lunedì 30 novembre 2009

Libera - Appello: Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra


di don Luigi Ciotti
presidente di Libera e Gruppo Abele

Tredici anni fa, oltre un milione di cittadini firmarono la petizione che chiedeva al Parlamento di approvare la legge per l'uso sociale dei beni confiscati alle mafie. Un appello raccolto da tutte le forze politiche, che votarono all'unanimità le legge 109/96. Si coronava, così, il sogno di chi, a cominciare da Pio La Torre, aveva pagato con la propria vita l'impegno per sottrarre ai clan le ricchezze accumulate illegalmente.


IOggi quell 'impegno rischia di essere tradito. Un emendamento introdotto in Senato alla legge finanziaria, infatti, prevede la vendita dei beni confiscati che non si riescono a destinare entro tre o sei mesi. E' facile immaginare, grazie alle note capacità delle organizzazioni mafiose di mascherare la loro presenza, chi si farà avanti per comprare ville, case e terreni appartenuti ai boss e che rappresentavano altrettanti simboli del loro potere, costruito con la violenza, il sangue, i soprusi, fino all'intervento dello Stato.

La vendita di quei beni significherà una cosa soltanto: che lo Stato si arrende di fronte alle difficoltà del loro pieno ed effettivo riutilizzo sociale, come prevede la legge. E il ritorno di quei beni nelle disponibilità dei clan a cui erano stati sottratti, grazie al lavoro delle forze dell'ordine e della magistratura, avrà un effetto dirompente sulla stessa credibilità delle istituzioni.

Per queste ragioni chiediamo al governo e al Parlamento di ripensarci e di ritirare l'emendamento sulla vendita dei beni confiscati.
Si rafforzi, piuttosto, l'azione di chi indaga per individuare le ricchezze dei clan. S'introducano norme che facilitano il riutilizzo sociale dei beni e venga data concreta attuazione alla norma che stabilisce la confisca di beni ai corrotti. E vengano destinate innanzitutto ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia i soldi e le risorse finanziarie sottratte alle mafie. Ma non vendiamo quei beni confiscati che rappresentano il segno del riscatto di un'Italia civile, onesta e coraggiosa. Perché quei beni sono davvero tutti "cosa nostra".


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sabato 28 novembre 2009

Manifestazione contro la violenza maschile alle donne del 28 nov a Roma

di Clelia Mori

Chissà se la violenza è ancora neutra?
Donne di nuovo in piazza, oggi a Roma a dire il loro BASTA, per la Giornata Internazionale contro la Violenza Maschile, su di loro.Giorgio Napolitano ha parlato di un’emergenza mondiale ed ha fatto benissimo. C’è grande fermento da molti giorni in tutt’Italia intorno a questa data e non finirà qui. Finalmente sembra esserci una presa di coscienza nazionale sul tema. Era ora! Uno dei tetti di cristallo sembra quasi infranto.


