domenica 30 agosto 2009

La guerra lercia

di Conchita De Gregorio, da L'Unità on line

Un assaggio della guerra che ci aspetta in autunno. Non sporca, lercia. La battaglia finale di un uomo malato, barricato nel delirio senile di onnipotenza che sta trascinando al collasso della democrazia un paese incapace di reagire: un uomo che ha comprato col denaro, nei decenni, cose e persone, magistrati, politici e giornalisti, che ha visto fiorire la sua impunità e i suoi affari dispensando come oppio l'illusione di un benessere collettivo mai realizzato. Dall'estero guardano all'Italia come un esempio di declino della democrazia, una dittatura plutocratica costruita a colpi di leggi su misura e di cavalli eletti senatori. Vent'anni di incultura televisiva - l'unico pane per milioni - hanno preparato il terreno. Demolita la scuola, la ricerca, il sapere. Distrutte l'etica e le regole. Alimentata la paura. Aggrediti i deboli.


È una povera Italia, un piccolo paese quello che assiste impotente all'assalto finale alle voci del dissenso condotto da un manipolo di body guard del premier armate di ministeri, di aziende e di giornali. L'ultimo assunto ha avuto il mandato di distruggere la reputazione del "nemico". Scovare tra le carte gentilmente messe a disposizione dei servizi segreti, controllati dal premier medesimo, dossier personali che raccontino di figli illegittimi e di amanti, di relazioni omosessuali, come se fosse interessante per qualcuno sapere cosa accade nella vita di un imprenditore, di un direttore di giornale, di un libero cittadino. Come se non ci fosse differenza tra il ruolo di un uomo pubblico, presidente del Consiglio, un uomo che del suo "romanzo popolare" di buon padre di famiglia ha fatto bandiera elettorale gabbando milioni di italiani e chi, finito di svolgere il suo lavoro, va a letto con chi vuole - maggiorenne, sì - in vacanza con chi crede. La battaglia d'autunno sarà questa: indurre gli italiani a pensare che non c'è differenza tra il sultano e i suoi sudditi, tra il caudillo e i suoi oppositori. Non è così: la parte sana di questo paese lo sa benissimo.
Un anno fa arrivavo in questo giornale scrivendo che avrei voluto diventasse "il nostro posto". Non immaginavo sarebbe stata una trincea di montagna. Mentre cresceva, l'Unità è stata oggetto di una campagna denigratoria portata avanti dal presidente del Consiglio e dai suoi alleati, da giornali compiacenti non solo - purtroppo - nel centrodestra. Anziché difendersi e reagire compatto il fronte dell'opposizione si è diviso in guerre fratricide. Mentre si alimentano i veleni e le calunnie su di noi i nostri lettori sono cresciuti, negli ultimi mesi, del 25 per cento, caso unico nel panorama editoriale. I cittadini ci sono: leggono, capiscono. Mentre l'aggressione diventava personale (scritte intimidatorie sotto casa, telefonate notturne, le nostre vite sotto scorta) ci venivano offerte da emissari dei poteri opachi videocassette e carte contenenti "le prove" di gesta erotiche dei nostri aggressori. Materiale schifoso, alcove filmate all'insaputa dei protagonisti. Naturalmente le abbiamo respinte. Il sesso tra adulti, di chi non lo baratti con seggi e presidenze, non ci interessa. Questo è quello che ci aspetta, però. Sappiatelo. Una guerra lercia.

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Il cavaliere senza testa

di Valentino Parlato, da Il Manifesto on line

L'autunno non è ancora cominciato e lo stato della politica italiana è già un disastro, con sicuro danno per i cittadini italiani. Un disastro con alcuni paradossi: il primo che il manifesto stia dalla parte della gerarchia cattolica; il secondo che il Cavalier Silvio si sia convertito al culto della Chiesa Padana. Viene il dubbio che l'astinenza dalle escort, cui l'avrebbe obbligato la stampa di tutto il mondo, gli abbia dato alla testa. Capita.

Il punto è che dopo le critiche della Chiesa a Berlusconi, quest'ultimo aveva pensato a una riconciliazione con un pranzo con il cardinal Bertone, ma il cardinal Bertone ha mandato al diavolo il cavaliere dicendo che le spese del pranzo sarebbe stato meglio spenderle per opere di bene. Certo le cannonate sparate dal giornale di famiglia devono aver fatto traboccare il vaso. Vittorio Feltri direttore del Giornale e indomito combattente accusa Dino Boffo direttore de l'Avvenire di omosessualità (che in verità non sarebbe un reato) e di molestie alla moglie di un suo amico. Siamo indubbiamente nell'alta politica.
Nei 45 anni di vita repubblicana credo che mai fossimo arrivati a questo punto e non so bene come il Presidente Giorgio Napolitano riuscirà a metterci una pezza. Ma c'è più di una ragione per sperare che di qui al prossimo 2 giugno l'Italia sia guarita, o almeno convalescente, dal berlusconismo, che oggi la infetta con una diffusione incredibile. Anche Fini si rende conto che in questo modo non si può andare avanti. E poi, massimo del tragico ridicolo, la querela di Berlusconi alle 10 domande di Repubblica, per danni morali valutati in un milione di euro, cioè il valore effettivo del prestigio dell'attuale presidente del consiglio: chi non è pronto a fare una colletta anche di dieci milioni di euro purché si tolga dalle palle?
L'opposizione (salvo alcune forze o debolezze extraparlamentari) è convinta che la grande stagione, quando si parlava di socialismo e addirittura di comunismo, è tramontata per sempre. Non ci sono più grandi obiettivi: si agitano solo per vincere il congresso. Ma sarebbe ora che cominciassero a pensare di battere Berlusconi al più presto, già ai primi dell'autunno. È possibile, e certo più importante che vincere il congresso.
Ps. La tardiva dissociazione di Berlusconi dalle accuse omofobiche del Giornale con la dichiarazione che «la vita privata è uguale per tutti» è una chiara rivendicazione e, insieme, la conferma che non sa più dove mettere i piedi.

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sabato 29 agosto 2009

Roberto Saviano e l'appello dei tre giuristi Cordero, Rodotà e Zagrebelsky

Roberto Saviano: "In democrazia i governi danno risposte, non denunciano
"Con le domande si costruisce la libertà"

"Nessun cittadino, sia esso conservatore, liberale, progressista, può considerare ingiuste delle domande. In tutto il mondo democratico i governi sono chiamati a dare risposte: è la garanzia che non nascondono ciò che fanno e ne rendono conto all'opinione pubblica. Spero che tutti gli elettori, anche coloro che hanno votato Berlusconi, abbiano il desidero e la voglia di pretendere che nessuna domanda possa essere inevasa o peggio tacitata con un'azione giudiziaria. E' proprio attraverso le domande che si può arrivare a costruire una società in grado di dare risposte" Roberto Saviano
L'appello di Cordero, Rodotà e Zagrebelsky in difesa della libertà di stampa

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Dove sono le donne?

di Clelia Mori

Dove sono le donne? Si chiede Nadia Urbinati su L’Unità e Lidia Ravera il giorno dopo parla di “rivoluzione interrotta” delle donne.
Lo chiedono e lo affermano intervenendo sulla disastrosa situazione del pubblico della politica italiana deformata dal tutto privato, affari e sesso, del suo presidente del governo e sul silenzio quasi assoluto dell’opposizione, che scambia per moralistico, per non chiedersi altro, parlare di sessualità maschile e malattia e potere. Preferendo invece concentrarsi sul suo prossimo segretario piuttosto che cercare di essere anche un’alternativa di governo che sa mettere i piedi nel piatto dell’eros maschile e parlarne prima che distrugga del tutto il paese. Qualcun’ altr* ha anche invocato una presenza femminista ritenuta invisibile.


Condivido molte motivazioni di Urbinati e Ravera, ma non riesco a sentirmi in colpa perché non ho ancora pensato di andare in piazza come donna e non mi sembra neppure che la rivoluzione femminile sia così interrotta. Soprattutto quando i ragionamenti sulle donne le mettono indistintamente tutte insieme, in un unico fascio e non si fa un po’di cernita tra donne parlamentari di centro sinistra e centrodestra e le femministe e le donne che hanno cercato un posto al sole nel mondo degli uomini –portandovi dentro così piano la loro differenza, che i politici non si sono sentiti assolutamente parzializzati- e quelle che vivono una vita qualunque come ognuna di noi e le veline e le loro famiglie… Sembriamo improvvisamente diventati un paese di tutte veline o tutte escort a qualsiasi età. Notare che abito in Emilia, ma non conosco neppure una velina, nonostante ce ne siano così tante a leggere la stampa e a guardare la TV…
Ma lo sconforto è tale che ragioniamo quasi come vogliono farci ragionare, guardiamo il dito e non la luna. E così passa che siamo tutti* uguali, un potere vale l’altro anche se è patriarcale. Rassicurando in un colpo solo maschilisti di governo e di parrocchia e anche quegli uomini dell’opposizione che “non amano” le loro donne…

Mi rendo conto che invocare le femministe contiene anche la denuncia di un bisogno di parola che si ritiene servirebbe, così come ci è servita in tutti questi anni per andare tranquille per il mondo senza troppo pensare. Tanto c’erano loro che continuavano a farlo e noi potevamo badare alle nostre cose. Ma ho la sensazione che cogliamo anche l’occasione per pareggiare il conto con queste sessantottine che dicono di non aver mai mollato e poi quando è ora non si vedono. O forse non si vogliono ben vedere. Rimane comunque utile qualcuno da invocare che al momento del bisogno non c’è a toglierci le castagne dal fuoco, magari criticandole. Mi sembra un poco da capro espiatorio la faccenda. Anche se io le trovo le parole delle femministe, quando voglio, ma i giornali fanno più fatica e non riesco a capire perché, se ci riesco io.
Comunque, pur camminando sul crinale tra femminismo e femminile e politica, in piazza ci tornerei anche, ma non riesco bene a capire per far cosa. L’ultima volta che ci sono andata, era nel 2007 contro la violenza maschile alle donne. Subito dopo è stato tutto un attacco, persino delle giornaliste donne più accreditate, alle organizzatrici del corteo e sul loro nostro concetto di democrazia perché le politiche volevano approfittarsi del successo della manifestazione e le organizzatrici non l’hanno permesso…Non è servito a nulla allora, perché i nostri politici hanno letto solo la querelle e di donne ne muore ancora una ogni tre giorni, a cosa servirebbe ora con questa opposizione? Non sarebbe meglio chiarire bene e invece che prendersela con tutte, chiedere alle politiche del centro sinistra conto del loro quasi silenzio, stando nei luoghi di potere?

E poi, credo si sia sottovalutata la questione che sono state le donne - rappresentando tutto l’immaginario femminile del maschile con in ordine : una moglie, una escort, una figlia - a far esplodere quello che gli uomini della politica tutta e della religione non riuscivano o volevano far emergere e non credo che se la rivoluzione femminile - quella più riuscita del ’68 - fosse davvero interrotta, come dice Lidia Ravera, oggi soprattutto questo tipo di donne, che Nadia Urbinati chiama private, sarebbero riuscite a far emergere tanta “malattia” individuale e di potere, soprattutto maschile.
Basta ascoltare il silenzio, che non è di tutte, degli uomini all’opposizione -gli strepiti difensivi del centrodestra sono da copione e dicono solo del desiderio di potere a tutti i costi- per capire chi è che ha un problema di gestione della propria sessualità, così ben evidenziata dal capo del governo e della nostra democrazia.“Malato”, l’ha definito la moglie e nonostante sia stato dimostrato quanto sia vero, da registrazioni varie, quasi nessuno ci torna su. Perché?
Perché non chiediamo conto come donne, invece che alle donne e alle femministe, agli uomini come suggeriva Chiara Saraceno?
A quasi tutti gli uomini, perché in giro alcuni ci sono che ripensano la loro differenza, ma come le femministe, non vengono interpellati dai midia. Si preferisce percorrere la strada che vuole il centro destra e perpetrare una mai risolta questione sessuale del maschile.
Ma non la possiamo percorrere anche noi donne, soprattutto incolpandoci di non andare in piazza e sentendoci tutte veline e magari non chiedendo a chi è direttamente coinvolto: gli uomini di segnare la propria differenza dal premier e da questa idea fallimentare di maschio.

