Aquila «sborserà 700 milioni di euro di tasse» per effetto del decreto legge anticrisi in discussione alla Camera, sul quale il Governo ha posto la fiducia, dice il sindaco del capoluogo abruzzese, Massimo Cialente. Secondo il quale «i cittadini pagheranno così di tasca propria la costruzione delle case che, nel mese di agosto, Berlusconi verrà personalmente a
coccolare». Anche «nel 2011 - prosegue Cialente - pagheremo un altro bel pezzo di ricostruzione. Nonostante le rassicurazioni e le promesse da parte del Presidente del Consiglio e del governatore Gianni Chiodi - sostiene il sindaco - i cittadini aquilani e dei
Comuni colpiti dal sisma torneranno a pagare le tasse dal 1/o gennaio 2010 e restituiranno, in soli due anni, quanto non
corrisposto in questi terribili mesi».

Si tratta di «una scelta ben diversa rispetto a quanto il nostro Paese ha ritenuto di dover fare in altri casi di sismi devastanti o catastrofi naturali e a quanto lo stesso Governo ha deliberato fino allo scorso novembre per il Molise e la provincia di Foggia».
Cialente afferma che «un comprensorio fantasma, distrutto completamente, per questo Governo e per questa maggioranza
parlamentare, e dunque per l'intera Italia, è tornato nella normalità».

Sulle modalità di rimborso dei tributi da parte dei cittadini dei Comuni colpiti dal terremoto «è emerso un senso di umiliazione - aveva detto ieri Cialente -, quasi di vergogna, nella necessità di spiegare a tutti gli italiani che non è una volontà di non pagare le tasse». Per Cialente si tratta invece di «una difficoltà oggettiva, una vera e propria impossibilità per una comunità che non ha più un'economia». Secondo il sindaco, L'Aquila sta «vivendo ancora la fase della prima emergenza» e, «soprattutto, vede a rischio il proprio futuro».

«Gli italiani - prosegue il primo cittadino del capoluogo abruzzese - hanno imparato a conoscere la nostra dignità e il nostro orgoglio e possono capire quanto ci costi questa battaglia. L'assemblea dei sindaci ha ribadito la volontà di collaborare con tutti, in particolare con la Protezione civile, perchè, come dico sempre, tutti insieme stiamo affrontando una situazione che non ha precedenti». Ma «se non troveremo il modo di lavorare tutti al meglio e di evitare errori come questo sulle tasse, temo - conclude il sindaco - che, tra qualche settimana, la situazione diventerà difficile sotto tutti i punti di vista».

«Anche se il nostro gesto ha il valore della protesta, non faremo azioni di protesta - ha continuato Cialente -, alla nostra gente stiamo chiedendo di stare calmi». Non si tratta di dimissioni, chiarisce il sindaco dell'Aquila, «anche se a volte la voglia di presentarle viene in seguito per la stanchezza e le tante amarezze che vivo quando parlo con persone secondo le quali non è stato fatto nulla». In riferimento alle tasse, il primo cittadino ha detto: «Non meritavamo l'umiliazione di dovere spiegare agli italiani che non dobbiamo pagare le tasse. Dopo il terremoto abbiamo mantenuto la nostra dignità, siamo stati sempre responsabili. Durante il G8 avremmo avuto un'occasione di visibilità irripetibile per far valere le nostre ragioni; invece, abbiamo
accolto in pieno l'appello del presidente Napolitano a non considerare il G8 evento di una coalizione, ma dell'Italia».

« L'Associazione dei Comuni Italiani è vicina al sindaco dell'Aquila Massimo Cialente ed agli amministratori dei Comuni colpiti dal terremoto dell'aprile scorso». È quanto afferma Sergio Chiamparino che ricorda come 'non da oggi i sindaci dei comuni
terremotati segnalano le criticità dei territori sul fronte della ricostruzione e dei bilanci. «È un messaggio forte, che deriva dalla difficoltà di amministrare aree dove molto di quello che c'era è andato perso e attende di essere recuperato o ricostruito. Anche la
richiesta, che ad oggi sembrerebbe essere contenuta nel decreto Tremonti, secondo cui dal gennaio prossimo i cittadini colpiti
dal sisma dovranno pagare le imposte che erano state sospese (compresi gli arretrati), rischia - conclude - di rendere ancora
più difficile la vita in quei territori ed essere quindi inaccettabile per chi quei territori amministra».


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martedì 21 luglio 2009

«Zoccole, zoccole», escort e ricatti

di Concita De Gregorio da L'Unità online

Tempo fa, inaugurando una linea del Freccia rossa, il presidente del consiglio si avvicinò a Vasco Errani e a Leonardo Domenici e di fronte a una decina di testimoni seduti nello stesso scompartimento disse loro, indicando il berretto da ferroviere che aveva in testa: «Vi piaccio come presidente ferroviere? Devo confessarvi però che mi preferisco presidente puttaniere». Risate di entusiasmo dello staff presidenziale al seguito.


Non era una battuta, come ormai sappiamo fin nel dettaglio. Era un afflato di verità. Sono mesi che l’impressionante giro di ragazze da catalogo (escort, si chiamano adesso) si è fatto vorticoso, incontrollabile il via vai persino per le guardie del corpo, per i vigilanti reclutati dai servizi di sicurezza e per gli autisti, alcuni dei quali ormai scrivono ai giornali: non avete idea di che cosa succeda in macchina. I medici si affannano a spiegare, in privati conciliaboli, quali siano le conseguenze delle sostanze che il premier assume per potenziare la virilità altrimenti fiaccata dall’età e dai postumi dell’intervento alla prostata: conseguenze imprevedibili, per persistenza e per improvvisa comparsa, da cui le rivelazioni degli autisti e altri dettagli tipo le dieci docce gelate per notte che tuttavia non risolvono né leniscono, anzi. Gianni Letta tranquillizza il clero, che certo non si scandalizza ma un poco si preoccupa: non è che sia uno stile di vita da raccomandare a messa, non da esibire al Family day.

Sarebbero tristi vicende private di un uomo che nel decennio che porta agli ottanta risulta incapace di accettare l’inevitabile e per altri versi piacevole trascorrere del tempo. Un’ossessione di eterna giovinezza divenuta, come diceva al principio di tutto questo la moglie, una malattia. Sarebbe un ottimo canovaccio per un filmetto di serie C se non che l’uomo vittima di questa debolezza senile e preda dei suggeritori che si avvicendano per ‘risolverla’ si trova alla guida del paese, mente e minaccia, usa i suoi avvocati fatti eleggere in parlamento per intimidire quei pochi giornali che non dipendono direttamente o indirettamente da lui: niente, naturalmente, si dice in tv. Una vicenda da Basso impero, titolavamo il prima pagina ormai mesi fa, con risvolti da Bagaglino.

Del sonoro delle conversazioni fra Silvio Berlusconi e Patrizia D’Addario pubblicati da l’Espresso tutto o quasi già si sapeva: che lui le aveva promesso di intervenire «sul cantiere» dove la donna non riesce ad avviare un’impresa immobiliare, che non le aveva dato la «busta coi 5000 euro». Dei «porta un’amica», qui declinato con il particolare «utilizzo finale» che dell’amica vorrebbe fare. Delle telefonate del mattino dopo, con voce flautata alla ragazza di cui non ricorda il nome, le chiama tutte tesoro: sei roca? Eppure stanotte non abbiamo gridato. Clarissa, Alessia, Barbara, Patrizia. Nuovo il dettaglio della colonna sonora della serate nel letto di Putin, la notte dell’elezione di Obama: «Zoccole, zoccole», di Sal da Vinci. Un presidente puttaniere con playlist tematica, una vera finezza: un omaggio alle ospiti. La collezione di video del Duce affianca la discoteca, per le notti insonni. Ad alcune sono stati proposti come diversivo, solo alle più intime però. Ma questo lo leggerete prossimamente...
21 luglio 2009


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lunedì 20 luglio 2009

Se la politica "pop" costruisce la morale

di Ilvo Diamanti da Repubblica on line

TRE MESI dopo l'avvio delle polemiche sulle frequentazioni del premier. Le reazioni della moglie. Le rivelazioni e i servizi fotografici sulle feste che hanno ravvivato le sue residenze. A Roma e in Sardegna. Private ma al tempo stesso pubbliche. Sede di rappresentanza per missioni dello Stato. E di feste fastose, abituali a casa "sua". Dopo molte spiegazioni - date e ritrattate - per spiegare vicende mai spiegate perché inspiegabili. Sentiamo echeggiare una questione, non solo in ambienti amici (suoi). Questa insorgenza morale e moralista. A chi e a che è servita?