Ma c’è qualcosa che non mi quadra, pur nella soddisfazione della capillarità della giornata.
Quasi dappertutto si parla giustamente della violenza alle donne e della sua insopportabilità. Ma se ne parla ancora troppo come se fosse una violenza neutra, che piove dal cielo. Quasi soprannaturale. Almeno io la sento così, quando i discorsi si fermano troppo alle vittime.
E la violenza neutra non è! Se lo fosse sarebbe praticamente inutile manifestare. Se lo fosse sarebbe un dato naturale indistruttibile. Se lo fosse sarebbe come i terremoti, a cui non puoi opporre nessun tipo di intelligenza, perché nascono fuori dalle intenzioni umane. Se lo fosse dovremmo accettarla così com’è.
Ma la violenza così, non lo è proprio. Lo sappiamo da sempre e le femministe in particolare. Ma gli altri e le altre non lo sanno con sicurezza profonda. Spesso pensiamo si possa anche non dire. Non tirarla fuori. Inquieta affrontare la sua non neutrità.
Invece ha un luogo e una paternità di nascita, quella sulle donne in particolare: maschile. Ed ha un silenzio sempre maschile nei partiti e nei cleri quando si tratta di guardare in faccia gli autori della violenza. Ancora oggi.
Un silenzio che nel 2006 si incrinò con il Manifesto di alcuni uomini, che raccolse più di un migliaio di firme, contro la violenza maschile alle donne che aveva un titolo molto significante”La violenza contro le donne ci riguarda: prendiamo la parola come uomini”. Quegli uomini non violenti avevano smesso di fuggire da quel grumo che sta dentro ogni uomo e lo guardavano in faccia. Prendendo le distanze anche dagl’altri non violenti ma comunque silenziosi che non sanno affrontarsi tra loro, pubblicamente, per disconoscerla. Quegli stessi uomini rompevano nel 2006 un cerchio di omertà maschile. Un simbolico nuovo maschio, molto differente e importante per la libertà degli uomini dal grumo della violenza, iniziava a vedere la luce. Anzi, nel manifesto, chiedevano agli altri uomini di rifletterci sopra ognuno a partire da sé e il 21 novembre scorso, con la loro Associazione Maschile Plurale, hanno indetto una manifestazione contro gli uomini violenti con le donne. La prima indetta da soli uomini. Ma passata nel silenzio come cade ancora nel silenzio la paternità della violenza alle donne e il desiderio insopprimibile di libertà femminile.
E’la neutrità il dato eclatante da sgretolare che resiste ancora imperterrito in molti cuori maschili e femminili intorno a questa giornata e ai suoi fatti, nonostante si sia aggiunto l’aggettivo maschile alla parola violenza, quando se ne parla.
Ma questo aggettivo, come acqua sul vetro, scivola via dall’attenzione generale che oggi, nella maggior parte dei casi, si compiace nel vedere che riesce a parlarne. Penso a molti Consigli Comunali, Provinciali, Regionali o allo stesso Parlamento in cui magari lo si è fatto, ma non sapendo spesso andare un po’ oltre le donne vittime, come mi è stato riportato da una discussione avvenuta al Comune di Reggio Emilia il 25.









Non si riesce a fermare lo sguardo sugli autori delle violenze come compagni di viaggio. Ci si ferma sugli oggetti e non sui soggetti che compiono l’azione violenta. E si sprecano i compiangimenti e le richieste di attenzione e di finanziamenti, giusti e sempre inferiori al bisogno, per proteggere le donne vittime. Senza rendersi conto che i finanziamenti dovrebbero crescere a progressione geometrica se non si ferma lo sguardo su chi opera la violenza: gli uomini.
Persino quelli del centrodestra hanno fatto loro il tema, ma per usarlo a scopi quasi razzisti dimenticandosi della casalinghità globale della violenza alle donne, e le loro donne lo hanno accettato. O per cercare di continuare a negare, proprio in questi giorni, la pillola abortiva alle italiane, convinti che le donne con quella soffrano troppo poco. Sono molte le sfaccettature maschili alla violenza, anche in chi ci governa e che invece proprio perché governa dovrebbe proteggere da qualsiasi violenza tutti, anche le donne.
Invece nei discorsi generali e ufficiali sulla violenza alle donne, il sesso degli autori scompare, invisibile a sé e agli altri, come alle molte donne imitative di cui parla Galimberti.
C’è un errore delle donne sulla neutrità ancora attuale della violenza, che dovremmo guardare meglio come donne? Credo di sì. E’quello di sentire la violenza sull’altra non anche come sua. Ma solo della vittima. Solo così credo si possa accettare che non si scopra politicamente e clericalmente il sesso dell’autore. E’ su questo che forse dobbiamo lavorare per uscirne. E’ su questo che le donne devono ancora camminare sul terreno della loro identità laica.
Come forse hanno fatto gli uomini del manifesto 2006, dicendo che la violenza sulle donne li riguarda.
Se riguarda loro, riguarda anche le tante donne imitative se la violenza è ancora troppo neutra…
O sbaglio?
Buona manifestazione!


Clelia Mori

27.11.09

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PRESIDENTE, RITIRI QUELLA NORMA DEL PRIVILEGIO



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giovedì 26 novembre 2009

Manifestazione di Maschile Plurale a Roma sabato 21 novembre 2009

di Clelia Mori

Silenzio. Lo stesso silenzio che sperimentiamo come donne e come cittadine all’interno di un sistema di potere, di informazione/disinformazione nel quale vorremo esistere tra riflessioni e dialogo, ha aleggiato e aleggia intorno alla manifestazione maschile avvenuta sabato 21 a Roma. E mi chiedo il perché.