Non è un problema nostro questo degrado democratico in cui viviamo.
Noi viviamo gli effetti collaterali di un maschilismo irrisolto che deve portare gli uomini non malati ad andare loro e per primi in piazza a prendere le distanze dal loro nostro capo del governo, massimo rappresentante pubblico del loro sesso.
Sono loro che dovrebbero indicare ai loro figli l’esempio della loro differenza da questo uomo, per fare in modo che in nessuna maniera possano essere influenzati da un tale inutile modello .
Chiediamo quindi, e io lo faccio nel mio piccolo, a tutti quelli che pensano di non assomigliare a S.B. di dircelo pubblicamente.
Solo allora avrà un senso per me tornare in piazza, magari al loro fianco, per ridefinire uno spazio pubblico che ci appartiene: la democrazia.
O no?

Clelia Mori

19.8.09

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domenica 23 agosto 2009

Quei morti che gridano dal fondo del mare

di Eugenio Scalfari, da Repubblica on line

È SINGOLARE (non trovo altro aggettivo) il comportamento della stampa nazionale sulla strage dei 73 migranti uccisi dal mare tra Malta e Lampedusa.
Il primo giorno, con notizie ancora incerte, tutti hanno aperto su quell'avvenimento: il numero delle vittime, la storia raccontata dai cinque sopravvissuti, i dubbi del ministro Maroni sulla loro attendibilità, le responsabilità della Marina maltese, i primi commenti ispirati al "chissenefrega" di Bossi e di Calderoli.

Ma dal secondo giorno in poi i nostri giornali hanno voltato la testa dall'altra parte. Le notizie nel frattempo sopraggiunte sono state date nelle pagine interne. Uno solo, il "Corriere della Sera", ha tenuto ancora quella strage in testata di prima pagina ma senza alcun commento. Il notiziario all'interno tende a riposizionare i fatti entro lo schema della responsabilità maltese. Il resto è silenzio o quasi. Fa eccezione "Repubblica" ma il nostro, com'è noto, è un giornale sovversivo e deviazionista e quindi non può far testo.

Comincio da qui e non sembri una stravaganza. Comincio da qui perché la timidezza, la prudenza, il dire e non dire dei grandi giornali nazionali sono lo specchio d'una profonda indifferenza dello spirito pubblico, ormai ripiegato sul tirare a campare del giorno per giorno, senza memoria del passato né prospettiva di futuro, rintronato da televisioni che sfornano a getto continuo trasmissioni insensate e da giornali che debbono ogni giorno farsi perdonare peccati di coraggio talmente veniali che qualunque confessore li manderebbe assolti senza neppure imporre un "Pater noster" come penalità minimale.

Perfino il durissimo attacco della Chiesa e della stampa diocesana, che su altri temi avrebbe avuto ampia risonanza, è stato registrato per dovere d'ufficio. Bossi, che ha orecchie attentissime a queste questioni, si è addirittura permesso di mandare il Vaticano a quel paese, definendo insensate le parole dei vescovi sulla strage del mare e invitando il papa a prendere gli immigrati in casa sua perché "noi qui non li vogliamo".
Alla vergogna c'è un limite. Noi l'abbiamo varcato da un pezzo nella generale apatia e afasia.

* * *

Ci sono varie responsabilità in quanto è accaduto nel barcone dei 78 eritrei, per venti giorni alla deriva in uno specchio di mare popolatissimo di motovedette, aerei, elicotteri, pescherecci delle più diverse nazionalità, italiani, maltesi, ciprioti, egiziani, tunisini e libici. Responsabilità specifiche e responsabilità più generali.

La prima responsabilità specifica riguarda il mancato avvistamento da parte della nostra Marina e della nostra Aviazione. Venti giorni, un barcone di quindici metri con 78 persone a bordo, sballottato dai venti tra Malta e Lampedusa, un braccio di mare poco più ampio di quello percorso da una normale regata di vela.
I ministri Maroni e La Russa dovrebbero fornire al Parlamento e alla pubblica opinione l'elenco dei voli e dei pattugliamenti da noi effettuati in quello spazio e in quei giorni. Il ministro dell'Interno finora si è limitato a chiedere un rapporto sull'accaduto al prefetto di Agrigento.

Che c'entra il prefetto di Agrigento? Il responsabile politico dei respingimenti in mare è il ministro dell'Interno che si vale della guardia costiera, delle capitanerie di porto e delle forze armate messe a disposizione dalla Difesa. Maroni e La Russa debbono rispondere, non il prefetto di Agrigento.

La seconda responsabilità specifica riguarda il pattugliamento italo-libico sulle coste della Libia. Sbandierato ai quattro venti come un grande successo diplomatico, viaggi del premier in Libia, abbracci e baci sulle guance tra Berlusconi e Gheddafi, promesse di denaro sonante e investimenti al dittatore-colonnello, viaggio del medesimo con relativa tenda a Villa Pamphili, scortesie a ripetizione, sempre del medesimo, nei confronti di quasi tutte le autorità istituzionali italiane; secondo viaggio del colonnello e seconda tenda al G8 dell'Aquila, dichiarazioni del ministro degli Esteri, Frattini, per sottolineare l'importanza dell'asse politico Roma-Tripoli.

Risultati zero. Riforma dei centri di accoglienza libici sotto controllo italiano, zero. Quei centri sono un inferno dove i migranti provenienti dall'Africa sahariana e dal Corno d'Africa sono ridotti per mesi in schiavitù e sottoposti alle più infami vessazioni fino a quando alcuni di loro vengono affidati ai mercanti del trasporto e imbarcati per il loro destino. Le vittime in fondo a quel tratto di Mediterraneo non si contano più.

In quei centri, tra l'altro, le autorità italiane dovrebbero individuare quegli immigranti che hanno titolo per essere trattati come rifugiati politici. Queste verifiche non sono avvenute. I migranti eritrei in particolare dovrebbero poter godere di uno "status" particolare come ex colonia italiana, ma nessuno se ne è occupato (e meno che mai, ovviamente, il prefetto di Agrigento).

In compenso le motovedette italiane dal primo giugno ad oggi hanno intercettato un elevato numero di barconi e li hanno respinti nel girone infernale dei centri di accoglienza libici, il che significa che le partenze dalla coste cirenaiche continuano ad avvenire in barba a tutti gli accordi.
Questo stato di cose è intollerabile. Frutto di una legge perversa e d'un reato di clandestinità che ha addirittura ispirato un gioco di società inventato dal figlio di Bossi e brevettato con il titolo "Rimbalza il clandestino".
Mancano le parole per definire queste infamità.

* * *

Ma esistono altresì responsabilità generali, al di là del caso specifico. Le ha elencate con estrema chiarezza il proprietario di un peschereccio di Mazara del Vallo da noi intervistato ieri.
Perché i pescherecci che avvistano barche di migranti in difficoltà non intervengono? Risposta: se sono in difficoltà superabili, intervengono, forniscono viveri acqua e coperte, indicano la rotta. Se sono in difficoltà gravi, li segnalano alle autorità italiane.
Segnalano sempre? Risposta: non sempre.
Perché non sempre? Risposta: se imbarchiamo i migranti sui nostri pescherecci rischiamo di perdere giorni e settimane di lavoro. Noi siamo in mare per pescare. Con gli immigrati a bordo il lavoro è impossibile.

Non siete risarciti dallo Stato? Risposta: no, per il mancato nostro lavoro non siamo risarciti.
Ci sono altre ragioni che vi scoraggiano? Risposta: chi prende a bordo clandestini e li porta a terra rischia di essere processato per favoreggiamento al reato di clandestinità. Temono di esserlo, perciò molti chiudono gli occhi e evitano di immischiarsi.

Se li portate a Malta che succede? Risposta: peggio ancora, ci sequestrano la barca per mesi e ci tolgono l'autorizzazione a pescare nelle loro acque.
Questi sono i risultati di una legge sciagurata, salutata non solo dalla Lega ma dall'intero centrodestra come un successo, una guerra vittoriosa contro le invasioni barbariche.

Questa legge dovrebbe essere abrogata perché indegna di un paese civile. Nel frattempo gli immigrati entrano a frotte dai valichi dell'Est. Non arrivano per mare ma in pullman, in automobile, in aereo, in ferrovia e anche a piedi. Alimentano il lavoro regolare e quello nero in tutta la Padania e non soltanto.
I famigerati rom e i famigerati romeni vengono via terra e non via mare. La vostra legge non solo è indecente ma è contemporaneamente un colabrodo.

* * *

Alcuni si domandano i motivi del silenzio di Berlusconi su questo delicatissimo tema. La ragione è chiara e l'ha fornita l'onorevole Verdini, uno dei tre coordinatori del Pdl insieme a La Russa e Bondi e quello che meglio di tutti conosce la natura del capo del governo essendo stato con lui e con Dell'Utri uno dei tre fondatori di Forza Italia nell'ormai lontano 1994.

Di che cosa vi stupite, ha scritto Verdini in una sua lettera al "Corriere della Sera" di pochi giorni fa ribattendo alcune domande di Sergio Romano nel suo fondo domenicale. Di che cosa vi stupite? Silvio Berlusconi, con almeno una parte di sé, è un leghista né più né meno di Bossi e quando nel '93 decise di impegnarsi in politica pensò, prima di decidersi a fondare un nuovo partito, di guidare con Bossi la Lega. Poi scelse di fondare un partito nazionale del quale il nordismo leghista sarebbe stato il pilastro più rilevante.

Così Verdini, il quale in quella lettera rivendica il merito d'aver convinto il premier all'opportunità di dar vita a Forza Italia.
Non si poteva dir meglio. C'è da aggiungere che il peso della Lega è ultimamente aumentato in proporzione diretta alla minor forza politica del premier. La Lega ha oggi una forza di ricatto politico che prima non aveva e la sta esercitando in tutte le direzioni non senza alcuni contraccolpi sulle strutture e sulle alleanze all'interno del Pdl.

Uno dei temi di dibattito di queste ultime settimane è stato il collante che spiega nonostante tutto la persistenza del potere berlusconiano e la sua eventuale capacità di sopravvivere ad un possibile ritiro di Berlusconi dalla gestione diretta di quel potere. Tra le varie spiegazioni è mancata quella a mio avviso decisiva. Il collante del berlusconismo consiste nell'appello continuamente ripetuto e aggiornato agli istinti più scadenti che rappresentano una delle costanti della nostra storia di nazione senza Stato e di Stato senza nazione.

Una classe dirigente dovrebbe rappresentare ed evocare gli istinti più nobili di un popolo, educandolo con l'esempio, spronandolo ad una visione alta del bene comune. Un compito difficile che alcune figure della nostra storia esercitarono con passione, tenacia e abilità politica.
È più facile evocare gli "spiriti animali" e questo è avvenuto frequentemente nelle vicende del nostro paese a cominciare dal "O Franza o Spagna purché se magna" e alle sue più recenti e non meno abiette manifestazioni.

Giorni fa, rispondendo nel suo giornale alla lettera di un giovane leghista a disagio ma privo di alternative alla sua visione nordista, Galli Della Loggia spiegava al suo interlocutore quale fosse l'errore in cui era incappato: una falsa prospettiva storica, un falso revisionismo che ha messo in circolazione una falsa e deteriore immagine del nostro Risorgimento.
Ho riletto un paio di volte l'articolo di Della Loggia perché non credevo ai miei occhi. Il revisionismo da lui lamentato come deformazione della nostra storia unitaria è nato negli ultimi quindici anni proprio sulle pagine del suo giornale e lo stesso Della Loggia ne è stato uno dei più autorevoli esponenti.

Meglio tardi che mai. Purtroppo di vitelli grassi da sacrificare per il ritorno del figliol prodigo oggi c'è grande scarsità. Il solo vitello grasso in circolazione è lo scudo fiscale preparato da Tremonti, che però non riguarda la questione dell'Unità d'Italia e del revisionismo politico. Festeggia soltanto gli evasori fiscali. Anche questa è una (pessima) costante nella storia di questo paese.

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Il festino democratico

di Norma Rangeri, da Il Manifesto on line

Lino Paganelli, militante cinquantenne di Lamporecchio Valdinievole, con una battuta sui festini del premier rischia di dare una linea politica antiberlusconiana alla festa nazionale del Pd, altrimenti destinata a risolversi in palcoscenico della battaglia congressuale tra i candidati alla segreteria. Per aver sinteticamente spiegato perché Silvio Berlusconi non è stato invitato alla kermesse di Genova («questa è una festa non un festino»), l'organizzatore piddino ha scatenato la sdegnata protesta dei maggiorenti del Pdl e il ritiro della partecipazione di alcuni ministri dai dibattiti genovesi. Così la ministra Carfagna, come anche i colleghi Matteoli, Frattini e Meloni, non illustrerà le sue idee sulla sicurezza (tema della tavola rotonda che la vedeva protagonista) alla platea dei democratici. Che la sua presenza alla festa fosse un bene per le sorti della democrazia italiana sarebbe stato, questo sì, tutto da discutere.