Infine la maggioranza ha vinto le elezioni europee. Stravinto le amministrative. Magari "lui" non ha ottenuto il plebiscito personale che aveva chiesto. Il "suo" partito non ha ottenuto il risultato che sperava. Però, è ancora saldamente al comando. Del partito, della maggioranza, del governo. "Lui": ha vinto anche il G8. Tre mesi di inchieste giornalistiche, fotografie maliziose, rivelazioni piccanti e imbarazzanti. E poi scandali, veline, escort. Se dopo tutto questo "lui" è ancora saldamente al comando: ma chi ne potrà scalfire il potere e il consenso in futuro? Non solo: se dopo tutto questo la popolarità del premier è calata ma non è collassata, non significa che la maggioranza dei cittadini, in fondo, gli somiglia? Pensa come lui?

Definite in questi termini, le questioni ci sembrano mal poste. Anzitutto perché queste vicende hanno comunque influito sul risultato. Spingendo una quota elevata di elettori del PdL nel grande buco grigio dell'astensione. Ma, soprattutto, poste in senso meramente utilitarista. Come se il valore delle inchieste dipendesse solo da chi ci perde e guadagna. Non intendo affrontare discorsi moralisti e tantomeno morali. Non ne avrei titolo. Non scrivo per Famiglia Cristiana e non sono un portavoce della Cei. Solo un peccatore come (e forse più di) tanti altri.

Mi interessa, invece, tornare su un tema già affrontato in altre occasioni. Riguarda il rapporto fra le istituzioni, i leader e gli elettori in tempi di democrazia dell'opinione. Quando i cittadini diventano pubblico. Spettatori. Le istituzioni e i leader: attori. I media: teatro. Quando i valori diventano slogan. Le politiche e i politici prodotti da vendere. Quando il privato diventa pubblico. Perché è esposto in pubblico. E ha valore pubblico. Quando il gossip: diventa linguaggio politico.

È l'epoca della "politica pop". E si rischia di scambiare la popolarità per la realtà. Identificare la volontà popolare con la realtà sociale. Peggio: con l'etica pubblica. E viceversa: immaginare l'etica pubblica come un dato. Ma ciò che pensa e dice la "gente", anche in larga maggioranza, non è "innato". Riflesso della natura umana. Intanto perché una minoranza, talora molto ampia, pensa e dice diversamente. Poi perché a costruire l'opinione pubblica e la realtà sociale contribuiscono, in misura significativa, le istituzioni, chi le rappresenta e governa. Attraverso gli atti, l'esempio, le parole, i contatti quotidiani.

Attraverso i media. Il "fatto" che l'intolleranza e la xenofobia montino a folate in modo non coerente con le tendenze dei reati e dei crimini. Non è un "fatto", ma un "risultato". Prodotto dall'enfasi attribuita dai media e dagli attori politici e sociali. A livello nazionale e locale. Come ha scritto Barbara Spinelli sulla Stampa: "I fatti sono reali, ma se vengono sistematicamente manipolati (omessi, nascosti, distorti) la realtà ne risente, ed è così che se ne crea una parallela".

Si pensi all'esecrazione che, a seconda del periodo, investe i cani assassini, gli stupri, gli zingari, i romeni, gli albanesi. Gli islamici. A ondate. Oggi ad esempio pare che gli sbarchi degli immigrati si siano arrestati. I clandestini ridotti. D'altronde, se tali smettono di essere le badanti, ne abbiamo eliminati più della metà.
La realtà sociale, inoltre, è spesso trasfigurata dall'iperrealtà (come abbiamo scritto, riprendendo una suggestione di Carlo Marletti). Un ritratto quasi fotografico. Che si concentra su alcuni particolari. Li dilata oppure li riproduce in modo ossessivo.

Così propone uno specchio tanto fedele quanto distorto. Riflette una prospettiva unilaterale - e per questo falsa - della realtà. Perché ognuno di noi è "diverse persone". Siamo tutti, almeno un poco: opportunisti, egoisti, xenofobi, intolleranti, bugiardi, trasformisti, evasori (latenti), diffidenti (verso gli altri e lo Stato). Ma siamo tutti - almeno un poco - anche: altruisti, solidali, generosi, ospitali, dotati di civismo, sinceri, aperti, felici di stare in comunità.

E ci sentiamo tutti - almeno un poco - infastiditi: da chi dice bugie, evade, frega il prossimo, tratta male gli altri, è arrogante, prepotente, usa le cose pubbliche come fossero private e le cose private come fossero pubbliche. Tutti. (In particolare quando ci trasformiamo in vittime di questi atteggiamenti.) Per cui siamo capaci di grandi slanci e grandi chiusure. Per questo ogni raffigurazione unilaterale e caricata è irreale quanto iperreale.

È la pop-art della democrazia-pop. Dove i valori sono trasmessi dai comportamenti pubblici e privati - tanto è lo stesso - esibiti dalle istituzioni. Dall'esempio degli uomini che le rappresentano e le governano. Dai media. Tanto più oggi, in Italia. Dove i confini tra chi guida la politica, il governo, i media sono tanto sottili e confusi che quasi non si vedono. Per questo ciò che il premier dice e non dice. Quel che fa e non fa. Anche in privato. Ha valore pubblico. Forma - o deforma - i valori pubblici. E privati. Le inchieste e le critiche (di una parte solo) della stampa e della politica che tanto infastidiscono il premier, per la stessa ragione, non sono un "attentato" alla democrazia. Ma una garanzia.

Un antidoto contro l'iperrealismo. Servono a correggere la distorsione di questo "specchio unico". In cui si riflette, ripetuta e dilatata all'infinito, l'immagine del berlusconi-che-è-in-noi. Fino a sovrapporla al nostro profilo. Un'idea che, personalmente, mi inquieta non poco. (19 luglio 2009)


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Mezzogiorno di fuga

di Enrico Pugliese, dal Manifesto del 18.7.09

È positivo che i mezzi di comunicazione di massa abbiano dato tanta attenzione alla pubblicazione del rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno. È anche positivo il fatto che, con l'eccezione de Il Giornale di Berlusconi i toni siano preoccupati. E da questo punto di vista i dati sono incontrovertibili.
In alcuni casi il significativo peggioramento della situazione è evidente. In altri non c'è nulla di nuovo e si tratta del proseguimento, senza alcuna modificazione della portata di un trend ormai decennale