Ho cercato, con abbastanza cura in rete, segnali femminile sperandoli persino positivi sulla manifestazione voluta dagli uomini dell’Associazione Maschile Plurale contro la violenza maschile alle donne -la prima indetta da maschi contro i maschi violenti con le donne- e non li ho trovati. C’è un articolo, il solo che ho trovato, su Il paese delle Donne, tra il risentito e il contento, di Paola Zaretti e un altro di Marina Pivetta, sempre sul sito.
Non capisco come mai non notiamo un nuovo che ci accade intorno? E mi chiedo che succede o se invece sono io che mi illudo facilmente, ponendomi delle aspettative irreali? O se abbiamo paura? Sono appena tornata dall’ospedale e non sono potuta andare. Ma da quando ho saputo di questa manifestazione da Stefano Ciccone, a Roma all’assemblea indetta da Ida Dominijanni e altre, ho continuato a chiedermi come avrei potuto andare e come sarei riuscita a farcela. Perché volevo esserci ad una manifestazione che auspicavo già al ritorno da quella ormai famosa, a Roma del 2007, contro la violenza maschile alle donne. Quella che ha fatto discutere per il tentativo del potere partitico femminile di attribuirsi i vantaggi del suo successo ma anche quella che ha rifiutato ancora, allora, la partecipazione di quegli uomini che condividevano il no delle donne sugli uomini violenti.
Mi ricordo che in corriera con un’amica ci dicevamo, incredule che potesse accadere, che la prossima manifestazione l’avrebbero dovuto indire gli uomini per segnare il cambio di passo su di un tema che aveva come soggetto gli uomini e come oggetto le donne e che se gli uomini non ne prendevano coscienza non ci si schiodava dalla situazione, come donne. Perché il problema era loro. L’ho anche scritto questo nostro desiderio e da qualche parte, penso al sito Dea Donnealtri, si trova. Così come si trova anche l’idea che tra di loro, nell’associazione Maschile Plurale, proprio quella mattina del 2007 incontrandosi per capire che fare a proposito della loro esclusione dalla manifestazione, ne avevano parlato.
E’ vero, non è che in questi due anni ci siano state tante voci che lo desideravano e lo esprimevano. Ma pensavo che, se ci sono uomini che rompono il cerchio di omertà maschile e finalmente non temono di esporsi pubblicamente nei confronti del loro stesso gruppo di maschi, potessero avere, da parte nostra, una qualche considerazione maggiore su di un iniziale cambio di passo simbolico che ci riguardava da vicino.
Se penso poi all’estate bollente dei nostri politici di destra e di sinistra e al “disordine” che hanno espresso sulla confusione maschile tra sesso potere soldi relazione col femminile –produzione riproduzione- mi pareva proprio che ora questa distinzione tra maschi cadesse a fagiolo e che finalmente aprisse sul maschile quella contraddizione che gli uomini in genere e non solo quelli della politica fanno fatica ad esprimere. Quando si fanno bastare il pensiero che loro sono diversi dai signori Berlusconi e Marrazzo e non hanno bisogno di dirlo pubblicamente e non dicendolo continuano a proteggere quell’omertà silenziosa tra uomini che garantisce la continuità del loro modello sociale, anche se di crisi perenne.
Se non si riesce a cogliere il nuovo di questo fare che parte proprio dal dato maschile più eclatante, l’esercizio della violenza, nella relazione col femminile, non so proprio come potremo relazionarci, ognuno ognuna a partire da sé, sul resto delle profonde contraddizioni che il patriarcato maschile, ancorché in crisi o finito, ha imposto alla società e a noi donne.
Come potremo valutare o strutturare una comunicazione sul resto delle tematiche che ci interessano se non mettiamo in discussione con loro il modello di base da cui i più prendono le mosse per definirsi e definirci? Penso al legame tra lavoro e vita che come donne vorremmo cambiare e al doppio sì nostro su lavoro e maternità e a come faremo a modificarlo se non cogliamo i cambiamenti anche minimi che accadono sull’altro versante del nostro vivere.
Paolozzi e Leiss hanno scritto in “La paura degli uomini. Maschi e femmine nella crisi della politica” che le donne sono cambiate e gli uomini dovranno farlo. Ma come faremo ad accorgerci dei cambiamenti che avvengono tra gli uomini, se ce ne disinteressiamo? Tra l’altro il femminismo ci ha abituate a leggere tra le pieghe del quotidiano i cambiamenti anche minuscoli delle donne che la società dei media nasconde o non riconosce e all’improvviso perdiamo quest’abitudine alla lettura della realtà se a fare minimi cambiamenti sono gli uomini? O siamo invece convinte che ce la faremo anche se gli uomini non cambiano? Ma non possiamo cambiare noi sole e gli uomini stare fermi. Vorrebbe dire che loro vanno già bene così e noi sappiamo che non è vero, ma non solo perché lo diciamo noi che siamo cambiate, lo dice la crisi del mondo che loro hanno immaginato per tutti/e.
Certo una rondine non fa primavera e molto abbiamo sopportato nei secoli e nei millenni dal potere maschile. Ma questo non ci esime dal non vedere quel che accade. A meno che non ci muoviamo come hanno fatto loro col femminismo e anche noi scegliamo di non vedere. Ma perchè? Noi, siamo così? Non lo credo a meno che non vogliamo restare legate alla condizione di vittime che la violenza maschile ci impone senza cogliere i profondi cambiamenti che noi stesse abbiamo messo in atto.
No. Noi non siamo come gli uomini della politica o come le donne “imitative”anche se la paura di illuderci può farcelo fare: di non vedere. Ma non ce lo possiamo permettere. C’è troppo disordine sotto al sole per poterci concedere questo inutile lusso.
Mi pare di sentirci ripetere che è talmente tanto tempo che gli uomini non si muovono che non è il caso di stare a preoccuparci perché hanno indetto per una volta una manifestazione contro la violenza maschile alle donne…
Ho sperimentato da molto tempo questa sordità maschile alla voce dissonante e critica delle donne in politica e ho visto la distruzione a diffusione geometrica che sono riusciti ad attuare con questa innaturale sordità, più pericolosa perchè voluta. Non credo che come donne possiamo anche involontariamente percorrere le loro stesse strade.
Parliamo, parliamone di quello che accade. Come abbiamo sempre fatto. Indipendentemente da chi lo fa accadere e dai nostri rancori.
Il silenzio non rafforza i poteri, quello dei maschi sul loro presunto potere lo sta distruggendo…