Ma tant'è. Nonostante i festini del capo del governo siano, purtroppo, un fatto da mesi sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo (finiti in prima serata anche nello show satirico di Bbc2), la parolaccia in Italia non va pronunciata nel confronto politico tra maggioranza e opposizione. Naturalmente dire che non si invita il presidente del consiglio a una festa perché è un signore che organizza festini con le escort, non è un complimento. Ma reagire sdegnosamente, fino a cancellare la presenza dei ministri dal cartellone dei dibattiti, è un utile boomerang che trasforma una battuta in questione politica.
L'episodio, semplicemente inimmaginabile nel contesto politico di qualunque altro paese, in realtà dimostra come le conseguenze della spazzatura berlusconiana si frappongano ormai in modo insopprimibile, e persino incontrollabile, nella dialettica politica italiana. Con un rovesciamento della realtà, le vibranti dichiarazioni della maggioranza di centrodestra accusano l'opposizione di volgarità, di maleducazione, di mancanza di rispetto delle istituzioni, quando, viceversa, lo stato della politica italiana è ridotto, proprio dal capo del governo, all'indecoroso spettacolo del potere del boudoir.
E, d'altra parte, l'episodio ci racconta di un partito democratico che sul tema cruciale del sultanato non aveva alcuna intenzione di disturbare le riflessioni e gli incontri organizzati nel raduno della sua festa nazionale. Immigrazione, lavoro, salute, criminalità economia, giustizia di tutto si discuterà nell'affollata agenda, ma non di sesso e potere, non di donne e nuova politica, argomenti che avrebbero rischiato di trovare il silenzio imbarazzante di una sinistra afona. Né può confortare il diplomatico palleggio («fatevi una risata e venite a discutere») della giovane Serracchiani, idolo del rinnovamento. Se lo poteva risparmiare: c'è poco da ridere. Tutto sommato, le parole del chirurgo Marino («se non vengono ce ne freghiamo»), schiacciano la palla e chiudono il tormentone con un colpo secco.


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domenica 16 agosto 2009

Intervista a Simona Argentieri: "L'assuefazione ci ha spente ma i diritti non sono ereditari"

di Elisabetta Abrosi, da L'Unità on line

Il silenzio delle donne? Colpisce e ferisce. Ma ad essere silenti non sono solo le donne: anche i giovani, e in generale tutta la società civile. Per questo, per capire perché le donne non si indignano bisogna capire perché noi tutti non ci indigniamo più».

Simona Argentieri, psicoanalista, docente dell’Associazione italiana di psicoanalisi e attenta osservatrice delle patologie a cavallo tra individuo e società, interviene nel dibattito aperto da Nadia Urbinati e continuato da Lidia Ravera, ma ripete che il vero problema è il generale spegnersi del dissenso, sia sul piano privato che su quello sociale e politico.


«Il fatto è che la protesta costa, come il tentativo di restare coerenti con le proprie idee. Protestare significa inoltre configgere, mentre oggi non sopportiamo più né la sofferenza né il conflitto. Così, le passioni forti si attenuano, e quindi anche i più beceri fatti di cronaca non ci fanno indignare».

Come si è persa la capacità di indignazione?
«Il dissenso non è scomparso dalla mente delle persone. Purtroppo, si è esaurita la spinta propulsiva al cambiamento, perché le persone hanno perso fiducia nel fatto che il loro agire possa produrre un mutamento. Ma il cambiamento può venire unicamente da noi. E l’assuefazione a cose sempre più degradate non può costituire un alibi».

Come si manifesta concretamente questa assuefazione?
«In un disinteresse verso ciò che accade, in un deficit di partecipazione, infine in un’incoerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa. Ad esempio, si firmano appelli, o si va a votare, senza prendere nessuna informazione su ciò che si sta firmando o votando. Oppure, non si vota proprio, come è avvenuto per molte giovani donne nel caso del referendum sulla fecondazione. Purtroppo i diritti conquistati sono ereditati ma non ereditari, cioè li puoi perdere come li hai acquisiti».

Si tratta di un problema solo italiano?
«No, ma in Italia è più forte perché maggiore è da noi l’abitudine al degrado. Abbiamo superato, sul piano pubblico, ogni limite di decenza, eppure nulla desta più scandalo. Nemmeno la violazione dell’immagine della donna e del suo corpo, nell’acquiescenza generale».

Quali sono, sul piano individuale, i sintomi di questa male?
«Si tratta di una vera e propria regressione nell’ambiguità, nell’apatia affettiva, nell’inerzia e nella promiscuità. Magari si ostenta il proprio scontento, ma non ci si sottrae a tutte quelle collusioni che mantengono in piedi il sistema: egoismi, narcisismi, complicità marginali col potere, clientelismo, omissioni, indifferenza».

Che spiegazione dà di questi atteggiamenti?
«Nascono dal tentativo di evitare il conflitto, il rapporto con le cose che non ci piacciono o con le persone che ci contestano, e di eludere sia la fatica della differenziazione e della chiarificazione della propria identità, sia quella della coerenza con ciò che si è. Ciò ha conseguenze molto negative anche nei rapporti tra uomo e donna, le cui differenze si attenuano, ma non in direzione della parità. Il tentativo di evitare il confronto con la differenza produce un eccesso di tenerezza morbosa, a scapito della passione, e una regressione nell’ambiguità. Che è tutt’altra cosa dall’ambivalenza, quel sentimento che ci consente di essere consapevoli di poter provare amore e insieme odio verso una stessa persona».

Come intervenire, allora?
«L’unico argomento che ho, come terapeuta, quando denuncio i meccanismi dell’ambiguità è che si tratta di un cattivo affare. Certo, si evita la fatica e il dolore della coerenza, ma si resta rabbiosi e annoiati. Purtroppo, però, a noi analisti oggi viene solo chiesto solo di lenire, consolare, se non addirittura psicologizzare il disagio sociale. Ad esempio, facendo fare una psicoterapia ad una persona licenziata, perché accetti questa situazione, mentre dovrebbe solo scendere in piazza a gridare la sua giusta rabbia e mettere in atto forme dure e coraggiose di protesta».


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giovedì 13 agosto 2009

La rivoluzione interrotta delle donne

di Lidia Ravera, da L'Unità on line

Ho provato una vera gioia, leggendo la «conversazione» con Nadia Urbinati, ieri, su questo giornale. Quando dice: «c’è, da parte delle persone attorno a noi, una specie di accettazione. Il senso dell’inutilità collettiva». Ho pensato: ha messo, come si dice, “il dito nella piaga”. E mai frase idiomatica fu più opportuna. Qui si parla proprio di piaghe: indicarle è necessario, anche se sarebbe più elegante voltarsi dall’altra parte. Toccarle fa male. Ma attraverso il dolore, passa l’unica speranza di guarigione.

Dunque diciamolo: è morta la dimensione collettiva. Il “noi” che rafforzava i tanti “io” di cui era composto, latita. Era onnipresente, la prima persona plurale. Ora è scomparsa. Non è mai stata facile da declinare: includere l’Ego degli altri, sistemarlo accanto al proprio, non è mai naturale, tocca smussare angoli, reprimere individualismi, concedere generalizzazioni, perdere qualcosa di sè. Però si può fare, anzi: si deve.

Soltanto una massa di “io” ordinati in un “noi”, che li sovrasta e li protegge e li rappresenta, nel corso della storia, ha saputo abolire lo schiavismo, difendere il lavoro, conquistare diritti uguali per tutti, combattere il fascismo. L’individuo, da solo, può regalare all’umanità soltanto il godimento dell’arte. È necessaria, l’arte, ma non è sufficiente. Non oggi e non qui, in Italia.

Ha ragione la Urbinati quando dice: «Quel che fa questo governo non è ridicolo...è tragico». È tragico usare la paura e la fragilità psichica dei cittadini, aggravate entrambe dalla crisi economica, per disegnare una società che esclude e divide, che radicalizza le differenze e governa col ricatto milioni di solitudini. Poco più di metà degli italiani ha votato qualche anno di fiducia all’attuale Premier e alla sua “weltanschaung”. Poco meno di metà degli italiani ha cercato, votando il centrosinistra, di segnalare il proprio “no”.

Si tratta di milioni di donne e di uomini, dispersi e quindi condannati alla dimensione privata del dissenso: il lamento. Per le donne è una sorta di revival: ve la ricordate la rivolta “da camera” delle nostre madri? Erano donne che avevano vissuto la giovinezza a cavallo della seconda guerra mondiale e che, nell’Italia in rapido sviluppo degli anni sessanta, impigliate nel codice antico dell’esistenza vicaria, stavano maturando un disagio crescente per i ristretti ambiti delle loro vite. Che cosa facevano, mentre le loro figlie scendevano in piazza bruciando le icone della femminilità tradizionale? Si lamentavano. Opponevano un fiero cattivo umore ad un destino che vivevano come immutabile. Era il canto della loro sconfitta, il lamento.

Ci dava ai nervi. Giurammo che noi no, noi non ci saremmo sacrificate. Giurammo che avremmo imposto nuove regole, saremmo state parte attiva, a letto, al lavoro, in casa, in piazza. Lì per lì ci illudemmo di aver vinto. Non era così. La rivoluzione delle donne non è stata né vinta né persa. È stata interrotta.

Interrompere una rivoluzione è pericoloso: non riesci a imporre nuove valori, a radicarli, a estenderli a tutti, come quando vinci. Non vieni travolto dalla restaurazione del vecchio, come quando perdi. Quando lasci una rivoluzione a metà la restaurazione è lenta e strisciante. Incominciano a bombardarti con l’icona della “ragazza tette grandi/ cervello piccolo”, non ci fai caso. Occupa i teleschermi (anche quelli del servizio pubblico) per vent’anni. Spegni la televisione. Diventa protagonista della scena pubblica, corpo in vendita, carriera, oggetto di scambio, trastullo stipendiato di un modello di maschio potente/impotente che era già vecchio quando eri ancora giovane. Ti scansi, spegni l’audio, non vuoi sentire.

Finché ti accorgi che, nel silenzio/assenso generale, si è tornati indietro. Come prima e peggio di prima. Devi di nuovo essere complemento, protesi, utensile del piacere. Madre se proprio ti va, come lato B della carriera. A tua figlia regalerai “Miss Bimbo”, il gioco elettronico che insegna a diventare Velina, Escort o moglie di miliardario. Sei di nuovo povera.

Possiedi, come anticamente i proletari, soltanto il tuo corpo e quello devi far fruttare. E sbrigati: hai meno di 20 anni di tempo. Qualcuno dice che qualche ragazza ha trovato, per lo più all’estero, riconoscimento ai suoi talenti. Qualcun altro rimprovera “le femministe”, queste ormai mansuete streghe in prepensionamento, di tacere. Ma non è vero.

Tutte noi, noi poche, abbiamo, in questi anni, parlato. Sole davanti allo schermo dei nostri computer, come si usa oggi. Abbiamo confezionato tristi arringhe, abbiamo segnalato, puntuali come Cassandre, rischi e degenerazioni. Non è successo niente. Le parole delle donne non pesano un grammo. Per questo bisogna ricominciare daccapo. Portare i nostri corpi in piazza, occupare spazio, farci vedere, farci sentire. Contarci, per ricominciare a contare.
13 agosto 2009

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«Ribelliamoci come in Iran e in Birmania»

Conversando con Nadia Urbinati, di Concita De Gregorio da L'Unità on line


Tutto avviene nel silenzio. C’è un’idea diffusa di impotenza, di rassegnazione. Alla politica si è sostituito il potere. La gestione delle cose, gli affari privati. Tutto è ormai una faccenda privata: di scambi, di soldi, di favori. Dove sono i cittadini, in questo paese? Dove sono le donne? In tutto il mondo le donne sono in piazza. Alla sbarra a Teheran, massacrate in Iran, prigioniere in Birmania. Volti femminili che diventano icone della protesta. Qui, in questa nostra democrazia in declino, di donne si parla per dire delle escort, delle ragazzine che dal bagno attiguo alla camera da letto del tiranno telefonano a casa alla madre per raccontare, contente, “mamma sapessi dove sono” e rallegrarsi insieme. E fuori, e le altre? Silenzio. L’apatia ci accompagna…».