È questo il caso della «ripresa dell'emigrazione dal Mezzogiorno» messa in evidenza per la prima volta dalla Svimez dieci anni addietro e ribadita annualmente nei rapporti. Insomma il vero merito della Svimez è stato quello di aver rilevato per prima dieci anni fa l'esistenza e l'importanza sociale del fenomeno, quando ancora sociologi, economisti e politici erano impegnati a spiegarsi un fenomeno che ormai non esisteva più: quello della presunta indisponibilità alla mobilità territoriale del Mezzogiorno, espressa soprattutto dal fatto che i giovani non volevano «lasciare il nido», non erano disponibili a muoversi dal paese e dalla comodità della famiglia nonostante gli elevati tassi di disoccupazione giovanile.
Passati dieci anni, e dopo che a lungo è stata sottolineata la presenza di una emigrazione significativa dal Sud, ora tutti scoprono improvvisamente che quasi un milione di persone se ne sono andate. E difatti con 70-80 mila persone all'anno (quale saldo migratorio, cioè partenze meno ritorni) si arriva a una cifra rispettabile: 780 mila persone.
Il dato non è neanche eclatante, soprattutto in considerazione delle condizioni del Mezzogiorno. Ma la questione principale è un'altra: il fenomeno effettivo è di proporzioni molto più rilevanti dal punto di vista sociale e numerico di quanto gli stessi dati statistici non mostrino. Di questo sembra non essersi accorto nessuno tranne il manifesto di ieri con l'intervista di Francesca Pilla e Enrica Morlicchio. Insomma - come si evince dall'intervista e come andrebbe studiato in dettaglio - questi dati mostrano solo la punta dell'iceberg. In Italia ci sono dei fenomeni di mobilità territoriale enormi che solo in parte risultano alle statistiche. D'altronde, anche quelli statisticamente documentati raramente sono oggetto di commento e analisi tranne che da parte di pochi specialisti. Così, ad esempio, raramente si discute di un intenso processo di mobilità territoriale, anch'esso spesso sottolineato dalla Svimez, all'interno delle stesse grandi aree del paese: cioè all'interno del Sud e del Nord e all'interno delle stesse regioni.
Per necessità o per virtù in Italia ormai ci si sposta molto e c'è da essere stufi delle lezioni sui tedeschi che vanno dalla Baviera ad Amburgo senza ritenersi emigranti. Il fenomeno che i dati invece non mostrano è quello di cui parlava l'articolo sul manifesto di ieri: il pendolarismo a lunga distanza dei lavoratori meridionali. Io ne sentii parlare per la prima volta in Italia non in un congresso di sociologi o demografi ma in uno spettacolo di Giovanna Marini, la quale raccontava di un giovanotto che, morto di sonno, le cascava addosso (senza cattive intenzioni) in un treno a lunga percorrenza tra Sud e Nord. La cantante e musicista - come per altro è suo solito - trova il tempo e la voglia per condurre l'inchiesta sociale. Scopre così, e racconta al suo pubblico, dell'esistenza del pendolarismo dei giovani che partono dalla Campania o dalla Puglia e per quattro o cinque giorni di lavoro a settimana, dormono dove hanno trovato lavoro solo due notti mentre altre due le passano viaggiando, in treno.
Questa è la nuova emigrazione: mica solo quella dei laureati della quale cianciano i giornali.
Quest'ultima è l'unica che c'è sempre stata. Quello che ora viene presentata come una novità è un fenomeno che è andato consolidandosi ormai da quasi mezzo secolo e che era forte e intenso anche quando tutti si chiedevano perché non si emigrava più dal Mezzogiorno. E difatti venti o venticinque anni addietro, quando i saldi migratori erano prossimi allo zero, c'era comunque chi partiva e chi tornava. Tornavano i vecchi operai che avevano buttato il sangue soprattutto nelle industrie del Nord-ovest, a partire dalla Fiat, all'epoca dei grandi licenziamenti e dei primi processi di deindustrializzazione. Partivano i giovani che, essendo andati a studiare alla Bocconi o al Politecnico di Milano o Torino, vi restavano e quelli che andavano a fare gli insegnanti o i segretari comunali nei comuni del Nord-est (dovendosi poi proteggere dagli insulti per avere la macchina targata Cosenza o Campobasso). Con la valigia di cartone non parte più nessuno da decenni e l'emigrazione altamente scolarizzata è al contempo una non-novità e una delle cose più enfatizzate dalle stampa quale grande notizia.
Ma torniamo alla punta dell'iceberg. Anche in passato, all'epoca della grande migrazione interna - di quella epopea migratoria ben presentata dal cinema e dalla letteratura, con poche indagini sociali veramente buone (Goffredo Fofi a Torino, Ferrarotti a Roma) - il dato statistico era insufficiente a rappresentare l'entità stessa del fenomeno. Passavano infatti molti anni prima che la gente decidesse di (o potesse, quando c'erano ancora le leggi contro l'urbanesimo) chiedere la residenza nel comune di arrivo. Ma ora i tempi dell'emigrazione senza cambiamento di residenza si sono allungati moltissimo tranne che per la componente borghese e altamente scolarizzata (magistrati, impiegati di alto livello, insegnanti e presidi, ecc.). Questi tempi sono diventati pressoché infinti per gli altri, per quelli che vanno avanti per anni con contratti a tempo determinato (quando va bene), co.co.pro e contratti analoghi (quando va meno bene ma almeno non si lavora al nero) o che lavorano semplicemente al nero, come decine e decine di migliaia di giovani, anche altamente scolarizzati. E pochi sanno che le rimesse di questi nuovi emigranti non esistono: semmai sono loro che le ricevono da casa (come risulta da più di una inchiesta), giacché con i loro salari non ce la fanno a campare.
Questi sono i nuovi emigranti Sud-nord. Non sono ingegneri e donne magistrato (che pure ci sono e sono bravissimi, ma non sono la maggioranza). I nuovi emigranti sono i pendolari a lunga distanza, quelli che determinarono lo sdegno e l'irritazione dell'allora sindaco Veltroni per la loro cafonaggine un paio di anni addietro quando occuparono la Stazione Tiburtina (Che roba contessa!). Questo è l'iceberg che bisogna studiare e comprendere. La Svimez ha il merito di farci vedere ogni anno - e lo fa ormai da dieci anni - la sua punta.

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venerdì 17 luglio 2009

Quando il potere teme la verità

di GUSTAVO ZAGREBELSKY , Repubblica on line

SONO venute a galla, finalmente, due questioni che riguardano, l'una, la verità e, l'altra, la moralità nella vita pubblica. Sono questioni che oggi particolarmente toccano un uomo alle prese con l'affannosa gestione davanti alla pubblica opinione di uno sdoppiamento, tra la realtà di ciò che effettivamente egli è e fa e la rappresentazione fittizia che ne dà, a uso del suo pubblico. Siamo di fronte a una novità? Possiamo credere sia un caso isolato? Via! La menzogna e l'ipocrisia, alla fine la schizofrenia, sono sempre state compagne del potere.


Questa constatazione realistica può chiudere il discorso solo per i nichilisti, i quali pensano a un eterno nudo potere, che volta a volta, si presenta in forme esteriori diverse, ma sempre e solo per coprire la sua immutabile, disgustosa, realtà. Per gli altri, quelli che credono che il potere non necessariamente sia sempre solo quella cosa lì, ma che si possa agire, oltre che per conquistarlo, anche per cambiarlo; per quelli, in breve, che credono che vi siano diversi possibili modi di concepire e gestire le relazioni politiche, verità e menzogna, moralità e ipocrisia sono dilemmi su cui si può e si deve prendere posizione.

Vizi e virtù cambiano, anzi si scambiano le vesti, a seconda di quali siano le concezioni del vivere comune. I vizi possono diventare virtù e le virtù, vizi. Onde possiamo dire che da come li si concepisce capiamo che idea abbiamo della nostra convivenza. C'è qui una spia che permette di guardare nello strato profondo, magari inconscio, delle nostre concezioni politiche. Nelle Istorie fiorentine (III, 13), Machiavelli dice che i mezzi del potere sono "frode e forza" e che "quelli che per poca prudenza o per troppa sciocchezza, fuggono questi modi, nella servitù sempre e nella povertà affogano; perché i fedeli servi sempre sono servi, e gli uomini buoni sempre sono poveri; né mai escono di servitù se non gli infedeli e audaci, e di povertà se non i rapaci e fraudolenti". Buone massime di comportamento, ma per il Principe in società di servi e padroni: qui davvero le virtù diventano vizi e i vizi, virtù.

La verità, il rispetto dei "bruti fatti", è la virtù di coloro che si intendono e vogliono intendersi tra loro; al contrario, quando il proposito non è l'intesa ma la sopraffazione, la virtù non è più la verità ma è la menzogna, la simulazione di quel che è e la dissimulazione di quel che non è. La verità predispone al dialogo in cui ciascuno onestamente fa valere i propri punti di vista; la menzogna prepara inganni e, in risposta, giustifica altre simulazioni e dissimulazioni (Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta - 1641), come arma di legittima difesa. Ne vengono società di maschere, mascheramenti e mascherate che nascondono violenza, come erano le società di cortigiani, venefici e tradimenti del 5 e '600 in cui l'elogio della malafede dei governanti ha trovato il suo terreno di coltura.