Clelia Mori

23.11.09

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martedì 24 novembre 2009

Nondasola, in occasione della giornata internazionale contro la violenza alle donne

Mercoledì 25 Novembre al Cinema Rosebud Ore 10.00 (con ingresso riservato alle scuole su prenotazione)e Lunedì 30 Novembre al Cinema Al Corso Ore 20,30 (a seguire sarà proiettato il film ‘Racconti da Stoccolma’. Un film di Anders Nilsson - Svezia 2006) --> in occasione della giornata internazionale contro la violenza alle donne, l’Associazione Nondasola in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura e l’Assessorato alle Pari Opportunità del Comune di Reggio Emilia presenta il VIDEO ‘Ci metto la faccia. Ragazzi e Ragazze contro la violenza alle donne’ promosso e curato dall’Associazione Nondasola, con la regia di Alessandro Scillitani e finanziato da Coopsette.


L’Associazione Nondasola dedica molte energie alle azioni per cambiare la cultura che giustifica la violenza alle donne attraverso interventi di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e di prevenzione, a partire dalla scuola. 5200 studenti/esse hanno partecipato dal 1999 ai laboratori del Progetto In-differenza, dell’Associazione sperimentando una possibilità di cambiamento che può essere praticata a partire da sé, dalla propria differenza perché non si perpetui la violenza di un genere sull’altro e l’indifferenza non occulti la violenza. Il video é il prodotto di un progetto biennale realizzato con studenti e studentesse di diverse scuole: Istituto Statale Magistrale, Liceo Moro, Istituto Zanelli, Ist. Professionale Galvani.