Il tempo del silenzio, ripete Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia university. «Avrei voluto far qualcosa, in questi mesi estivi che passo in Italia, ma mi si dice che si deve aspettare l’autunno. Non capisco come mai. Non vedo che altro ci sia da aspettare. Le vittorie di Berlusconi appaiono ormai la conseguenza e non la causa dell’indebolimento della presenza attiva dei cittadini nella vita pubblica. Non c’è nulla da fare, sento dire. C’è, da parte delle persone attorno a noi, una specie di accettazione. Il senso dell’inutilità dell’agire collettivo. Non serve, si dice. Non produce effetti. Solo la pubblicità produce effetti». «Ci hanno ingannati, in questi anni, illudendoci che si potesse partecipare stando a casa: davanti allo schermo di una tv, in un blog al computer. Soli davanti al video. È nato un pubblico che si cela al pubblico. Impotente, rassegnato. Si è fatta strada un’idea maggioritarista: quella che dice che chi vince ha ragione per definizione, in quanto vincitore. Poiché vince non può aver torto. La verità sta con la maggioranza. È un’idea che non prevede il dissenso.

Il dissenso infastidisce, non se ne comprende il valore né l’utilità, non si tollera. La voce dell’opposizione è una voce che disturba. Berlusconi esprime un’idea egemonica che gli sopravviverà. L’opposizione d’altra parte non fa che riconoscere la forza dell’avversario (ho sentito giovani del Pd ammirare la Lega per il radicamento sul territorio ignorando i contenuti di quel radicamento). L’opposizione è assente. Manca un partito capace di parlare con voce forte e chiara. Negli ultimi tre mesi l’Unità e la Repubblica hanno avuto la capacità di far infuriare il tiranno, l’opposizione no. Persa nella sua battaglia interna, persa nell’incapacità di parlare con le parole della politica. Un vuoto che apre la strada ad un nuovo populismo giustizialista. Ho sentito Prodi dire: Berlusconi è il vuoto. Putroppo no, non è vuoto, è pieno di linguaggio e di azione. È l’opposizione a non avere linguaggio ed azione da opporre, manca un partito che incalzi. Quel che fa questo governo non è ridicolo, non è schifoso come ho sentito dire dai leader negli ultimi giorni. È tragico. Le gabbie salariali sono la rottura di un patto di solidarietà e giustizia tra i cittadini, un piede di porco capace di smembrare il paese. Le ronde sono un pericolo gravissimo, oltre ad essere un modo subdolo per distribuire finanziamenti pubblici. Sull’unità d’Italia? Nulla. Se non ci fosse l’Europa a contenerci saremmo sull’orlo della guerra civile».

«Siamo orfani di politica. Il potere ha preso il suo posto: chi lo detiene lo usa attraverso mezzi privati, conti in banca, soldi, scambi di favori. Berlusconi durerà. Tutto questo non finirà con lui. Questo governo non è Berlusconi, è la visione organica della società che lui rappresenta. Abbiamo imparato a giustificare sempre tutto. Ci sarebbe bisogno di avere una visione morale della politica, invece. Non c’è. Non abbiamo una cultura della responsabilità morale: anche se non penalmente perseguibili certi atteggiamenti sono moralmente turpi. Bisogna dirlo, ripeterlo, cercare ascolto, pretendere risposta.

È stata una trasformazione molecolare. Dopo anni di partecipazione si è spenta nella mente del cittadini la dimensione pubblica. La democrazia si è fatta docile e apatica. Vista dall’estero l’Italia non ha più nulla da dire, resta solo un esempio interessante da studiare sul declino della democrazia. Penso alle donne, poi. Neda, San Suu Kyi, le donne nel mondo. In Italia a parte qualche importante figura femminile isolata, niente. Sulle prostitute e le minorenni di cui si circonda il Presidente le parlamentari del Pd si sono schierate dieci giorni fa. Forse si teme di essere indicati come bacchettoni, di trasformare la politica in morale. Fatto è che donne che appartengono al privato (Veronica e Barbara Berlusconi) hanno avuto un ruolo politico, quel ruolo che chi fa politica non trova. Le generazioni del femminismo si sono scollate. Le ragazze che vanno a palazzo Grazioli dal bagno del tiranno telefonano alla madre, contente. Le loro madri hanno la nostra età. Cosa è successo tra quelle madri e queste figlie, tra noi e loro? Le grandi personalità si sono ritirate a scrivere le memorie degli anni d’oro, quasi a rivendicare un’autorità su e insieme un’estraneità da questo tempo. Io l’avevo detto, io l’avevo scritto. Personalismi, una contro l’altra, non c’è più la capacità di mettere in comune le esperienze, tessere una trama, rinunciare a qualcosa di proprio per l’agire collettivo. Quello che dà fastidio, poi, è questo continuo lamento, solo lamento. Tutti che chiedono rivendicano protestano e si lagnano, tutti che pongono problemi e nessuno che offra soluzioni. Anche attorno a noi, nella vita, è così. Lamentarsi è facile e non costa nulla, invece proporre una soluzione significa assumere una responsabilità, pagare il prezzo di una decisione..

Lamentarsi, risentirsi, portare rancore: anche queste sono forme private di agire. La dimensione pubblica – quella di chi si attrezza ad unire le forze e costruire gli strumenti per cambiare le cose, insieme – è svanita. I giovani sono figli di questo tempo. Tutto per loro è privato, totalmente privato. Bisogna ripartire da capo. Dalle cose essenziali. Lanciare un appello, per esempio, alcune donne si preparano a farlo: lanciare appelli non è un modo vecchio di agire. È nuovo, oggi. È di nuovo nuovo. Non essere docili, ripartiamo da qui».
12 agosto 2009

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«Ribelliamoci come in Iran e in Birmania»

Conversando con Nadia Urbinati, di Concita De Gregorio

Tutto avviene nel silenzio. C’è un’idea diffusa di impotenza, di rassegnazione. Alla politica si è sostituito il potere. La gestione delle cose, gli affari privati. Tutto è ormai una faccenda privata: di scambi, di soldi, di favori. Dove sono i cittadini, in questo paese? Dove sono le donne? In tutto il mondo le donne sono in piazza. Alla sbarra a Teheran, massacrate in Iran, prigioniere in Birmania. Volti femminili che diventano icone della protesta. Qui, in questa nostra democrazia in declino, di donne si parla per dire delle escort, delle ragazzine che dal bagno attiguo alla camera da letto del tiranno telefonano a casa alla madre per raccontare, contente, “mamma sapessi dove sono” e rallegrarsi insieme. E fuori, e le altre? Silenzio. L’apatia ci accompagna…».

Il tempo del silenzio, ripete Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia university. «Avrei voluto far qualcosa, in questi mesi estivi che passo in Italia, ma mi si dice che si deve aspettare l’autunno. Non capisco come mai. Non vedo che altro ci sia da aspettare. Le vittorie di Berlusconi appaiono ormai la conseguenza e non la causa dell’indebolimento della presenza attiva dei cittadini nella vita pubblica. Non c’è nulla da fare, sento dire. C’è, da parte delle persone attorno a noi, una specie di accettazione. Il senso dell’inutilità dell’agire collettivo. Non serve, si dice. Non produce effetti. Solo la pubblicità produce effetti». «Ci hanno ingannati, in questi anni, illudendoci che si potesse partecipare stando a casa: davanti allo schermo di una tv, in un blog al computer. Soli davanti al video. È nato un pubblico che si cela al pubblico. Impotente, rassegnato. Si è fatta strada un’idea maggioritarista: quella che dice che chi vince ha ragione per definizione, in quanto vincitore. Poiché vince non può aver torto. La verità sta con la maggioranza. È un’idea che non prevede il dissenso.

Il dissenso infastidisce, non se ne comprende il valore né l’utilità, non si tollera. La voce dell’opposizione è una voce che disturba. Berlusconi esprime un’idea egemonica che gli sopravviverà. L’opposizione d’altra parte non fa che riconoscere la forza dell’avversario (ho sentito giovani del Pd ammirare la Lega per il radicamento sul territorio ignorando i contenuti di quel radicamento). L’opposizione è assente. Manca un partito capace di parlare con voce forte e chiara. Negli ultimi tre mesi l’Unità e la Repubblica hanno avuto la capacità di far infuriare il tiranno, l’opposizione no. Persa nella sua battaglia interna, persa nell’incapacità di parlare con le parole della politica. Un vuoto che apre la strada ad un nuovo populismo giustizialista. Ho sentito Prodi dire: Berlusconi è il vuoto. Putroppo no, non è vuoto, è pieno di linguaggio e di azione. È l’opposizione a non avere linguaggio ed azione da opporre, manca un partito che incalzi. Quel che fa questo governo non è ridicolo, non è schifoso come ho sentito dire dai leader negli ultimi giorni. È tragico. Le gabbie salariali sono la rottura di un patto di solidarietà e giustizia tra i cittadini, un piede di porco capace di smembrare il paese. Le ronde sono un pericolo gravissimo, oltre ad essere un modo subdolo per distribuire finanziamenti pubblici. Sull’unità d’Italia? Nulla. Se non ci fosse l’Europa a contenerci saremmo sull’orlo della guerra civile».

«Siamo orfani di politica. Il potere ha preso il suo posto: chi lo detiene lo usa attraverso mezzi privati, conti in banca, soldi, scambi di favori. Berlusconi durerà. Tutto questo non finirà con lui. Questo governo non è Berlusconi, è la visione organica della società che lui rappresenta. Abbiamo imparato a giustificare sempre tutto. Ci sarebbe bisogno di avere una visione morale della politica, invece. Non c’è. Non abbiamo una cultura della responsabilità morale: anche se non penalmente perseguibili certi atteggiamenti sono moralmente turpi. Bisogna dirlo, ripeterlo, cercare ascolto, pretendere risposta.

È stata una trasformazione molecolare. Dopo anni di partecipazione si è spenta nella mente del cittadini la dimensione pubblica. La democrazia si è fatta docile e apatica. Vista dall’estero l’Italia non ha più nulla da dire, resta solo un esempio interessante da studiare sul declino della democrazia. Penso alle donne, poi. Neda, San Suu Kyi, le donne nel mondo. In Italia a parte qualche importante figura femminile isolata, niente. Sulle prostitute e le minorenni di cui si circonda il Presidente le parlamentari del Pd si sono schierate dieci giorni fa. Forse si teme di essere indicati come bacchettoni, di trasformare la politica in morale. Fatto è che donne che appartengono al privato (Veronica e Barbara Berlusconi) hanno avuto un ruolo politico, quel ruolo che chi fa politica non trova. Le generazioni del femminismo si sono scollate. Le ragazze che vanno a palazzo Grazioli dal bagno del tiranno telefonano alla madre, contente. Le loro madri hanno la nostra età. Cosa è successo tra quelle madri e queste figlie, tra noi e loro? Le grandi personalità si sono ritirate a scrivere le memorie degli anni d’oro, quasi a rivendicare un’autorità su e insieme un’estraneità da questo tempo. Io l’avevo detto, io l’avevo scritto. Personalismi, una contro l’altra, non c’è più la capacità di mettere in comune le esperienze, tessere una trama, rinunciare a qualcosa di proprio per l’agire collettivo. Quello che dà fastidio, poi, è questo continuo lamento, solo lamento. Tutti che chiedono rivendicano protestano e si lagnano, tutti che pongono problemi e nessuno che offra soluzioni. Anche attorno a noi, nella vita, è così. Lamentarsi è facile e non costa nulla, invece proporre una soluzione significa assumere una responsabilità, pagare il prezzo di una decisione..

Lamentarsi, risentirsi, portare rancore: anche queste sono forme private di agire. La dimensione pubblica – quella di chi si attrezza ad unire le forze e costruire gli strumenti per cambiare le cose, insieme – è svanita. I giovani sono figli di questo tempo. Tutto per loro è privato, totalmente privato. Bisogna ripartire da capo. Dalle cose essenziali. Lanciare un appello, per esempio, alcune donne si preparano a farlo: lanciare appelli non è un modo vecchio di agire. È nuovo, oggi. È di nuovo nuovo. Non essere docili, ripartiamo da qui».
12 agosto 2009

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lunedì 10 agosto 2009

Perché Bossi deve dimettersi

Redazione del Manifesto
Per adesioni:
immigrazione@arci.it http://www.sosdiritti.ning.com/

Nell’anniversario della tragedia del 1956 a Marcinelle, dove 136 minatori italiani persero la vita, perfino esponenti dell’attuale maggioranza di destra hanno riconosciuto che quei lavoratori erano trattati non diversamente da come oggi si trattano da noi gli “extracomunitari”, hanno domandato “rispetto” per gli stranieri anche “se senza documenti” e riconosciuto sbagliato quel reato di clandestinità che pure hanno concorso a introdurre, insieme ad altre leggi razziali.