Gesù di Nazareth impartisce ai discepoli due comandamenti, all'apparenza contraddittori: "Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno" (Mt 5, 36) e "siate avveduti (phronimòi) come serpenti" (Mt 10, 16). Da un lato, dunque, rispecchiare la verità, né più né meno; dall'altro, usare la lingua biforcuta del "più astuto tra tutti gli animali" (Gn 3, 1). Come si scioglie la contraddizione? In un modo molto interessante per la nostra questione. Il primo comandamento vale nei rapporti tra leali appartenenti alla stessa cerchia, in quel caso i credenti nella medesima parola di Dio ("avete inteso che fu detto ..., ma io vi dico"). Il secondo vale quando le pecore (i discepoli) sono inviati in mezzo ai lupi, gli uomini dai quali devono "guardarsi" con accortezza.
Ecco, dunque. La verità vale tra amici; tra nemici è dissennatezza. Se riteniamo di non essere vincolati alla mutua obbligazione al vero, se riteniamo legittima la frode, la menzogna, l'inganno è perché viviamo nell'ostilità e i regimi dell'ostilità sono quelli inclini alla sopraffazione. Noi comprendiamo perciò lo scandalo che, purtroppo in altri Paesi e non nel nostro, dà l'uomo pubblico che è scoperto avere mentito, per questo solo fatto, magari su una questioncella da niente: uno scandalo non di natura morale o moralistica ma politico, che può portare alla rovina d'una carriera. Chi mente, non importa su che cosa, è un pericolo per la libertà e la democrazia. Oggi, da noi, si moltiplicano assennati appelli alla concordia e al dialogo, ma senza il parallelo, anzi preliminare, appello alla chiarezza della verità, sono parole destinate al vento.
* * *
Anche la questione della moralità conduce a un problema politico di democrazia. Si dice: il giudizio morale non deve influire sul giudizio politico. La politica si giudica con criteri politici; la moralità, con criteri morali. Un ottimo uomo pubblico può essere un pessimo individuo nel privato, col quale non si vorrebbe avere nulla da spartire. O viceversa: una persona dabbene può essere un pessimo politico, cui non vorremmo affidate responsabilità pubbliche. Gli ambiti sono diversi e devono essere tenuti separati. Lo Stato moderno è il prodotto della scissione dell'ufficio pubblico dalla persona fisica che lo ricopre. Il funzionario è, come tale, soggetto a particolari e stringenti doveri di moralità pubblica, della cui osservanza risponde pubblicamente. Ma la stessa persona, nel momento in cui è spogliato della sua funzione ritorna a essere uno come tutti, ha il diritto di essere lasciato in pace come un qualunque altro cittadino. La sua moralità è in questione solo di fronte alla sua coscienza, a Dio o al confessore.
Tutto questo è chiaro ma troppo semplice. I punti di interferenza sono numerosi, in un senso e nell'altro. Quando c'è interferenza, non si può negare l'esigenza di verità. Può accadere che la posizione pubblica sia spesa nella vita privata, oppure che i comportamenti privati si riverberino sulla posizione pubblica. Talora queste commistioni hanno rilievo per il codice penale. Ma molto spesso no. Non per questo non hanno rilievo politico. Esempio del primo tipo: la strumentalizzazione del "fascino del potere" per ottenere vantaggi nella vita privata. I favori sessuali attengono certamente alla vita privata. Ma altrettanto certamente ciò non basta a escludere il diritto dell'opinione pubblica di sapere se questi si ottengono facendo balenare o distribuendo favori, come solo chi occupa posizioni di pubblico potere può fare. Oppure, esempio del secondo tipo, lo stile di vita personale attiene certamente all'ambito privato che chiunque ha il diritto di definire come vuole. Ma se questo stile di vita contraddice i valori sociali e politici che si professano pubblicamente e si vogliono imporre agli altri, possiamo dire che questa ipocrisia sia irrilevante per un giudizio politico da parte dell'opinione pubblica?
Non è affatto questione di moralismo. Nessuno, meno che mai quella cosa che si denomina opinione pubblica, ha diritto di pronunciare sentenze morali, condannare peccati e peccatori. Chi mai gradirebbe un giudizio di questo genere sulle piazze o sui giornali? Non è questo il punto. Il punto è che in democrazia i cittadini hanno diritto di conoscere chi sono i propri rappresentanti, perché questi, senza che nessuno li obblighi, chiedono ai primi un voto e instaurano con loro un rapporto che vuol essere di fiducia. Devono poterli conoscere sotto tutti i profili rilevanti in questo rapporto. Ora, entrambe le interferenze tra pubblico e privato di cui si è detto convergono nel creare divisioni castali in cui la disponibilità del potere crea disuguaglianze, privilegi e immunità, perfino codici morali diversi, che discriminano chi sta su da chi sta giù. E questo non ha a che vedere con la democrazia? Non deve entrare nel dibattito pubblico? Così siamo ritornati al punto di partenza, il rapporto verità menzogna. Che questa immoralità tema la verità è naturale ed evidente. Anzi, proprio il rifiuto ostinato di renderla disponibile a tutti in un pubblico dibattito, motivato dalle temute ripercussioni sul rapporto di fiducia tra l'eletto e gli elettori, è la riprova che questa è materia di etica politica, non (solo) di moralità privata; è questione che tocca tutti, non (solo) famigliari, famigli, amici, clienti.


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UN ORGANISMO PER FARE SOCIETÀ E POLITICA

di Paolo Cacciari, da Il Manifesto

Chi più, chi meno, ognuno di noi è geloso delle proprie appartenenze, è affezionato alla propria storia politica, al fondo, è convinto di avere la soluzione in tasca. Molto del nostro tempo lo spendiamo cercando di convincerci a vicenda. Siamo arrivati al punto di preferire la sconfitta certa comune piuttosto che correre il rischio di vedere vincere l'altro. Non è bello ma bisogna capirne i motivi. Altrimenti anche i più genuini e generosi appelli all'unità, i vari e ripetuti tentativi di associazione e federazione sono destinati a rimanere vox clamantis in deserto.


Bisogna ammettere che le differenze trovano ragione in culture e visioni diverse, spesso molto diverse. I comunismi sono stati e saranno sempre molti. Gli antagonismi anticapitalisti sono ancora più numerosi. Come fare a stabilire qual è quello «giusto», più efficace e vincente? Il nostro o il loro? È evidente che così non se ne va fuori. Anche il più modesto risultato elettorale, il più striminzito sciopero, il più malriuscito corteo, il meno diffuso giornale... potrà essere rivendicato come «un buon inizio».
La nostra generazione politica (diciamo quella che si è formata tra il '68 e il '77) è prigioniera di una cultura politica competitiva e aggressiva, che pretende di «egemonizzare» chiunque esprima visioni differenti dalle nostre. Contrariamente a quanto predichiamo in pubblico (una società di liberi ed eguali) applichiamo acriticamente al nostro interno i metodi peggiori che abbiamo imparato vivendo nella società borghese: tra questi il «principio di maggioranza». Ma poiché (come giustamente spiegava Bakunin) le decisioni non possono che valere per chi le prende, alle minoranze non è data altra alternativa che ubbidire o allontanarsi. Da qui la straordinaria propensione alla scissione delle formazioni politiche di sinistra. Per di più, come ci insegnano gli scienziati dell'organizzazione, esiste un principio di sopravvivenza che trasforma i «gruppi dirigenti», anche della più piccola e scalcinata organizzazione, in una oligarchia.
Noi, gente di sinistra, non possiamo avere altri legami e motivi di stare assieme se non la condivisione di idee. Per Ekkehart Krippendorff: «Il movente originario della sinistra sta in una ribellione morale». Quindi, un processo di compresenze, convergenze e accumunamento tra diverse soggettività antagoniste, spiriti critici, coscienze dotate di spirito di giustizia... o come altro preferiamo chiamarci, avviene per catarsi esterna sotto la forza di un attrattore ordinatore generale (il comparire di un soggetto rivoluzionario in sé e per sé, l'esplodere della contraddizione principale, l'affermazione di un modello di ordinamento sociale assunto come guida), ma non è questo il nostro caso storico, oppure bisogna cercare dei sistemi di collaborazione, di mutualità, di reciproco appoggio utili a tutti e a ciascuno. Per questo le regole (vedi proposte di Marcon e Pianta, formulate prima e dopo le elezioni) assumono un valore decisivo.
Del resto, come diceva già quel vecchio seminudo all'arcolaio, tra mezzi e fini esiste la stessa connessione inviolabile che vi è tra il seme e la pianta. Penso ad un agire insieme per campagne di iniziative (quelle elettorali sono solo alcune tra le altre) su piattaforme elaborate con modalità partecipate, con auditing e convention pubbliche, con l'uso di delegati sempre revocabili ma titolari di una propria inalienabile libertà di coscienza. Penso ad un sistema di connessioni, collaborazioni, coordinamenti multidimensionali che costituiscono spazi pubblici e forme organizzate stabili dell'agire politico. Penso alla fine di ogni separazione tra lavoro sociale e lavoro di rappresentanza. Non un «incontro a metà strada» e più che un «intreccio» tra pratiche sociali e rappresentanze, tra spontaneità insorgente e mediazione politica, ma una forma di autoriconoscimento e autodeterminazione di soggetti capaci assieme di conflitto e di contrattazione, capaci di «fare società» perché sanno districarsi tra le istituzioni e capaci di «fare politica» perché sono parti di società.
Questa nuovo «organismo» lo chiameremo ancora partito (anche se variamente aggettivato: politico, sociale, di massa, cartello elettorale, federazione, ecc.) o in qualche altro modo? Non nascondo che se riuscissimo a distinguerlo dagli altri e da tutti quelli che ci sono stati fino ad oggi anche nel nome, oltre che nei modi d'essere e nelle modalità di funzionamento, sarebbe già un gran bel passo avanti.