La scommessa é stata quella di incrociare gli sguardi e i vissuti dei ragazzi e delle ragazze con il contesto culturale nel quale vivono la loro quotidianità.

Non ci siamo proposte di dare soluzioni o definizioni ma di lasciare fluire liberamente voci, parole, sguardi e corpi degli adolescenti, la loro spontaneità e freschezza, per permettere loro di posizionarsi rispetto al tema della violenza anche in modi spiazzanti, che possono mettere in scacco e destabilizzare ma che non possono non stimolare a una riflessione, fare sorgere un dubbio, una domanda, spronarci ad ‘andare più a fondo nelle pieghe’.
Il video, della durata di 30 minuti, rappresenta uno strumento di sensibilizzazione sul tema della violenza a partire dal punto di vista degli adolescenti, che, troppo spesso, nell’immaginario collettivo, vengono rappresentati come ‘nichilisti, enigmatici, immaturi’ ma che, altrettanto spesso, esprimono il bisogno che qualcuno li ascolti, sospendendo il giudizio, che qualcuno dia loro fiducia e valorizzi ciò che hanno da dire, che riconosca loro la possibilità di essere sé stessi, di dirsi liberamente nelle loro contraddizioni ma anche nei loro desideri, sogni, aspettative e pensieri.
L’invito per queste due date é quello di ‘tendere le orecchie, porsi, silenziosi/e, in ascolto di ciò che ragazzi e ragazze avranno da raccontarci.’



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LA CHIESA TACE SUL NATALE ARIANO DI COCCAGLIO

di Enzo Mazzi, da Il Manifesto on line

Quest'anno la mangiatoia del presepio sarà vuota. Il Bambinello, eterno immigrato clandestino, sceso dalle stelle nel ventre di una fanciulla illegale, non sposata, nato in una stalla in terra straniera, deposto in una mangiatoia, è stato sequestrato dall'operazione White Christmas, Bianco Natale, della giunta leghista di Coccaglio.
Erode a suo tempo arrivò assai tardi.

La mangiatoia aveva avuto il tempo di accogliere il neonato destinato a rubare al re il trono e le ricchezze. Fece una strage di bambini ma il clandestino non c'era più. Ora si è fatto molto furbo e ha pensato bene di agire in modo preventivo.
Il Natale quando arriva ha da essere libero da tutti i clandestini. «Perché - come afferma l'Assessore alla sicurezza del piccolo comune bresciano, Claudio Abiendi - Natale è una festa della tradizione cristiana, della nostra identità, non la festa dell'accoglienza». «Segno di un'intolleranza parossistica» commentano i responsabili della Caritas. Senza però dire una parola, né loro né altri prelati sempre pronti a intervenire nell'ambito politico per difendere gl'interessi dell'etica oltre che della borsa, sul significato etico del Natale come festa che si oppone agli ingabbiamenti nazionalistici.
La mia riflessione s'imbatte in contraddizioni assai evidenti, lo so bene. Il Natale cristiano è storicamente e teologicamente «cattolico» che vuol dire universale, ma la sua è l'università imperiale. Il battesimo dell'universalità lo ha avuto da Costantino e resta impresso nella struttura sacrale profonda. Allora chiedo che dalla padella del nazionalismo gretto leghista si torni alla brace dell'universalismo imperiale che impone a tutti per legge la simbologia cristiana, compreso il presepio e il crocifisso?
Raddrizziamo dunque il senso del discorso. E proviamo a vedere e vivere il Natale come «accoglienza» della maternità, del «dare vita». Forse lo stesso racconto della natività che leggiamo nel Vangelo più che un racconto storico è l'eco del senso del rifiuto ancestrale che la società «bene» di ogni tempo oppone alla maternità nei suoi valori più alti, al «dare vita» non solo in senso biologico ma in senso culturale ed esistenziale. La cultura patriarcale sfrutta, come si sa bene, la donna, la sua capacità biologica di dare vita, ma rifiuta la cultura femminile della maternità. E così Maria si trovò a partorire in una stalla perché «per lei non c'era posto nell'albergo». Ma nel Vangelo c'è anche il senso dell'accoglienza verso la vita che nasce espresso da realtà emarginate dalla stessa società «bene», ad esempio i pastori.
E questo dell'accoglienza verso la maternità è oggi un problema particolarmente grave poiché il senso della vita si fonda sul possesso, sul danaro, sul successo individuale, sulla competizione di tutti contro tutti, sull'avere anziché sull'essere, fino a poter dire estremizzando un po' che la società in cui si realizza oggi la maternità è dominata dalla tendenza a dare la morte piuttosto che la vita. Per cui le madri, costrette ad andare contro corrente per dare vita in senso pieno, si sentono un po' straniere tutte e non solo quelle che vengono qui da paesi lontani. Le madri sono coccolate, gli si danno sussidi e sostegni, ma sono poco più che contentini perché la loro vita si fa sempre più difficile.
Le madri, anche quelle di Coccaglio, si sentono e sono tutte «straniere/migranti». Dare la vita è un'esperienza che pone in condizione obiettiva di estraneità rispetto alla cultura dell'alienazione, dell'esclusione, della guerra, e al tempo stesso dare la vita è dare impulso alla transizione (la migrazione) sognata e voluta da tante e da tanti verso una cultura della vita, della nonviolenza, della pace universale.
L'emersione della cultura femminile, il «dare vita», il sognare un mondo in cui «il bambino lattante possa stendere la sua mano nella tana della vipera» (la profezia di Isaia), l'affermarsi della soggettività femminile in ogni ambito della società, sono la nostra principale risorsa. Il Natale in questo senso è donna.
Buon Natale.