L’esponente della Lega Nord, Umberto Bossi, ha invece avuto l’impudenza di dichiarare: "Noi andavamo a lavorare, non ad ammazzare”. Questa affermazione insultante e razzista - che nega la realtà, finge di ignorare quanti lavoratori italiani siano stati trattati come criminali dai bossi dell’epoca e definisce delinquenti centinaia di migliaia di onesti lavoratori stranieri, molto spesso supersfruttati – non può essere ancora una volta archiviata come folklore perché è stata fatta da un ministro della Repubblica. Lo stesso che qualche giorno fa ha dichiarato che non gli interessa il tricolore (di cui è rappresentante come ministro) piacendogli solo la bandiera della Lombardia o dell’inesistente padania. E che in altre occasioni ha giustificato l’incendio del campo rom di Ponticelli o ha invocato il ricorso ai fucili, a seconda dell’umore del momento, contro magistrati, migranti, meridionali o contro Roma ladrona (di cui pure è ministro).
Né il fatto che pochi o molti lo abbiano votato può valere da “scudo” a chi incita alla violenza squadrista, alla secessione e all’ odio razziale, come non potrebbe garantire l’immunità a un ministro pedofilo o mafioso. Chiediamo che le forze politiche dell’opposizione, parlamentare e no, pretendano le dimissioni immediate di questo signore, data l’incompatibilità manifesta dei suoi comportamenti col suo ruolo e che i presidenti delle Camere intervengano a tutelare la dignità delle istituzioni.

Primi firmatari: Walter Peruzzi, Piero Maestri, Alberto Stefanelli, Gianluca Paciucci (“Guerre&Pace”); Giuseppe Faso, Marina Veronesi (Centro interculturale empolese-Valdelsa); Filippo Miraglia (resp. immigrazione Arci); Anna Maria Rivera (Università di Bari); Piero Soldini (resp. Immigrazione CGIL); Enzo Mazzi, Firenze; Enrico Peyretti, Torino; Marcello Maneri, Fabio Quassoli (Università Bicocca, Milano); Federico Celestini (Università della Musica Graz, Austria); Fulvio Vassallo Paleologo (Università di Palermo); Antonio Moscato (storico); Gordon Poole (Orientale di Napoli); Giovanni Russo Spena (PRC); Angelo Baracca (Università di Firenze).

Hanno inoltre aderito: Paolo Buffoni (Ass. "Todo Cambia" e "Università Migrante", Milano); Rosetta Riboldi (“Coordinamento pace”, Cinisello); Alfonso Di Stefano (Rete Antirazzista Catanese); Guido Piccoli; Giuseppe Lodoli; Stefania Silva; Beatrice Biliato, Floriana e Alberto Lipparini, Paolo Limonta, Marco Capra, Milvia Naja, Ariele Agostini, Milano; Lorenza Giangregorio, Roma;

Per adesioni:
immigrazione@arci.it http://www.sosdiritti.ning.c/

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Test Invalsi, i più bravi al Sud, "Ma hanno copiato" e vince il Nord

di SALVO INTRAVAIA, da Repubblica online
La decisione dei valutatori dopo il riscontro di "anomalie" che dimostrerebbero "comportamenti opportunistici". Così la graduatoria è stata invertita

Gli studenti meridionali sono i più bravi d'Italia. Anzi, no: sono i più scarsi perché, nel compilare il test nazionale, hanno copiato o i prof li hanno aiutati. E' questa la prima lettura del report appena pubblicato dall'Invasi (l'Istituto nazionale di valutazione del sistema scolastico nazionale) sul test a carattere nazionale, che gli studenti di terza media hanno compilato durante l'esame finale di giugno. Il punteggio "grezzo" per area geografica non lascia spazio a dubbi: in Italiano sono in testa i ragazzini del Centro seguiti da quelli meridionali, ultimi si piazzano gli alunni delle regioni del Nord. In Matematica per gli studenti meridionali le cose vanno ancora meglio: sono in testa, seguiti da quelli e del Centro e dai compagni settentrionali.

Ma, secondo l'Invalsi, le prove compilate dai ragazzini delle regioni al di sotto della Capitale sono "anomali". "Ad un primo sguardo - si legge nel rapporto - i risultati complessivi sia della prova d'italiano che di quella di matematica non sembrano mettere in luce differenze molto rilevanti all'interno del Paese. In entrambe le sezioni della Prova nazionale il Nord, inteso nel suo complesso, sembra conseguire risultati leggermente inferiori al resto del Paese, mentre le restanti aree non paiono differire in modo significativo". Possibile? Ed ecco che i dati si invertono.

"Ancor prima di analizzare i dati presentati nelle tavole - continua il dossier - è importante verificare se ed in quale misura i risultati rilevati diano qualche indicazione di comportamenti opportunistici". In poche parole: di prof che aiutano gli allievi nelle risposte o di studenti che si aiutano copiando ed insegnanti che stanno a guardare. Ma non si era detto che al Nord ci sono tantissimi (troppi) professori meridionali? Al Nord i prof meridionali non aiutano gli studenti e al Sud gli stessi "terroni", per usare un vocabolo che sta a cuore agli esponenti del Carroccio, danno una mano ai propri alunni? O è anche possibile ipotizzare che gli alunni del Sud sono più furbi di quelli del resto d'Italia?

Ma, se la matematica non è un'opinione, i dati vanno sgrossati dalle furberie. "Il suddetto controllo - spiegano dall'Invalsi - è stato effettuato adottando una metodologia statistica articolata e analitica volta all'individuazione dei dati anomali e della loro conseguente correzione (hard clustering)". Ma anche applicando la complessa metodologia statistica i conti non tornano. "Tuttavia - proseguono gli esperti - , questo metodo non supera totalmente il problema della presenza dei dati anomali e non è in grado di tenere conto di nuance diverse con le quali le anomalie si possono presentare".

Ed ecco la soluzione al dilemma. "Per questa ragione è stata adottato un 'approccio sfuocato' (fuzzy logic) in grado di fornire ad ogni studente un coefficiente di correzione attenuando così in maniera considerevole l'incidenza di comportamenti opportunistici". Solo dopo la complicata elaborazione dei dati si giunge alla tabella dei "punteggi medi corretti". Che, finalmente, ristabilisce i "reali valori" in campo: primi i ragazzini nel Nord, secondi i compagni del Centro e buoni ultimi quelli del Sud.

E se l'anomalia venisse spiegata diversamente? Nelle elaborazioni Invalsi i risultati vengono anche disaggregati in base all'origine degli alunni: italiani (autoctoni) o non italiani. I punteggi degli alunni stranieri, anche per via del test di lingua italiana, sono di gran lunga inferiori a quelli dei coetanei nostrani. E siccome nelle regioni settentrionali la percentuale di alunni stranieri è sei volte superiore a quella delle regioni meridionali. Perché i migliori risultati del Sud devono essere attribuiti a comportamenti anomali e non alla minore presenza di alunni stranieri?
(10 agosto 2009)

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domenica 9 agosto 2009

I moduli, i dubbi ed il call center

da Repubblica TV online




di Alberto Puliafito
prodotto da Fulvio Nebbia
e Alberto Puliafito iK Produzioni


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Perché la Lega sta facendo ammuina (*)

di Eugenio Scalfari, su Repubblica online
LA PAROLA "isteria" e l'aggettivo "isterico" sono stati usati per la prima volta da Ezio Mauro nel suo articolo di ieri a proposito dei recentissimi comportamenti del nostro presidente del Consiglio. Si sente braccato, inventa un suo ruolo maieutico in tutte le trattative internazionali che si rivela però del tutto infondato (a cominciare dal vertice russo-turco sul gasdotto); insulta come delinquenti due giornalisti che fanno domande scomode ma pertinenti nel corso di una conferenza stampa da lui convocata; teme l'arrivo di un settembre difficile per il governo e per lui e lo dice nel corso d'una riunione con i suoi collaboratori mentre contemporaneamente riafferma che il peggio della crisi è passato e che da settembre verrà il bello.
Insomma isteria. Isteria da insicurezza psicologica, economica, politica.

Osservo tuttavia che il presidente del Consiglio non è il solo a soffrire di questo sintomo e a manifestarlo con i suoi comportamenti. Ne sta infatti visibilmente soffrendo il partito a lui più vicino, quello dalla cui tenuta dipende la permanenza in carica del governo e del premier. Parlo della Lega Nord e del terzetto che la guida: Umberto Bossi e i suoi colonnelli Calderoli e Maroni. I loro più recenti comportamenti non consentono dubbi su questa diagnosi: il terzetto di punta della Lega sembra in preda ad un male oscuro al quale cerca di sottrarsi inseguendo alternative che hanno il solo effetto di peggiorare la situazione e di scaricarne gli effetti negativi non tanto sulla Lega quanto sull'intera comunità nazionale.

Le due insicurezze e le isterie che ne derivano - quella del premier e quella della Lega - rischiano di raggiungere la loro massima intensità nei prossimi mesi a partire dalla ripresa di settembre, con conseguenze preoccupanti sulla tenuta democratica. Perciò è urgente e necessario approfondire questa diagnosi e ricercarne le cause.

* * *

Sappiamo da sempre quali siano gli obiettivi politici della Lega: staccare le sorti del lombardo-veneto e possibilmente dell'intera Padania dal resto del Paese. Per un lungo periodo vagheggiarono una vera e propria secessione mantenendo semmai un innocuo legame confederativo con le altre zone del paese. Ma visto che la Padania in quanto tale era malvista come entità politico-territoriale da moltissimi dei suoi abitanti, ripiegarono sul federalismo, fiscale e istituzionale.
L'obiettivo era ed è quello di trattenere il reddito e la ricchezza nei luoghi dove si forma, concedendo blande forme di perequazione alle zone più deboli. E poiché l'alleanza politica con la Lega è sempre stato uno dei punti fermi di Berlusconi a partire dalla sua prima discesa in campo, così il federalismo fiscale e istituzionale diventò anche un obiettivo di Forza Italia ed ora del Partito della libertà, essendosi in buona parte spente le resistenze un tempo opposte da An in nome dell'unità nazionale.

Poiché un obiettivo così complesso come quello di trasformare uno Stato unitario e centralizzato in un'unione di regioni federate aveva bisogno di aggregare ampi e solidi consensi in tutto il Paese e poiché il federalismo in quanto tale quei consensi non era in grado di produrli, gli strumenti per ottenerli furono individuati nei due temi, strettamente connessi tra loro, della sicurezza e della lotta contro l'immigrazione.

Fu messa in campo tutta la potenza mediatica della quale Berlusconi dispone per montare al massimo la "paura percepita" dei reati e il loro collegamento con l'immigrazione. In particolare con quella clandestina, ma anche con quella regolarizzata che ammonta ormai a quasi 5 milioni di persone.
Questa strategia, che aveva già dato i primi risultati nella legislatura 2001-2006, fu ampiamente premiata durante la campagna elettorale del 2007 ed ha raggiunto ora il punto culmine di attuazione. La legge-quadro sul federalismo è stata votata (con l'astensione del centrosinistra) nello scorso maggio. Pochi giorni fa è stata approvata la legge sulla sicurezza. Alla ripresa di settembre verranno sul tavolo i problemi della delega e dei decreti delegati per la graduale attuazione del federalismo fiscale, nonché la riforma costituzionale che trasformerà il Senato in Assemblea delle autonomie con tutto il ricasco che una tale trasformazione avrà sull'organizzazione del governo, delle istituzioni di controllo a cominciare dal Parlamento, dalla Corte costituzionale e dall'Ordine giudiziario. Per finire con inevitabili modifiche sul ruolo del presidente della Repubblica.

Insomma, un sommovimento istituzionale di ampie dimensioni che ha come radice il federalismo fiscale e come obiettivo della Lega quello di "isolare" la parte ricca ed efficiente del paese dal contagio con la parte "povera, brutta e cattiva" che vive "oziosa e parassitaria" nel Centro e nel Sud.

Poiché questa strategia sta andando avanti ed è stata fin qui largamente premiata per l'asse Berlusconi-Bossi, sembrerebbe incongruo parlare di isteria, soprattutto per quanto riguarda la Lega. E invece no. La strategia nordista si trova infatti proprio ora ad una stretta e in uno stallo che forse i suoi fautori non avevano previsto e che rischia di frantumargli in mano il giocattolo che volevano costruire.