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giovedì 16 luglio 2009

Il silenzio dei conniventi

di Michela Murgia, da: http://michelamurgia.altervista.org/content/view/374/2/

A volte ripenso ai primi mesi del 2007, quelli in cui divampava la polemica sui Dico, e mi tornano in mente i martellanti interventi mediatici del Papa, di Camillo Ruini, di Giuseppe Betori, di Rino Fisichella e dei parlamentari in quota CEI sul tema della famiglia composta da uomo e donna, definita naturale e sancita dal matrimonio, contrapposta a tutte le altre forme di convivenza solidale tra le persone, marchiate come irregolari e dunque non degne di medesima dignità, passi religiosa, ma nemmeno sociale. Ho un ricordo vivissimo di piazza san Giovanni gremita per il Family Day, manifestazione di fatto contro il governo e le sue pur timidissime politiche sui diritti civili; rammento anche le pressioni che dovettero subire le sigle ecclesiali che si dimostrarono recalcitranti o anche solo scettiche sull’iniziativa. Era un atto di forza, e la CEI fece di tutto perché il numero delle presenze impressionasse le televisioni, anche ricorrendo a partecipazioni non proprio spontanee,

I Neocatecumenali per esempio a quel raduno furono più numerosi di quanto non sarebbero stati mai, perché in quei giorni a Roma c’era il loro incontro mondiale, e con lo statuto finalmente in approvazione alla fine di 5 tormentati anni ad experimentum, il leader carismatico Kiko Arguello deve aver capito che non era proprio il caso di fare il timido se voleva levar via dal movimento la patina di marginalismo eretico: andarono in massa, ed erano i più numerosi. L’Azione Cattolica, dopo un imbarazzato dibattito interno dove i no erano nettamente più dei sì, cercò di smarcarsi come poteva garantendo la presenza del consiglio nazionale, ma lasciando “libertà di partecipazione alle diocesi”, molte delle quali mandarono a dire di avere altri impegni. Le ACLI, che avevano la complicazione non trascurabile del fatto che la proposta di legge contestata era stata stesa proprio da un loro ex presidente, aderirono con mille distinguo, ma l’entusiasmo (e il numero) era quel che era. Comunione e Liberazione invece era in grande spolvero in prima fila a fare la hola con i campioni della famiglia cristiana del centro destra, il plurifamigliato Casini e il Bondi che si separa more uxorio proprio in questi giorni; li raggiunse Papi in persona, e sul suo di matrimonio si è già detto tutto. In quel marasma di facce di culo i movimentini più fanatici, santamente sempre presi a calci (cit. Socci ) da papi più illuminati di questo, intravedevano nell’occasione il cambio di vento, ed erano lì a goderselo con i figli neonati appesi alle schiene e i deliri radiomariani di padre Livio negli auricolari. Quello della famiglia bianca e cristiana fu un gran brutto spettacolo, ma in ogni modo la Chiesa c’era, e dimostrò che mostrando i muscoli poteva influire direttamente sulle politiche sociali.

Dove sono oggi i Neocatecumenali con i loro cembali, mentre migrare diventa reato? Dov’è la CEI mentre i poveri senza pane e pace vengono respinti in mare verso coste dove si decide del loro destino in modi che non conosciamo? Perché nessuno di loro ha ritenuto prioritario organizzare una pressione visibile, magari portando in piazza la gente, per difendere il diritto di ognuno a cercare condizioni di vita migliori? Dove sono gli intellettuali teocon mentre si misura chi è abbastanza utile a noi per restare?

Il livello di connivenza della CEI con questo governo in cambio della tutela dei suoi maggiori interessi economici e del mantenimento delle sue aree di influenza è tale che neppure su una violazione così palese del cuore stesso del Vangelo (ero straniero e mi avete accolto) i papaveri vaticani spendono una parola di critica. I loro ipocriti distinguo in quarta pagina su giornali che non leggono nemmeno i parroci dovrebbero un giorno servire loro per dire "noi ci dissociammo", ma è così evidente la differenza di comportamento tra l'intervento preventivo contro i DICO e i tiepidi dubbi del dopo decreto Maroni che questo paravento non gli servirà. Da cristiana mi vergogno soprattutto di persone come Domenico Sigalini, presule per meriti di propaganda giubilare e già assistente-manager dell'Azione Cattolica ai tempi in cui peccava di troppa autonomia, che è stato capace di affermare che "Bisognerà operare tante sanatorie, con cautela, riconoscendo a queste persone dignità e apprezzamento per il loro lavoro poiché sono struttura portante dell'assistenza alle persone. [evidenzio che la dignità secondo lui va riconosciuta poiché c'è una utilità. ndr] Sono d’accordo con la proposta del ministro Giovanardi – ha aggiunto - di una sanatoria per le colf e badanti anche se il problema delle badanti è un problema che va analizzato con molta cura, perché nella mia vita diocesana colgo persone che sono contentissime della dedizione che hanno queste badanti e altri che invece si sentono derubati e frustrati." Il punto di vista delle badanti (usare la funzione al posto della persona è ormai normale, pare) non conta ovviamente nulla, così come non conta che il fatto che le persone che lavorano in Italia senza permesso di soggiorno, grazie a questa legge inumana saranno da oggi spaventosamente a rischio di ricatti di ogni tipo (orari, prestazioni, retribuzione) perché indotti al silenzio dalla possibilità di essere denunciati come clandestini dai loro stessi datori di lavoro.
Chi potrà rifiutare se gli si chiede di lavorare dodici ore?
Chi potrà negoziare uno stipendio equo o un giorno di riposo?
A conferma che la discriminante del rispetto non è quella della persona ma della nazionalità, c'è già qualche sindacato senza pudore che si lamenta perché anche la regolarizzazione proposta costerebbe troppo agli italiani in contributi. E naturalmente nell'orgia della sicurezza dell'uomo contro l'uomo nessuno ricorda più le lacrime di Berlusconi per i respingimenti dei clandestini albanesi nel 2007.

La verità è che piazza San Giovanni per difendere quei poveracci non la riempirebbe nemmeno Ruini con la sua macchina da guerra politica, perché la famigliola del mulino bianco è un'icona molto più popolare dell'immigrato affamato sul gommone. Nessuna coscienza veramente cristiana è stata formata da questa gerarchia, nessun senso di carità genuina e non finalizzata a una qualche utilità può sorgere dall'esempio dei molti Sigalini che reggono i bastoni del pastore. La Chiesa che emerge trionfante sui media è in realtà sconfitta nel suo cuore profondo, e come sempre non c'è chi dica che il re è nudo.

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Verità finte e bugie vere

di Edmondo Berselli, da Repubblica on line

Chiedere a Silvio Berlusconi di recarsi in Parlamento e riferire sulle vicende che lo coinvolgono sul piano privato e politico, morale e giudiziario, significa toccare il punto cruciale in cui per il premier verità e menzogna si incrociano. La verità è di una semplicità palmare e il capo del governo l' ha esposta in modo spettacolare al G8, chiedendoe ricevendo una copertura mediatica capillare. Per giorni le tv nazionali sono state invase dall' immagine del premier «statista», dell' «anfitrione» perfetto, dell' uomo stilisticamente a proprio agio con i leader mondiali.