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domenica 22 novembre 2009

«No B Day»: niente partiti scegliamo il viola



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IL TESTO DELL’APPELLO
A noi non interessa cosa accade se si dimette Berlusconi e riteniamo che il finto “Fair Play” di alcuni settori dell’opposizione, costituisca un atto di omissione di soccorso alla nostra democrazia del quale risponderanno, eventualmente, davanti agli elettori. Quello che sappiamo è che Berlusconi costituisce una gravissima anomalia nel quadro delle democrazie occidentali -come ribadito in questi giorni dalla stampa estera ce definisce la nostra “una dittatura”- e che lì non dovrebbe starci, anzi lì non sarebbe nemmeno dovuto arrivarci: cosa che peraltro sa benissimo anche lui e infatti forza leggi e Costituzione come nel caso dell’ex Lodo Alfano e si appresta a compiere una ulteriore stretta autoritaria come dimostrano i suoi ultimi proclami di Benevento.

Non possiamo più rimanere inerti di fronte alle iniziative di un uomo che tiene il Paese in ostaggio da oltre15 anni e la cui concezione proprietaria dello Stato lo rende ostile verso ogni forma di libera espressione come testimoniano gli attacchi selvaggi alla stampa libera, alla satira, alla Rete degli ultimi mesi. Non possiamo più rimanere inerti di fronte alla spregiudicatezza di un uomo su cui gravano le pesanti ombre di un recente passato legato alla ferocia mafiosa, dei suoi rapporti con mafiosi del calibro di Vittorio Mangano o di condannati per concorso esterno in associazione mafiosa come Marcello Dell’Utri.

Deve dimettersi e difendersi, come ogni cittadino, davanti ai Tribunali della Repubblica per le accuse che gli vengono rivolte.

Per aderire alla manifestazione, comunicare o proporre iniziative locali e nazionali di sostegno o contattare il comitato potete scrivere all’indirizzo e-mail:

nobdaysupporto@gmail.com


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LETTERA DI MASCHILEPLURALE ALLE DONNE IN OCCASIONE DEL 25 NOVEMBRE


Care amiche e compagne,

in questi giorni si sono susseguite notizie sulle manifestazioni e iniziative di novembre contro la violenza di genere e contro la cultura in cui questa violenza nasce e cresce. Non possiamo che essere felici di questo moltiplicarsi di iniziative che, ci pare, non sono in contraddizione con la necessità di un lavoro più profondo e quotidiano ma ne sono l’esito.