* * *

Voglio dire che, passando da una versione generica e ideologica ad una concreta, sono emerse alcune gravi difficoltà ed alcune profonde reazioni che stanno prendendo corpo e suscitando crescente inquietudine. Non si tratta soltanto della rabbiosa rivendicazione dei siciliani di Lombardo e di Micciché, che il premier è ancora in grado di tacitare con regalie personali e spostamento di risorse.
Si tratta dell'incognita del federalismo fiscale che è arrivata ormai al punto di svolta. Dopo la legge-quadro che è stata un puro elenco di intenzioni e di vaghi principi, si profila ora il passaggio dall'ideologia al merito, emergono le contraddizioni, la diversità degli interessi, la complessità dei parametri e soprattutto l'incognita del costo.

Nessuno è in grado di dire quanto costerà il federalismo fiscale, chi ne sopporterà l'onere maggiore, quali ne saranno i vantaggi per la comunità nazionale, per le zone più ricche come per quelle più povere, tenendo presente che ricchezza e povertà non sono divisibili soltanto tra il Nord e il Sud poiché aree ricche esistono anche nel Mezzogiorno (soprattutto quelle che coincidono con le organizzazioni criminali e con le clientele della zona grigia) così come sacche di povertà frastagliano anche il Nord.

Le cifre del federalismo fiscale non le conosce nessuno, neppure il ministro dell'Economia che pure dovrebbe esserne debitamente informato. Quelle cifre danno (a regime) un saldo attivo o un saldo passivo? Quanto tempo dovrà passare perché il sistema funzioni a pieno ritmo? E che cosa accadrà nel frattempo, quali scosse, quali tensioni si verificheranno e quali ceti sociali e quali territori avvertiranno quelle scosse con maggiore intensità?

Questo nodo di domande ha fatto dire a chi spinge avanti il progetto federalista che la qualità del budino si conoscerà dopo averlo mangiato. Lo stesso Tremonti ha usato l'immagine del budino.
Dal canto mio dico, parafrasando, che il federalismo fiscale è come l'araba fenice: che ci sia ciascuno lo dice, come sia nessuno lo sa. Potrà essere un salto di qualità oppure una trappola di sabbie mobili, una più solida democrazia oppure un brulicare di burocrazie, un diretto controllo dei cittadini o una delega in bianco a gruppi di potere locali. Infine un'accresciuta solidarietà oppure una secessione silenziosa e lo sfasciamento del paese.
Tutto si svolge alla cieca. Ecco perché perfino la Lega è impaurita ed ecco perché i tempi di realizzazione concreta del federalismo fiscale saranno inevitabilmente allungati.

Nel frattempo però il consenso popolare rischia di smottare e alcuni segnali già ci sono.
In vista di questo pericolo il terzetto di punta della Lega ha deciso di fare "ammuina": le ronde, le gabbie salariali, il ritiro delle missioni militari all'estero, la guerra delle bandiere regionali contro quella nazionale, sono pura e semplice "ammuina" per nascondere che l'incognita del federalismo fa paura perfino a coloro che lo hanno voluto e portato avanti fino ad un punto di non ritorno.

Domenica scorsa scrissi che questa situazione di disfacimento e di secessione silenziosa richiede il lancio di un allarme rosso che blocchi la deriva e metta in campo tutte le energie positive, latenti ma disperse, e le riporti in campo. Ripeto quel mio invito. E' il momento che queste energie potenziali entrino in scena, si manifestino, usino gli strumenti che ci sono per costruirne altri più appropriati ed efficaci.
Temo che non ci sia tempo da perdere. L'abbiamo detto tante volte in questi quindici anni ed anche prima. Purtroppo era sempre vero ma questa volta è più vero che mai.

* * *

Post Scriptum. Il ministro Brunetta (ma sì, quel simpaticone) ci ha scritto una lettera a proposito dello sfondamento della spesa ordinaria di 35 miliardi tra il 2008 e il 2009. Avevo scritto che uno sfondamento di tali dimensioni in una fase di crisi e dissesto dei nostri conti pubblici (anche se il ministro Tremonti continua pervicacemente a negare quest'evidenza da lui stesso documentata nell'ultimo Dpef) era incomprensibile. Quei miliardi di euro equivalgono ad un aumento del 4,9 per cento della spesa ordinaria. Vogliamo sapere a che cosa sono serviti. E' una curiosità morbosa? Tremonti dovrebbe rispondere ma ecco che in sua vece ha risposto Brunetta nella lettera da noi pubblicata.
So bene che con questo "post scriptum" espongo i lettori di "Repubblica" al rischio di un'altra lettera del Brunetta medesimo, ma le cifre da lui fornite chiedono risposta.

Dunque. Scrive il ministro della Funzione pubblica che tra il 2008 e il 2009 le spese della Pubblica amministrazione destinate al personale sono aumentate di circa quattro miliardi. Il ministro ne spiega la ragione e noi non vogliamo entrare nel merito. Spiega anche che la spesa per "Consumi intermedi" è a sua volta aumentata da un anno all'altro di 3850 milioni. Non dice il perché, debbo dedurne che si tratta di sprechi.
Altro Brunetta non dice. Il totale delle risorse da lui giustificate nel modo suddetto ammonta dunque a poco meno di otto miliardi. Lo sfondamento della spesa ordinaria è stato di 35 miliardi. La differenza per la quale attendiamo ancora notizie dal ministro dell'Economia o dal suo vice alla Funzione pubblica è quindi di 27 miliardi di euro. Volete per favore dire alla pubblica opinione come diavolo li avete spesi?

(9 agosto 2009)
(*) Facite ammuìna (che in napoletano significa fate confusione, rumore) sarebbe stato un comando contenuto nel Regolamento da impiegare a bordo dei legni e dei bastimenti della Real Marina del Regno delle Due Sicilie del 1841. L'ordine sarebbe stato questo:
« All'ordine Facite Ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann' a poppa e chilli che stann' a poppa vann' a prora:chilli che stann' a dritta vann' a sinistra e chilli che stanno a sinistra vann' a dritta: tutti chilli che stanno abbascio vann' ncoppa e chilli che stanno ncoppa vann' bascio passann' tutti p'o stesso pertuso:chi nun tene nient' a ffà, s' aremeni a 'cca e a 'll à". N.B.: da usare in occasione di visite a bordo delle Alte Autorità del Regno. »

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venerdì 7 agosto 2009

Dante e Verga? Basta. Mi son de Trieste - Ministro, cambiamo i programmi: «El moroso de la Nona» al posto della Divina Commedia

di Claudio Magris, da Il Corriere della Sera online

Signor ministro, mi permetto di scriverLe per suggerirLe l'opportunità di ispirare pure la politica del Ministero da Lei diretto, ovvero l'Istruzione — a ogni livello, dalla scuola elementare all'università — e la cultura del nostro Paese, ai criteri che ispirano la proposta della Lega di rivedere l'art. 12 della Costituzione, ridimensionando il Tricolore quale simbolo dell'unità del Paese, affiancandogli bandiere e inni regionali. Programma peraltro moderato, visto che già l'unità regionale assomiglia troppo a quella dell'Italia che si vuole disgregare.

Ci sono le province, i comuni, le città, con i loro gonfaloni e le loro incontaminate identità; ci sono anche i rioni, con le loro osterie e le loro canzonacce, scurrili ma espressione di un’identità ancor più compatta e pura. Penso ad esempio che a Trieste l'Inno di Mameli dovrebbe venir sostituito, anche e soprattutto in occasione di visite ufficiali (ad esempio del presidente del Consiglio o del ministro per la Semplificazione) dall’Inno «No go le ciave del portòn», triestino doc.

Ma bandiere e inni sono soltanto simbo­li, sia pur importanti, validi solo se esprimo­no un'autentica realtà culturale del Paese. È dunque opportuno che il Ministero da Lei diretto si adoperi per promuovere un'istru­zione e una cultura capaci di creare una ve­ra, compatta, pura, identità locale.

La letteratura dovrebbe ad esempio esse­re insegnata soltanto su base regionale: nel Veneto, Dante, Leopardi, Manzoni, Svevo, Verga devono essere assolutamente sostitui­ti dalla conoscenza approfondita del Moro­so de la nona di Giacinto Gallina e questo vale per ogni regione, provincia, comune, frazione e rione. Anche la scienza deve esse­re insegnata secondo questo criterio; l'ope­ra di Galileo, doverosamente obbligatoria nei programmi in vigore in Toscana, deve essere esclusa da quelli vigenti in Lombar­dia e in Sicilia. Tutt'al più la sua fisica po­trebbe costituire materia di studio anche in altre regioni, ma debitamente tradotta; ad esempio, a Udine, nel friulano dei miei avi. Le ronde, costituite notoriamente da pro­fondi studiosi di storia locale, potrebbero essere adibite al controllo e alla requisizio­ne dei libri indebitamente presenti in una provincia, ad esempio eventuali esemplari del Cantico delle creature di San Francesco illecitamente infiltrati in una biblioteca sco­lastica di Alessandria o di Caserta.

Per quel che riguarda la Storia dell’Arte, che Michelangelo e Leonardo se lo tengano i maledetti toscani, noi di Trieste cosa c’en­triamo con il Giudizio Universale? E per la musica, massimo rispetto per Verdi, Mozart o Wagner, che come gli immigrati vanno be­ne a casa loro, ma noi ci riconosciamo di più nella Mula de Parenzo, che «ga messo su botega / de tuto la vendeva / fora che bacalà».

Come ho già detto, non solo l’Italia, ma già la regione, la provincia e il comune rap­presentano una unità coatta e prevaricatri­ce, un brutto retaggio dei giacobini e di quei mazziniani, garibaldini e liberali che hanno fatto l'Italia. Bisogna rivalutare il rio­ne, cellula dell'identità. Io, per esempio, so­no cresciuto nel rione triestino di Via del Ronco e nel quartiere che lo comprende; perché dovrei leggere Saba, che andava inve­ce sempre in Viale XX Settembre o in Via San Nicolò e oltretutto scriveva in italiano? Neanche Giotti e Marin vanno bene, perché è vero che scrivono in dialetto, ma pretendo­no di parlare a tutti; cantano l’amore, la fra­ternità, la luce della sera, l’ombra della mor­te e non «quel buso in mia contrada»; si ri­volgono a tutti — non solo agli italiani, che sarebbe già troppo, ma a tutti. Insomma, so­no rinnegati.

Ma non occorre che indichi a Lei, Signor Ministro, esempi concreti di come meglio distruggere quello che resta dell’unità d’Ita­lia. Finora abbiamo creduto che il senso pro­fondo di quell’unità non fosse in alcuna con­traddizione con l'amore altrettanto profon­do che ognuno di noi porta alla propria cit­tà, al proprio dialetto, parlato ogni giorno ma spontaneamente e senza alcuna posa ideologica che lo falsifica. Proprio chi è pro­fondamente legato alla propria terra natale, alla propria casa, a quel paesaggio in cui da bambino ha scoperto il mondo, si sente pro­fondamente offeso da queste falsificazioni ideologiche che mutilano non solo e non tanto l’Italia, quanto soprattutto i suoi innu­merevoli, diversi e incantevoli volti che con­corrono a formare la sua realtà. Ci riconosce­vamo in quella frase di Dante in cui egli dice che, a furia di bere l'acqua dell’Arno, aveva imparato ad amare fortemente Firenze, ag­giungendo però che la nostra patria è il mondo come per i pesci il mare. Sbagliava? Oggi certo sembrano più attuali altri suoi versi: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello!».

Con osservanza
Claudio Magris

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giovedì 6 agosto 2009

Equivalenze e utilizzatori finali

di Ida Dominijanni, dal Manifesto online

Non è che la Chiesa non abbia trovato per condannare l'etica pubblica e privata del presidente del consiglio le stesse parole chiare e forti che ora trova per condannare l'uso della RU486, come denuncia Vito Mancuso su "la Repubblica" di ieri. È che le ha sospese, le parole di condanna verso Berlusconi, in attesa di potere stabilire un'equivalenza fra il «maschilismo hard che vede la donna come strumento sessuale» e il femminismo altrettanto hard che vede l'aborto chimico come strumento di libertà procreativa (editoriale de l'"Avvenire" di domenica). Fatta l'equivalenza, trovato lo scambio: il governo si dia da fare per levare di torno quella dannata pillola, e sugli scandali del premier, annunciano le indiscrezioni, scenderà la misericordia divina.