Sorridente, psicologicamente sotto controllo, addirittura misurato negli atteggiamenti, Berlusconi è riuscito a nascondere, con un volteggio e un gioco di prestigio, l' altra parte, quella oscura, the dark side, che ne investe integralmente la personalità e il ruolo politico. Se la verità del capo del governo è chiara, ed è stata esposta con il riuscito show dell' Aquila, resta in gioco quest' altra parte, quella della menzogna. Una parte tutta da approfondire, che presenta implicazioni politiche, e più ancora istituzionali, di eccezionale rilevanza pubblica. Il fatto è questo: quasi travolto da una storiaccia di sesso privato, sullo sfondo di «torte», escort, notti brave, il capo del governo non ha voluto accorgersi che l' aspetto privato (e famigliare) della vicenda era diventato clamorosamente pubblico; che aveva coinvolto luoghi e sedi istituzionali; infine che aveva assunto una essenziale dimensione politica. Di fronte a questo intreccio di fattori, Berlusconi ha reagito alla sua maniera: vale a dire con una combinazione di bugie unite alla convinzione di poter manipolare la realtà a uso e consumo delle masse televisive. Prima la strategia del silenzio, fondata sull' idea che «se non se ne parla, il caso non esiste», poi il vittimismo sacrificale, la denuncia di piani eversivi contro l' Eletto, l' attacco premoderno alla stampa «nemica», gli inviti agli imprenditori a negare risorse pubblicitarie ai sabotatori e ai complottisti. I depistaggi di Berlusconi sono infiniti, così come sono innumerevoli quelli dei suoi collaboratori e avvocati,a cominciare dal deputato e avvocato Niccolò Ghedini, l' inventore non proprio fortunato dell' innocenza «a prescindere» del premier in quanto «mero utilizzatore finale» di servizi sessuali a pagamento. Tuttavia nessun depistaggio politico e mediatico può togliere di mezzo alcuni elementi di fatto. Cioè alcune verità che non sono quelle del premier. In primo luogo c' è il giudizio dell' establishment: per quanto cinico e corrivo, conformista e volutamente miope sia apparso l' atteggiamento delle élite italiane, sarebbe difficile sostenere che i maggiori gruppi di potere abbiano apprezzato la spregiudicatezza anche estetica dell' intrattenimento berlusconiano, e la rivendicazione di uno stile di vita in cui ogni eccezione alla morale convenzionale è lecita e legittimata da una funzione politica concepita in modo feudale. Si aggiunga poi il punto di vista dell' élite più solidale e compatta che esista in Italia, vale a dire la Chiesa cattolica. Un punto di vista prima diplomaticamente dissimulato,e poi invece sempre più esplicito, fondato ad esempio sulla condanna del «libertinaggio» da parte della Cei, che sembra aprire ufficialmente una questione di credibilità fra la gerarchia e il berlusconismo. Anche in questo caso Berlusconi ha tentato un recupero cercando un incontro al vertice in Vaticano, con l' idea di scambiare la propria attuale impresentabilità in quanto leader che si ispira al cattolicesimo con grandi concessioni sul testamento biologico e altre materie di interesse ecclesiastico (vedi i finanziamenti alla scuola privata). Questa strategia, con la ricerca affannosa di un «vertice» fra Berlusconi e Ratzinger, non sembra sposarsi facilmente con la tradizionale prudenza politica della Chiesa. Il popolo di Dio è rimasto gravemente sconcertato dai fasti della prostituzione di regime; nonostante i sondaggi esibiti dal premier, la sua caduta di affidabilità in diversi settori della base cattolica appare indubitabile. Con questo si torna inevitabilmente all' intreccio di verità e menzogna che si è stretto intorno al Sultano. Sciogliere questo intreccio con metodi istituzionali, ossia entrare in un' aula parlamentare e assumersi, argomentandola, una piena responsabilità istituzionale, non rientra nello stile berlusconiano. Lo fece Bettino Craxi, con lo storico discorso del 29 aprile 1993, «tutti colpevoli nessun colpevole», invitando il Parlamento a scagliare la prima pietra e trovando soltanto un silenzio imbarazzato e complice. Ma Craxi, a suo modo, era un leader classico. Berlusconi è uno showman post-democratico. Davanti a un meccanismo istituzionale che potrebbe rivolgergli domande, chiedergli spiegazioni, invitarlo a uscire dal lato oscuro del suo potere e del suo agire, si vede tutta la sua solitudine culturale, si avverte la convinzione di essere sciolto dalle leggi, il sentirsi padrone di apparati che è abituato a governare a suo arbitrio. E di considerarsi infine al di sopra di ogni giudizio. Per questo il premier non ce la fa a uscire dal pasticcio di verità finte e menzogne vere in cui si è cacciato. Non può accettare che un' aula «sorda e grigia» metta in discussione il suo ruolo e il suo potere. Può forzare ogni giorno la situazione, reclamando la propria totale estraneità al verdetto delle istituzioni e delle controparti politiche. Non si tratta soltanto di populismo. È la convinzione che la norma può essere fabbricata ex novo dal leader, che la menzogna è un elegante giro di valzer dentro l' alone di notti dorate, e che la verità è tutt' al più uno slogan pubblicitario: che alla fine convincerà senza troppa fatica tutti coloro che accetteranno di farsi convincere. - EDMONDO BERSELLI

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mercoledì 15 luglio 2009

Uomini che amano le donne

di Ida Dominijanni, da Il Manifesto

Ha perfettamente ragione Stefano Rodotà a chiedere (su Repubblica di ieri) che il nuovo corso politico auspicato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (sul Corsera di domenica) non cominci «all'insegna di una omissione», ovverossia archiviando scandali e rivelazioni che hanno travolto la figura, immagine e sostanza, del presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Ha ragione, e con lui hanno ragione vari esponenti dell'opposizione, a chiedere che il premier riferisca in parlamento, che venga restituito onore alla responsabilità politica, che quello che è accaduto non venga rinchiuso in una «parentesi moralistica», che si ristabilisca il valore dirimente della verità nella sfera pubblica.

Sono princìpi basilari della democrazia liberale, mica di chissà quale rivoluzione, che dovrebbero essere dati per assodati e ampiamente condivisi, e che scopriamno invece essere negletti e calpestati non solo dal premier ma da chi lo sostiene con i voti e con gli argomenti; princìpi, dunque, per i quali non bisogna smettere di lottare.
Tuttavia, man mano che passano le settimane, cresce la sensazione che la difficoltà o il pudore di parlare del merito della questione, oltre che dei principi liberaldemocratici violati, indebolisca altro che rafforzare le armi dell'attacco a Berlusconi. Difficoltà e pudore si possono capire ovviamente, perché quando c'è di mezzo la sessualità sono forti sia la tendenza a confinare il discorso della sfera privata - e abbiamo visto quanto questa tendenza sia stata prevalente nell'opposizione - sia la tendenza ad astenersi dal giudizio per non essere tacciati di moralismo; per non dire di una incoffessata e incoffessabile complicità maschile pronta a scattare trasversalmente e inconsciamente. E però, finché l'opposizione - politica e intellettuale - non troverà le parole per dire qual è l'elemento insopportabile della berlusconeide degli ultimi due mesi, non troverà di conseguenza nemmeno l'elemento irrinunciabile della propria battaglia. E l'elemento insopportabile non è né l'esuberanza o l'edonismo del premier, né i suoi gusti o le sue preferenze sessuali, né la quantità di amanti che gli piace esibire. E' l'uso sistematico di un sistema di scambio sesso-danaro-potere, quale risultava fin da subito dalle parole di sua moglie e quale è stato confermato dalle inchieste giornalistiche. Un uso sistematico che prima che inquinare la vita istituzionale, denota un indecente disprezzo delle donne, camuffato da seduzione e galanteria. E segnala dunque una questione di civiltà, di fronte alla quale la politica non può tacere e non deve fare un passo indietro ma due avanti.
Sembrerebbe lapalissiano ma non lo è affatto, infatti questo argomento compare poco, troppo poco nel dibattito sulla moralità pubblica del premier, sull'onore delle istituzioni, sulla trasparenza della democrazia eccetera. E non può trattarsi di una omissione casuale. Senza fare paragoni incongrui, la controprova sta nel caso dello stupratore seriale che si è abbattuto nel dibattito precongressuale del Pd. Ignazio Marino l'ha trattato, impropriamente, come indice di una «questione morale» che riguarderebbe la selezione dei dirigenti del partito. Altri hanno avuto buon gioco nel rispondergli che strumentalizzava un caso doloroso a fini di lotta congressuale, tacendo sul merito. Altri ancora - esempio, Marco Follini nella conversazione domenicale con Marco Pannella trasmessa da Radio radicale - hanno fatto di peggio, equiparando come spesso capita questione morale e giustizialismo e archiviando la faccenda onde non apparire giustizialisti. Ora, fatta salva la presunzione di innocenza pu di fronte ai pesanti indizi di colpevolezza del caso, è evidente che il dibattito è completamente fuori fuoco. Lo stupro non è una questione morale, e prima di essere una questione penale è - di nuovo - un problema di civiltà, che riguarda la sessualità maschile, purtroppo non solo nelle sue espressioni perverse. E nel caso in questione, stando pur solo ai precedenti di Luca Bianchini, ai suoi dvd e ai suoi minuziosi diari, siamo di fronte - di nuovo - a una sessualità compulsiva, a una concezione quantitativa e accumulativa dei rapporti con le donne («Avere tanti rapporti con donne grandi e stare tranquillo senza impulsi» è quello che Bianchini si propone), a una bizzarra associazione fra «fare» sesso e «fare» politica, come fossero due carriere parallele e reciproche. Può darsi che il Pd non abbia e non voglia avere gli strumenti di valutazione e filtro dei vecchi partiti sui suoi quadri, e che non possa e non voglia indagare sulla loro fedina penale. Ma da qui a non avere nulla da dichiarare ce ne corre. E a proposito delle assurdità del suo statuto, provate a leggervi con questo silenzio nelle orecchie l'articolo 3.