Per la nostra esperienza di uomini sappiamo che la visibilità sociale di parole diverse dalla norma imposta sono una risorsa anche per il percorso personale di ognuno e ognuna di noi.
L’associazione maschile plurale e la rete nazionale di gruppi di uomini impegnati non solo contro la violenza ma per la costruzione di una critica dei modelli dominanti di “virilità” hanno deciso di proporre un’iniziativa nazionale a Roma. Vi scriviamo per spiegarvi il senso della nostra iniziativa e per riflettere insieme sulle forme di relazione che possiamo costruire tra i nostri percorsi per nella loro disparità di dimensione e visibilità.

Abbiamo deciso, come uomini, che fosse ormai necessario assumerci la responsabilità e al tempo stesso la libertà di prendere un’iniziativa in autonomia che non si limitasse alla firma di un appello ma che vedesse la costruzione di uno spazio collettivo, di una pratica visibile che mettesse in gioco i corpi, che costruisse relazioni nuove.

Negli anni scorsi c’è stata spesso una discussione sull’opportunità di una presenza degli uomini alle mobilitazioni delle donne. Non vogliamo entrare nel merito di questa discussione né liquidarla condividendo la sua complessità. Diciamo solo che vogliamo evitare che focalizzi le nostre energie e la nostra attenzione.

Anche per questo abbiamo deciso di offrire e proporre agli uomini che vogliano esprimere il loro desiderio di cambiamento uno spazio e un percorso autonomo proponendo un’iniziativa costruita e pensata da noi ma, ovviamente, aperta alle donne e a tutte le soggettività impegnate nella critica alle forme dominanti di costruzione delle identità di genere e relazioni gerarchiche tra i sessi. Vorremmo che la preparazione della giornata del 21 novembre a Roma fosse occasione per un percorso di confronto, con la molteplicità delle esperienze del femminismo italiano e del movimento lgbt. Vi chiediamo di costruire insieme sia la presenza e la comunicazione nella piazza che l’organizzazione di incontri preparatori nelle città.

Il nostro impegno, la nostra pratica non sono per noi un mero gesto di solidarietà o di assunzione di responsabilità. Non crediamo di tratti di “questioni di donne”. Al centro, per noi c’è una questione maschile su cui è necessaria una parola e una pratica maschile pubbliche.

La nostra presenza in Piazza Farnese il 21 novembre prevede non un comizio o un corteo ma uno spazio circolare e orizzontale dove proporre interventi individuali, letture di brani, contributi musicali. Dove raccontare esperienze e affrontare temi su cui, come rete di gruppi maschili e come associazione maschile plurale stiamo lavorando: dalla progettazione di attività didattiche nelle scuole alla riflessione sulla prostituzione e la tratta, dal lavoro concreto contro la violenza fatto nelle città alla riflessione sul nesso tra sessualità, potere e denaro nelle relazioni tra donne e uomini.

Ogni gruppo sarà inoltre presente il 25 novembre distribuendo nella propria città un messaggio “da uomo a uomo” nelle strade e contribuirà alle tante iniziative promosse da centri antiviolenza, associazioni e collettivi.

Saremo felici di poter costruire con voi un percorso condiviso di confronto e comunicazione che possa anche prevedere, nelle giornate del 28 e del 21 novembre, forme concrete di relazione tra le nostre iniziative.

Maschileplurale

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sabato 21 novembre 2009

Contro i misteri

di Carlo Lucarelli, da L'Unità online

La transessuale Brenda, testimone del più recente dei nostri scandali nazionali, assassinata - è l’omicidio l’ipotesi dei magistrati - nella notte: due valigie pronte accanto alla porta d’ingresso, il computer nel lavandino. Ecco, un nuovo «mistero italiano». Che comincia proprio quando - è ancora notizia di ieri - un altro dei nostri misteri, la scomparsa di Emanuela Orlandi, sembra giunto, ventisei anni dopo, a una svolta. Un mistero che comincia, un mistero che forse finirà.