È un argomento da voltastomaco, al quale si può replicare solo con un'altra equivalenza di pari violenza, questa: che sia il premier o che sia la Chiesa, sempre di mercificazione del corpo femminile si tratta, e sempre di utilizzatori finali. Merce di piacere per il premier, merce di scambio politico per il Vaticano. Pari e patta. E sarebbe da chiudere qui.
Con tre codicilli però. Primo. Anche stavolta la Chiesa non perde l'occasione di farsi opportunisticamente interprete e alleata del senso comune più vieto. Il quale scava, come la proverbiale vecchia talpa, cunicoli di colpevolizzazione femminile per uscire in qualche modo dal tunnel dell'imbarazzo in cui si ritrova infilato dai noti fatti di palazzo Grazioli e di villa Certosa. Provate a parlarne sotto un ombrellone, e troverete frotte di uomini e di donne pronti ad ammettere che sì, «lui» ha esagerato, «ma anche queste ragazze che ci stanno...». Queste ragazze che ci stanno in primo luogo ci stanno fino a un certo punto, come s'è visto, in secondo luogo non sono dei monumenti morali neanche loro ma non per questo le si può spacciare come equivalenti a «lui»: c'è di mezzo una disparità di potere, di ruolo e di responsabilità grande come Palazzo Chigi. Usufruire della prostituzione dal vertice del potere politico non è la stessa cosa che esercitarla dal basso della necessità, della disperazione, dello squallore e nemmeno della scelta. La responsabilità morale e politica di un presidente del consiglio non è la stessa di una escort. La retorica berlusconiana incentrata sulla favola del «sono uno di voi» è riuscita a far apparire il potere del tutto trasparente, ingenuo, innocuo?
Secondo. In un articolo sul "manifesto" di domenica scorsa che condivido dall'a alla z, Tamar Pitch notava come la miseria del maschile messa in scena dai suddetti noti fatti parli di una paura delle donne che si dispiega nell'immaginario degli ultimi decenni, popolato di «mostri femminili, donne onnipotenti padrone della vita e della morte, assassine di embrioni». Eccoci infatti di nuovo al punto, come ad ogni tornante dell'infinita guerra culturale sull'aborto. E il punto, sulla Ru486, non è tecnico: invasività, pericolosità, efficacia, garanzie sanitarie. Il punto è che la pillola è un coadiuvante dell'irresponsabilità, della leggerezza, della smisuratezza, della ferocia delle donne, assassine di embrioni. Le quali, com'è noto, ad abortire si divertono, e con la pillola rischiano di divertirsi di più.
Infatti, e terzo. A fronte dell'imbarazzante e complice silenzio sulla miseria del maschile di cui sopra, che sempre Pitch è opportunamente tornata a denunciare, gli uomini non cessano mai di parlare quando si tratta di una questione di squisita competenza femminile come l'aborto. E stavolta bisogna pure ringraziarli per le enormità e i lapsus che gli escono di bocca.
Prendiamo il senatore Quagliariello, che in casi come questi si guadagna sempre l'oscar e se l'è guadagnato anche stavolta dichiarando che «se come ci hanno sempre detto l'aborto deve essere un dramma», la pillola non va bene perché lo sdrammatizza: c'è un «deve» di troppo, senatore, l'aborto è, non dev'essere, un dramma. Oppure prendiamo l'Elefantino - cui va riconosciuto il primato cronologico assoluto, risalente agli anni '80, nella guerra alla Ru486 - sul "Foglio" di ieri: «La pillola che uccide in apparenza serenamente serve culturalmente proprio a questo: a garantire l'ideologia asettica e anestetica di una vita che si costruisce nel disprezzo di un'altra vita, nell'idea di un godimento libertino, devastante, del piacere sessuale scardinato da qualunque amore, da qualunque libertà e responsabilità». Forse nella testa dell'Elefantino la pillola si confonde con le notti a palazzo Grazioli.

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mercoledì 5 agosto 2009

Giovanni Jervis - La forza di passioni condivise

di Stefano Mistura, da Il Manifesto on line
Dagli anni con Basaglia a quelli dell'insegnamento vissuto come missione. Vicenda anche etica, che si intreccia con la storia di Resistenza e antifascismo. Un ricordo dello psichiatra scomparso domenica
Alla fine degli anni Sessanta, era facile stringere amicizia. Non mancava, in quegli anni, il coraggio di mirare a obiettivi precisi e in tal modo costruire forme di comune e condivisa appartenenza. Accadde così anche quando l'allora trentaquattrenne Gionni - con questo nome conoscenti e amici chiamavano Giovanni Jervis - e io, che ero poco più che un ragazzo, ci incontrammo. Era il '67 e il nostro legame è durato tanto a lungo che è difficile realizzare che proprio ora quell'appartenenza, quella condivisione, quel vivere comune fatto di studi, discussioni e lavoro si è interrotto per sempre a causa della sua morte, avvenuta domenica scorsa.

Un maestro raro
Detto così, tutto appare semplice, ma in realtà nei giorni trascorsi all'Ospedale Psichiatrico di Gorizia, dove Jervis lavorava nel gruppo costituitosi attorno a Franco Basaglia, prendeva forma un modo nuovo di insegnare e di «trattare» con i giovani. C'era un clima di attenzione e cure verso di loro di cui presto si sarebbe persa traccia. Giovanni Jervis è stato un maestro raro per tanti, soprattutto perché non ha mai desiderato «allievi conformi», né ha mai mostrato di subire il fascino delle tentazioni scolastiche pure e semplici. Con Jervis si poteva nutrire la naturale attitudine alla critica e anche intensificare la propensione a interrogarsi reciprocamente e a fare domande. Pur muovendo da un rigore scientifico e intellettuale ricercato e praticato fino all'acribia, con lui, però, non ci si sentiva mai «pieni di certezze», non si era mai pronti a dare sempre e comunque risposte, si preferiva piuttosto apparire alla ricerca di un altro orizzonte capace di cogliere meglio la realtà in cui eravamo immersi. Non è possibile mantenere il silenzio quando si riflette sul rapporto tra Franco Basaglia e Giovanni Jervis: per oltre dieci anni - da vivi - e poi fino a oggi, quando anche Gionni non c'è più, si è fantasticato e si fantastica su un presunto, profondo dissidio tra i due. Dissidio che è stato, anche recentemente, enfatizzato in occasione dell'uscita dell'ultimo libro di Jervis, La razionalità negata (Bollati-Boringhieri, 2008), dedicato all'origine e al destino della legge di riforma psichiatrica in Italia.
Se si fa riferimento alle diverse e complesse personalità di questi due grandi psichiatri, alle loro diverse maniere di pensare, al diverso modo che avevano di affrontare i problemi concreti, al modo altrettanto diverso di impostare le loro relazioni interpersonali, allo «stile di comando» quasi incomparabile, alle diverse (almeno in parte) ascendenze culturali, non si può che constatare che erano due persone per tanti versi agli antipodi. Una era certamente più passionale dell'altra, ma spesso erano in grado di completarsi a vicenda. Detto della diversità di carattere e disposizione d'animo, non si può però sostenere che avessero valori di riferimento inconciliabili o che, peggio, Jervis, il più giovane tra i due, potesse essere considerato un «traditore» della giusta causa. Entrambi, con le modalità a loro peculiari, su terreni solo apparentemente lontani, hanno saputo tenere viva la capacità di indignarsi di fronte all'ingiustizia, alle forme assistenziali segnate dall'abbandono, alla cialtroneria professionale che si disinteressa delle storie sociali come di quelle individuali. Entrambi si irritavano quando vedevano «aleggiare la forza dell'ideologia». Non sopportavano la posizione tutti quelli - e non erano pochi - che sostenevano l'inesistenza delle malattie mentali, magari attribuendo l'origine del disturbo psichico a qualche causa sociale. Basaglia e Jervis sapevano distinguere il problema della genesi della malattia da quello della sua gestione terapeutico-assistenziale. La tendenza a descriverli, oggi, come due eterni duellanti è quanto meno ingenerosa. Certo erano diversi, ma nel loro patrimonio culturale non albergava alcun semplicismo e non ragionavano servendosi di formulette riduttive.
Per quasi tutti gli anni Settanta, Jervis si è dedicato a una vasta opera di costruzione istituzionale. Mentre proseguiva la sacrosanta lotta contro la violenza manicomiale, ebbe l'occasione di sperimentare nella provincia di Reggio Emilia la prima rete di Centri di Salute Mentale ordinata e coerente.
Vocazione e pratica istituzionale
Ancora oggi i Servizi Psichiatrici Territoriali più evoluti in Italia si ispirano direttamente o indirettamente a quella esperienza. In particolare, lo si può affermare per quei Dipartimenti di Salute Mentale, ancora non troppo numerosi malauguratamente, che comprendono, accanto alla psichiatria per gli adulti, anche la neuropsichiatria infantile e adolescenziale, il Servizio di consulenza per le altre agenzie socio-sanitarie, quello per le tossicodipendenze e quello per il servizio psichiatrico negli istituti penitenziari. Il frutto teorico di quegli anni è raccolto in tre libri: Manuale critico di psichiatria, Il buon rieducatore editi da Feltrinelli nel 1975 e nel 1977 e, appunto, l'ultimo lavoro dal titolo La razionalità negata.
Dalla fine degli anni Settanta Jervis ha abbracciato la sua vocazione più genuina: l'insegnamento. È stato un maestro rigoroso, riflessivo, critico e autocritico, teso al continuo approfondimento, dotato di una straordinaria virtù: la chiarezza. Non ha mai lasciato intendere di potere dare risposte definitive, qualsiasi fosse il campo che stesse affrontando. Pur essendo un uomo pubblico è rimasto sempre e assolutamente schivo, infastidito da ogni forma di demagogia, di arrivismo, di sensazionalismo, di superficialità. Importanti sono anche i libri che racchiudono corsi e percorsi del suo insegnamento presso la facoltà di Psicologia dell'Università La Sapienza di Roma, da Presenza e identità (Garzanti, 1992) alla Conquista dell'identità (Feltrinelli, 1997), dai Fondamenti di psicologia dinamica (Feltrinelli, 1995) alle Prime lezioni di psicologia (Laterza, 1997). Dagli anni Novanta, fino alla sua scomparsa, Jervis si è cimentato soprattutto nel campo della psicoantropologia sociale divenendone un instancabile promotore culturale e lavorando con le più importanti case editrici italiane. I suoi libri più recenti, su tutti Contro il relativismo (Laterza, 1995) e Pensare dritto, pensare storto (Bollati-Boringhieri, 1997), risentono ancora dell'influsso metodologico di Ernesto De Martino, suo maestro degli anni giovanili, ma appaiono parimenti segnati da una nuova ansia di verifica scientifica scevra di ogni autoreferenzialità.
Con molto dolore, mi trovo quindi costretto a «parlare di» Giovanni Jervis invece che parlare «a lui». Costretto a parlare del maestro e dell'amico che resta per molti, mentre è vivissimo il desiderio purtroppo brutalmente interrotto di discutere con lui, ascoltando il tono inconfondibile della sua voce, di ascoltarlo parlare di tante cose sempre con un'intelligenza così lucida, con un ragionamento così suadente, con una generosità mai stanca. La sua lucidità talvolta colpiva duro, era terribile, non lasciava scampo, non offriva facili concessioni né debolezze, ma comunque priva di ogni arroganza e sicurezza negativa che sono così spesso presenze compiaciute delle coscienze critiche. La sua opera, vale a dire il suo insegnamento, la sua costruzione istituzionale, i suoi libri, sono testimonianze di una forza mai doma, pronta alla riflessione e a disegnare progetti. Forza e progetto che non sono venuti meno, anche nei giorni della malattia.