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martedì 14 luglio 2009

La solitudine delle famiglie italiane

di Daniela Del Boca e Alessandro Rosina 10.07.2009 da "lavoce.info"
I dati confermano che nel nostro paese il peso dell'assistenza alla popolazione che invecchia ricade quasi del tutto sulla famiglia. O meglio, sulle donne e in particolare sulle figlie adulte. Che sempre più ricorrono ai servizi delle immigrate. Ora le nuove norme sull'immigrazione sono un'ulteriore conferma che lo Stato italiano è poco attento ai veri problemi delle famiglie. Non solo le abbandona sostanzialmente a se stesse Ma rende anche più difficile e complicato il ricorso alle risposte che, con difficoltà, tentano di darsi da sole. Per esempio, tramite le cosiddette "badanti".



Più che altrove le famiglie italiane sono sole: sono meno aiutate dalle politiche sociali, e quindi più sovraccariche di responsabilità nei confronti dei propri membri più deboli, e spesso sono anche maggiormente indotte a fare un passo indietro rispetto a importanti scelte di vita. È, del resto, un dato di fatto ampiamente riconosciuto che siamo uno dei paesi avanzati con sistema di welfare più obsoleto, meno in grado cioè di proteggere dai rischi e di promuovere scelte virtuose nella popolazione. Non a caso ci troviamo con occupazione giovanile tra le più basse e una delle peggiori combinazioni nell’area Ocse tra fecondità e partecipazione femminile al mercato del lavoro.

LAVORO FEMMINILE COME RISPOSTA ALL’INVECCHIAMENTO

La persistente denatalità dell’ultimo quarto di secolo ci ha fatti diventare uno dei paesi al mondo con maggior invecchiamento. Siamo però anche meno attrezzati a rispondere alle sfide che tale processo pone, proprio per la fragilità del nostro sistema di welfare e la bassa occupazione di giovani e donne. Svezia e Francia, ad esempio, hanno livelli di longevità simili ai nostri. Il cruciale rapporto tra anziani inattivi su occupati è però notevolmente peggiore nel nostro paese: uno su due, contro una media Unione Europea a 15 del 38 per cento. La causa è la nostra più bassa fecondità, che rende più pesante il numeratore, unita alla minor partecipazione femminile al mercato del lavoro, che rende meno corposo il denominatore.
Questo significa che le famiglie italiane, già tradizionalmente sole, si trovano con un crescente aumento della domanda di cura e assistenza dei propri membri anziani non autosufficienti. E che la spesa per protezione sociale, già ora molto squilibrata, è destinata a essere ancor più sbilanciata verso pensioni e sanità.
È ampiamente riconosciuto che una delle risposte principali all’invecchiamento della popolazione passa attraverso l’aumento dell’occupazione femminile, indispensabile per rendere più sostenibile il sistema delle finanze pubbliche da un lato, e più solido il benessere economico delle famiglie, dall’altro.
Ma proprio la combinazione tra accentuato invecchiamento e gravi carenze del sistema di welfare pubblico rischiano di comprimere la partecipazione femminile al mercato del lavoro. (1)

LE BADANTI COME RISPOSTA ALLE CARENZE DEL SISTEMA DI WELFARE

L’indagine Galca, Gender Analyses and Long Term Care Assistance, realizzata nell’ambito di un progetto promosso dalla Commissione europea e coordinato dalla Fondazione Giacomo Brodolini, ha confrontato Italia, Danimarca e Irlanda, analizzando costi, strutture e responsabilità familiari. Nei primi due paesi, più del 90 per cento degli anziani viene assistito a domicilio o in appartamenti attrezzati, mentre l’Irlanda registra una quota di assistiti in “istituti” – case di riposo o residenze sanitarie – superiore al 20 per cento. Quando l’assistenza è a domicilio, però, in Italia è quasi esclusivamente un familiare, prevalentemente donna, che si fa carico degli anziani, mentre in Danimarca è il servizio pubblico.
I dati confermano come nel nostro paese il peso dell’assistenza alla popolazione che invecchia ricada quasi per intero sulla famiglia, o meglio sulle donne, e in particolare sulla generazione delle figlie adulte. Queste ultime si avvalgono sempre più dei servizi delle immigrate. In Italia troviamo infatti il maggior numero di lavoratori stranieri impegnati in quelli che statisticamente vengono chiamati “servizi alle famiglie”: il 10,8 per cento del totale, contro l’1,2 per cento del Regno Unito e l’1,9 per cento degli Stati Uniti.
Secondo stime prudenti, le sole badanti (escluse le colf) sono complessivamente 700mila, delle quali almeno 300mila senza permesso di soggiorno. Va detto che larga parte degli stranieri che lavorano nel nostro paese, a causa dei vincoli della legge vigente, entra comunque in Italia in modo irregolare. La successiva regolarizzazione per chi trova un impiego presso una famiglia non è però né semplice e né scontata. Una condizione che rimane quindi problematica e instabile, a svantaggio di tutti. Molte famiglie si trovano da un lato con un problema apparentemente risolto, ovvero con una persona che svolge l’attività di cura necessaria, ma dall’altro con un nuovo problema, ovvero la lunga e complicata procedura per sanare la situazione di irregolarità della colf o badante attraverso la lotteria del decreto flussi che fissa quote limitate. Ora, il Ddl sicurezza rende le cose, se possibile, ancora più dolorose e complicate con la norma che punisce a titolo di reato l’ingresso e il soggiorno illegale degli stranieri.
A perderci sarà la parte più virtuosa dell’immigrazione, le famiglie italiane con maggior necessità di assistenza, ma anche il sistema paese nel suo complesso. Supponiamo infatti che i cittadini italiani decidano di osservare rigorosamente la nuova legge. In tal caso, crollerebbe il sistema di welfare informale e precipiterebbe ulteriormente l’occupazione femminile. Un disastro, tanto più in una fase di recessione come l’attuale.
Una delle tante conferme che lo Stato italiano è poco attento ai veri problemi delle famiglie: non solo le abbandona sostanzialmente a se stesse e tarda a mettere in campo quelle riforme strutturali al sistema di welfare che consentirebbero al paese di crescere di più e ai singoli di vivere meglio, ma rende anche più difficile e complicato il ricorso alle risposte che le famiglie tentano, con difficoltà, di darsi da sole.

(1)Per una analisi approfondita vedi Daniela del Boca e Alessandro Rosina Famiglie Sole Il Mulino 2009.


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lunedì 13 luglio 2009

La class action e i pelati Cirio

di Massimo Giannini, da Affari e Finanza di Repubblica on line

Bernard Madoff, condannato a 150 anni. Bernie Ebbers, detto Telecom Cowboy, ex ceo di WorldCom, condannato per frode, fine pena luglio 2028. Jeffrey Skilling, condannato per frode e insider trading nello scandalo Enron, fine pena febbraio 2028. John Rigas, ex fondatore di Adelphia Communication, condannato per frode, fine pena gennaio 2018. Conrad Black, ex boss dei media condannato per frode, fine pena ottobre 2013. Richard Scrushy, ex ceo della HealtSouth Corp, condannato per tangenti, fine pena giugno 2013. Eugene Plotkin, ex analista di Goldman Sachs, condannato per insider trading, fine pena febbraio 2012.


La lista potrebbe continuare. L'ha pubblicata qualche giorno fa il "Financial Times", e riguarda gli imprenditori, gli azionisti e i manager delle grandi aziende Usa processati per reati finanziari e condannati a pene durissime nel corso degli ultimi anni. Normale, nella culla del capitalismo selvaggio. Fantascienza, nella cuccia del familismo amorale.

L'ultima prova è la legge sulla class action, appena approvata dal Parlamento italiano. Dopo mesi di sabotaggi e di rinvii, alla fine è passato un testo che grida vendetta rispetto a quello previsto nelle lenzuolate di Bersani. La cosiddetta "azione collettiva", che potrà essere attivata presso la magistratura da una pluralità di utenti e consumatori per far valere i propri diritti danneggiati da una medesima impresa, scatterà dal gennaio 2010. Non è ancora chiaro quali saranno i diritti tutelabili. Potrà essere proposta solo in alcuni tribunali.