Rigore familiare
Senza indulgere a ricordi sulla sua vita personale, una cosa non si può comunque tacere e riguarda l'assoluta impossibilità per Jervis di cadere in qualche forma di opportunismo, in particolare se erano in gioco interessi individuali. Questa attitudine verso un'etica personale piuttosto dura gli derivava dall'atmosfera della sua famiglia d'origine. Gli amici e i lettori se ne resero conto quando Gionni e la sorella Paola decisero di mettere a disposizione e rendere in tal modo pubblica la documentazione che attestava la cattura, la prigionia e la fucilazione da parte dei nazifascisti del padre Guglielmo. Se si vuole comprendere qualcosa della disposizione etica di Jervis - e da quale clima culturale avesse ricevuto il calco - è sufficiente leggere l'edificante Un filo tenace (Bollati-Boringhieri, 2008) che raccoglie le lettere dal carcere di Guglielmo Jervis, noto col nome di battaglia di «Willy», medaglia d'oro della Resistenza. All'epoca, Giovanni aveva dieci anni ed era già largamente consapevole di molte cose sul piano politico. Un giorno del 1969 ebbi occasione di parlarne con Vittorio Foa che conservava memoria nitida dell'«affare Jervis» e ricordava la già sorprendente maturità del «piccolo Gionni».
Mi è capitato molte volte di incontrare persone che avevano avuto difficoltà a capire taluni aspetti della personalità di Jervis. Assumevano come intolleranza e rigidità, ciò che era semplicemente rifiuto della falsa coscienza e della demagogia. Indubbiamente il trascorrere del tempo aiuterà a comprendere meglio quanto il lavoro di Giovanni Jervis sia stato prezioso.


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martedì 4 agosto 2009

La Chiesa, la RU486 e le escort del capo

di Ida Dominijanni, da il Manifesto on line

Non è che la Chiesa non abbia trovato per condannare l'etica pubblica e privata del presidente del consiglio le stesse parole chiare e forti che ora trova per condannare l'uso della RU486, come denuncia Vito Mancuso su "la Repubblica" di ieri. È che le ha sospese, le parole di condanna verso Berlusconi, in attesa di potere stabilire un'equivalenza fra il «maschilismo hard che vede la donna come strumento sessuale» e il femminismo altrettanto hard che vede l'aborto chimico come strumento di libertà procreativa (editoriale de l'"Avvenire" di domenica). Fatta l'equivalenza, trovato lo scambio: il governo si dia da fare per levare di torno quella dannata pillola, e sugli scandali del premier, annunciano le indiscrezioni, scenderà la misericordia divina.

È un argomento da voltastomaco, al quale si può replicare solo con un'altra equivalenza di pari violenza, questa: che sia il premier o che sia la Chiesa, sempre di mercificazione del corpo femminile si tratta, e sempre di utilizzatori finali. Merce di piacere per il premier, merce di scambio politico per il Vaticano. Pari e patta. E sarebbe da chiudere qui.
Con tre codicilli però. Primo. Anche stavolta la Chiesa non perde l'occasione di farsi opportunisticamente interprete e alleata del senso comune più vieto. Il quale scava, come la proverbiale vecchia talpa, cunicoli di colpevolizzazione femminile per uscire in qualche modo dal tunnel dell'imbarazzo in cui si ritrova infilato dai noti fatti di palazzo Grazioli e di villa Certosa. Provate a parlarne sotto un ombrellone, e troverete frotte di uomini e di donne pronti ad ammettere che sì, «lui» ha esagerato, «ma anche queste ragazze che ci stanno...». Queste ragazze che ci stanno in primo luogo ci stanno fino a un certo punto, come s'è visto, in secondo luogo non sono dei monumenti morali neanche loro ma non per questo le si può spacciare come equivalenti a «lui»: c'è di mezzo una disparità di potere, di ruolo e di responsabilità grande come Palazzo Chigi. Usufruire della prostituzione dal vertice del potere politico non è la stessa cosa che esercitarla dal basso della necessità, della disperazione, dello squallore e nemmeno della scelta. La responsabilità morale e politica di un presidente del consiglio non è la stessa di una escort. La retorica berlusconiana incentrata sulla favola del «sono uno di voi» è riuscita a far apparire il potere del tutto trasparente, ingenuo, innocuo?
Secondo. In un articolo sul "manifesto" di domenica scorsa che condivido dall'a alla z, Tamar Pitch notava come la miseria del maschile messa in scena dai suddetti noti fatti parli di una paura delle donne che si dispiega nell'immaginario degli ultimi decenni, popolato di «mostri femminili, donne onnipotenti padrone della vita e della morte, assassine di embrioni». Eccoci infatti di nuovo al punto, come ad ogni tornante dell'infinita guerra culturale sull'aborto. E il punto, sulla Ru486, non è tecnico: invasività, pericolosità, efficacia, garanzie sanitarie. Il punto è che la pillola è un coadiuvante dell'irresponsabilità, della leggerezza, della smisuratezza, della ferocia delle donne, assassine di embrioni. Le quali, com'è noto, ad abortire si divertono, e con la pillola rischiano di divertirsi di più.
Infatti, e terzo. A fronte dell'imbarazzante e complice silenzio sulla miseria del maschile di cui sopra, che sempre Pitch è opportunamente tornata a denunciare, gli uomini non cessano mai di parlare quando si tratta di una questione di squisita competenza femminile come l'aborto. E stavolta bisogna pure ringraziarli per le enormità e i lapsus che gli escono di bocca.
Prendiamo il senatore Quagliariello, che in casi come questi si guadagna sempre l'oscar e se l'è guadagnato anche stavolta dichiarando che «se come ci hanno sempre detto l'aborto deve essere un dramma», la pillola non va bene perché lo sdrammatizza: c'è un «deve» di troppo, senatore, l'aborto è, non dev'essere, un dramma. Oppure prendiamo l'Elefantino - cui va riconosciuto il primato cronologico assoluto, risalente agli anni '80, nella guerra alla Ru486 - sul "Foglio" di ieri: «La pillola che uccide in apparenza serenamente serve culturalmente proprio a questo: a garantire l'ideologia asettica e anestetica di una vita che si costruisce nel disprezzo di un'altra vita, nell'idea di un godimento libertino, devastante, del piacere sessuale scardinato da qualunque amore, da qualunque libertà e responsabilità». Forse nella testa dell'Elefantino la pillola si confonde con le notti a palazzo Grazioli.

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Le donne e la libertà ai tempi del Cavaliere

di Miriam Mafai, da Repubblica on line

E se tutto questo scialo di donne, convocate a Roma da uno spregiudicato affarista di Bari, e messe a disposizione del nostro presidente del Consiglio, avesse provocato, non la simpatia, l'invidia e il consenso di cui parlano i suoi più fedeli collaboratori, ma, soprattutto tra le donne, irritazione, e persino un po' di vergogna?

E non è possibile che sia stato proprio questo sentimento di una parte dell'elettorato femminile ad aver provocato un sia pur tardivo atteggiamento di critica da parte della stampa e delle gerarchie cattoliche?

Una velina, una escort, una prostituta è una donna che dispone del suo corpo come crede. O come può. Il mestiere più antico del mondo, si diceva una volta. Esercitato in modi diversi, con maggiore o minore eleganza, riservatezza e sobrietà. Un mestiere che si sceglie o al quale si può forse essere costrette. Ma non è lecito pensare che siccome esistono le veline, tutte le donne italiane sarebbero classificabili come aspiranti veline. E la prova di questa latente aspirazione starebbe nel fatto che le donne italiane, giovani e meno giovani, dedicano ormai una cura ossessiva al proprio corpo, sperando di farne strumento non solo di piacere ma anche, se possibile, di guadagno e di successo.

Ha ragione Michela Marzano quando, su queste pagine, qualche giorno fa, denunciava il fatto che questo sia l'unico modello di riuscita e di comportamento che il potere in carica oggi propone alle donne. E' questo, nei fatti, il modello vincente insistentemente proposto alle donne dalla nostra tv. Donne esibite come merce, donne spogliate, donne in vendita offerte al miglior acquirente: una proposta umiliante che non viene avanzata solo dalla tv berlusconiana, ma anche purtroppo da quella pubblica.

Ma le donne italiane sono davvero tutte, o nella loro maggioranza, disponibili a questa subalternità al desiderio maschile? Io non lo credo. Penso, al contrario, che in maggioranza le donne italiane stiano da tempo perseguendo un'altra strada. Quella della propria realizzazione come individui liberi e responsabili, attraverso una faticosa combinazione tra studio, organizzazione della vita familiare, maternità e lavoro. E questo mi pare il senso dell'interpellanza su Berlusconi presentata la scorsa settimana in Parlamento dalle donne e dalle ex ministre del Pd. E questo mi pare anche il messaggio di quelle 15 mila donne italiane che hanno firmato l'appello della professoressa Chiara Volpato: "il comportamento del premier offende le donne".

Il 1968 ci perseguita. É sempre a quella data che facciamo riferimento per ricordarne le conquiste o lamentarne le sconfitte e le delusioni. Quello che si è convenuto chiamare il 1968 è un processo lungo e tumultuoso che nel nostro paese è durato almeno dieci anni. Ci stanno dentro le occupazioni delle Università e l'autunno caldo operaio, la legge sul divorzio (e il successivo referendum) e lo Statuto dei Lavoratori, il nuovo diritto di famiglia e la legge sull'aborto, la chiusura dei manicomi e la riforma sanitaria, Piazza Fontana e il delitto Moro. Quello che chiamiamo il 1968 è uno spartiacque. C'è un prima e un dopo. E oggi, a distanza di quarant'anni molti di noi continuano a misurarsi con quelle speranze, quei successi e le successive delusioni.

Cosa ne è, si chiede Michela Marzano (che all'epoca, beata lei, non era nemmeno nata) della rivoluzione sessuale di quegli anni, che dava finalmente alle donne la libertà di disporre del proprio corpo, che prometteva a tutti di diventare autonomi soggetti della propria vita? Cosa ne è, di tutto questo, "ai tempi del cavaliere" in un paese in cui il presidente del Consiglio può dichiarare, senza vergogna, che "chi scopa bene governa bene"?

Tutto questo, le veline e le escort, le Noemi Letizia e le Patrizie D'Addario, le feste a Villa Certosa e a Palazzo Grazioli, le barzellette da trivio e le volgarità di Berlusconi ("un uomo che non sta bene" come lo ha definito, correttamente e sobriamente, la moglie Veronica Lario), tutto questo rappresenta senza dubbio un pezzo, il più sgradevole e avvilente del nostro paese, ma non può essere assunto a simbolo dell'Italia, del nostro costume, delle aspirazioni, delle ambizioni, dello stile di vita delle donne italiane di oggi.
Al contrario: sono convinta che il femminismo o comunque si voglia chiamarlo, quel movimento cioè che rivendicava la fine di ogni forma di discriminazione tra uomini e donne, la uguaglianza di diritti e la possibilità, quel movimento nel corso degli anni ha certamente cambiato faccia, stile, modo di esprimersi ma ha messo radici profonde nella nostra cultura e nella nostra vita quotidiana. La rivoluzione femminista, nata negli anni lontani che chiamiamo " il 68", resa possibile anche dal processo di secolarizzazione che allora percorse il nostro paese (coinvolgendo una parte notevole del mondo cattolico), quella rivoluzione si scontrerà negli anni successivi con movimenti e culture che ne tenteranno un ridimensionamento. Parlo di movimenti e culture che esaltano la violenza e il successo, comunque conseguito, che irridono ai deboli o ai meno dotati, e che tentano di riportare la donna a un ruolo subalterno contestandone il diritto alla propria autonoma capacità di decisione anche nel campo delicatissimo della procreazione. (Basti ricordare la vicenda della legge sulla fecondazione assistita, i ripetuti tentativi di rivedere la legge 194, e, in questi giorni la posizione del Vaticano sulla pillola Ru487 e la relativa minaccia di scomunica rivolta ai medici che dovessero prescriverla).

La libertà della donna è certamente a rischio. Ma resta tuttora un elemento fondante della nostra società. Ormai padrone del proprio corpo, le donne se ne possono servire, se vogliono, per fare le veline o per fare carriera, ma anche per scegliere se e come e quando fare un figlio, o per vincere una gara sportiva come le nostre splendide Federica Pellegrini e Alessia Filippi. Si possono servire dalla loro intelligenza per affrontare percorsi di studio e ricerca sempre più complessi, per dare la scalata a posti di sempre maggiore responsabilità. Il fatto è che, purtroppo, non ci vengono mai proposte come modello. Tutti conosciamo la faccia di Patrizia D'Addario. Ma nessuna tv ci propone la faccia di Cristina Battaglia, a 35 anni vicepresidente dell'Enea, o quella di Amalia Ercoli Finzi che al Politecnico di Milano insegna come volare nello spazio, o quella di Sandra Bavaglio, giovane astronoma cui Time ha già dedicato una copertina.
Insomma, il 1968, la sua cultura dell'uguaglianza e dei diritti è ancora tra noi. Quali che siano i messaggi che ci invia una tv sempre più volgare o quelli proposti dal patetico machismo del nostro presidente del Consiglio.


Continua...

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