Ma soprattutto, e qui sta la vergogna, non sarà retroattiva. Cioè non potrà essere richiesta e applicata per i crack più disastrosi del recente passato, vale a dire Cirio e Parmalat. Uno scempio che ha fatto indignare non solo le associazioni dei consumatori, ma anche il presidente dell'Antitrust Catricalà, che ha giustamente puntato il dito contro questa "scelta politica", evidentemente finalizzata a salvare qualcuno o qualcosa. Solo una domanda, al ministro Tremonti: dopo questa class action all'acqua di rose tiene ancora quel barattolo di pomodori Cirio sulla scrivania?

(13 luglio 2009)

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domenica 12 luglio 2009

Chi rompe la tregua paga

di Barbara Spinelli, da: La Stampa

La tregua che è stata invocata nei giorni scorsi, per proteggere da aggressioni l’immagine dell’Italia durante il G8, introduce nella politica democratica un’esigenza di immobile quiete su cui vale la pena riflettere. Presa in prestito dal vocabolario guerresco, tregua significa sospensione delle operazioni belliche, concordata di volta in volta per stanchezza, timore del pericolo, subitanee emergenze. Fino alla rivoluzione francese, scrive Clausewitz, le guerre erano fatte soprattutto di pause: l’ozio assorbiva i nove decimi del tempo trascorso in armi.


Era «come se i lottatori stessero allacciati per ore senza fare alcun movimento». Le battaglie smettono quest’usanza quando si fa più possente il pensiero dello scopo per il quale si guerreggia, giacché solo tale pensiero può vincere la «pesantezza morale» del combattente. Ma la tregua non è solo «pesantezza, irresolutezza propria all’uomo». L’etimologia dice qualcos’altro: perché ci sia tregua efficace occorre che i lottatori siano leali, che la sospensione sia un patto, che non sia unilaterale. L’etimologia, germanica, rimanda all’inglese true-vero, e al tedesco treu-leale, fiducioso.

Verità, fiducia, lealtà, patto: sono gli ingredienti essenziali della tregua, specie quando dal teatro di guerra ci si sposta a quello di pace, e quando il concetto si applica alla selezione dei governanti migliori che avviene in democrazia. Un prorompente atto terrorista, una calamità naturale, possono comportare la sospensione della conflittualità propria alle democrazie.

Non per questo vengono sospese la ricerca di verità, la pubblicità data all’azione dei politici, il contrasto fra partiti, l’informazione indipendente. Altrimenti la tregua politica altro non è che continuazione della guerra con altri mezzi, e per essa vale quel che Samuel Johnson usava dire dei conflitti armati, nel 1758: «Fra le calamità della guerra andrebbe annoverata la diminuzione dell’amore della verità, ottenuta tramite le falsità che l’interesse detta e che la credulità incoraggia». Se sostituiamo la parola tregua a guerra, vediamo che i rischi sono gli stessi.

Quando ha chiesto una tregua, il 29 giugno, il presidente Napolitano non pensava certo a questo sacrificio della verità. Ma il rischio è grande che i governanti l’intendano in tal modo: usando il Colle, rompendo unilateralmente la tregua come ha subito fatto Berlusconi aggredendo oppositori e giornali. Il conflitto maggioranza-opposizione, le inchieste giornalistiche o della magistratura sul capo del governo, sono automaticamente bollate come poco patriottiche, fedifraghe, addirittura eversive. Questo in nome di uno stato di emergenza trasformato in condizione cronica anziché occasionale, necessitante la sospensione di quel che dalla Grecia antica distingue la democrazia: la parresia, il libero esprimersi, la contestazione del potere e dell’opinione dominante, il domandare dialogico.

Significativa è l’allergia del potente alle domande, non solo quelle di Repubblica ma ogni sorta di quesiti: netto è stato il rifiuto di Berlusconi di permettere domande ai giornalisti, il primo giorno del G8. Sulla scia dell’11 settembre 2001 Bush reclamò simile tregua, che non migliorò la reputazione dell’America ma la devastò. Washington si gettò in una guerra sbagliata, in Iraq, senza che opinione pubblica e giornali muovessero un dito. La recente storia Usa dimostra che la democrazia guadagna ben poco dalle tregue politiche, quando i governi possono tutto e l’equilibrio dei poteri è violato. Il vantaggio delle tregue è la coesione nazionale: falsa tuttavia, se passiva. Lo svantaggio è la libertà immolata. Tanto più grave lo svantaggio, se l’emergenza è un mero vertice internazionale.

Ripensare la tregua e le sue condizioni può servire, perché la tendenza è forte, in chi governa, a prolungare emergenze e sospensioni della parresia, rendendole permanenti. Purtroppo la tendenza finisce con l’estendersi all’opposizione, alla stampa, e anche qui vale la descrizione di Clausewitz sul cessate il fuoco: che spesso interviene non perché la tregua sia necessaria, ma perché nell’uomo che rinvia decisioni c’è pavidità. Perché dilaga «l’imperfezione delle conoscenze, delle facoltà di giudizio». Perché, soprattutto, opposizione e giornali non hanno un «chiaro pensiero dello scopo» per cui si oppongono, analizzano, interrogano. Sono le occasioni in cui la tregua non è un patto di verità ma una variante dell’illusionismo e della menzogna.

Ma c’è una condizione supplementare, affinché la tregua si fondi su verità e fiducia. La condizione è che la memoria resti viva, e non solo il ricordo del passato ma la memoria del presente, meno facile di quel che sembri perché essa presuppone un legame tra i frammenti dell’oggi e aborre la fissazione su uno solo di essi: l’ultimo della serie. È la memoria di cui parla Primo Levi, quando descrive la tregua nei campi. Nel Lager, simbolo della condizione umana, esistono remissioni, «tregue». Ma esse sono chimere se non s’accompagnano alla memoria di quel che ineluttabilmente avverrà al risveglio, quando risuonerà il «comando dell’alba»: l’urlo in polacco - wstawac - che intima di alzarsi.

Meditare attorno all’idea di tregua è fecondo perché aiuta a capire come deve organizzarsi, in Italia e altrove, la parresia greca che i latini traducevano con libertas. Parresia è letteralmente parlare con libertà: un compito che politici e stampa condividono col medico, che non deve dire tutto alla rinfusa ma andare all’essenza e fare sintesi. Galeno, medico del primo secolo dopo Cristo, scriveva che «non si può guarire senza sapere di cosa si deve guarire»: il malato ha diritto alla verità, detta «senza ostilità ma senza indulgenza». La tregua anche in Italia ha senso se non si sacrifica il vero. Se non è solo la stampa estera a indagare sulla nostra singolare apatia etica.

Il mondo dell’informazione non è estraneo a tale apatia, incomprensibile all’opinione straniera e da essa biasimata. Il difetto, il più delle volte, è lo sguardo corto: uno sguardo che non collega i fatti, che sempre si fissa sull’ultimissimo evento, che non scava con la memoria né nel passato né nel presente. L’influenza della mafia sulla politica, i cedimenti di quest’ultima, il conflitto d’interesse che consente al privato di manomettere il pubblico, l’impunità reclamata dai massimi capi politici, infine la lunga storia italiana di stragi e corruzioni su cui mai c’è stata chiarezza: c’è un nesso fra queste cose, ma l’ultimo scandalo da noi scaccia il precedente e ogni evento (buono o cattivo) cancella il resto.

Lo scandalo delle ragazze a Palazzo Grazioli cancella la corruzione di Mills, le minorenni di Berlusconi obnubilano la mafia, le dieci domande di Repubblica cancellano innumerevoli altri quesiti. Anche l’opposizione si nutre di amnesia: i successi di Prodi (aiuti allo sviluppo, clima, liberalizzazioni, infrastrutture, accordo vantaggioso per Alitalia) sprofondano nell’oblio, se ne ha vergogna. Non stupisce che perfino fatti secondari siano mal raccontati, come fossero schegge insensate: ad esempio l’assenza dal programma G8 di Carla Sarkozy, giunta all’Aquila il giorno dopo il vertice. I giornali arzigogolano su una persona che ha voluto far l’originale, differenziarsi. Nessuno rammenta l’appello di 13.000 donne italiane - presumibilmente ascoltato da Carla - perché le first ladies non venissero al G8.

L’Italia come tutti i paesi è una tela, non un’accozzaglia caotica di episodi. Se non ricordiamo questo quadro non solo le tregue saranno basate su contro-verità. Si faticherà anche a ricominciare i normali conflitti e il parlare franco, finita la tregua. Sotto gli occhi della stampa mondiale appariremo come i lottatori di Clausewitz: allacciati ininterrottamente l’uno all’altro, senza fare alcun movimento.

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