Non voglio fare ipotesi sulla morte di Brenda, né mi azzardo a farne su quanto, nel caso Orlandi, questa «svolta», l’ennesima, sia reale. Credo, però, che esistano delle regole che, se applicate, possono consentire a tutti noi di non vivere più nel «paese dei misteri. Perché i nostri misteri sono speciali. Sono, appunto, «misteri italiani». Nei normali misteri esiste un assassino, per esempio, che non vuole essere scoperto e fa di tutto per nascondere la verità. In questi casi, nei normali misteri, il controinteresse alla verità è l’interesse dell’assassino. Nei misteri italiani c’è dell’altro. C’è un altro controinteresse. Quello di qualche potere forte che, per motivi suoi, non vuole la verità. La prima regola la chiamerei «coerenza d’indagine». Vuol dire che si deve indagare subito, e su tutti i fronti, indagare cioè a 360 gradi, come si dice sempre e raramente si fa, e in modo corretto. Preservando la scena del delitto, utilizzando tutti gli strumenti scientifici idonei ad analizzarla, raccogliendo con tempestività le testimonianze, seguendo subito le piste che si aprono, anche quelle meno facili. E bisogna farlo con coerenza, cioè attraverso la stessa «mano investigativa». Perché all’origine di molti dei nostri misteri ci sono conflitti di competenze, legittime suspicioni, avocazioni, oltre che rivalità tra investigatori. La seconda regola è la «corretta controinformazione». Perché siccome il mistero è «italiano», e il controinteresse non è quello di un normale assassino ma di un potere forte, è necessario che l’informazione diventi contropotere e, cioè, controinformazione. Ma deve essere corretta, deve formulare ipotesi alternative controllate e fondate. Le semplici suggestioni e le dietrologie fanno perdere di credibilità alle ipotesi e, alla fine, contribuiscono a perpetuare il mistero. La terza regola ci riguarda tutti: l’interesse forte e costante, il controllo, da parte dell’opinione pubblica. Proprio perché siamo «il paese dei misteri» siamo anche il paese del mondo che ha il maggior numero di associazioni di familiari delle vittime. Vittime delle stragi della strategia della tensione, vittime del terrorismo, vittime della mafia. Combattono contro i misteri quando, però, essi già si sono consolidati. Possono, purtroppo, agire solo dopo . Un paese con un’opinione pubblica attenta, invece, può intervenire prima . Dobbiamo sentirci tutti «familiari delle vittime» per poter sperare che in futuro non ci siano più vittime dei misteri italiani.

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venerdì 20 novembre 2009

Andrea Camilleri recita 15 nuove poesie incivili - 1a parte



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Il PD e la politica al tempo della crisi

di Alfredo Reichlin, da L'Unità on line

Ho la convinzione che le cose siano ormai tali che gran parte delle dispute che ci hanno finora diviso dovrebbero essere alle nostre spalle. Cito i fatti maggiori solo di sfuggita. A 150 anni da Porta Pia l’unità del Paese è in discussione. Non è poco. Non ci sarà una rottura ma è già in atto una scissione silenziosa.

Occorre quindi che entri in campo una forza capace di ridefinire un nuovo compromesso volto a tenere insieme una delle regioni più ricche del pianeta e regioni povere, di antica nobiltà ma inquinate dal malaffare. Si può affrontare questa sfida senza un partito che per il suo stesso modo di essere rappresenta una rete, una presenza, una cultura nazionale?
Aggiungo una crisi dell’ordine costituzionale che da spazio a eventuali disegni cesaristi. Forse non ci saranno. Ma intanto già oggi è in atto qualcosa di molto grave. Lo Stato di fatto si sta sfarinando in un insieme di consorterie (partiti regionali e poteri più o meno oscuri). È quello che sta avvenendo. I grandi poteri si sono messi in proprio al punto che l’attuale ordine costituzionale con al centro il Parlamento non riesce più a mediare e governarli. Lo stesso Berlusconi ha perso, mi pare, il potere di coalizione.
Tutto chiede quindi che scenda in campo una forza autonoma capace, non solo di fare analisi, da- re interviste e parlare nel pollaio televisivo, ma di ridare una ossatura alla democrazia italiana.
Penso quindi che sia davvero alle nostre spalle un vecchio dibattito correntizio e politologico (centro, sinistra, trattino, non trattino). Torna quella semplice verità secondo la quale l’identità di un partito non si inventa, non discende da una ideologia bensì dalla sua funzione reale. Dall’esse- re necessario non a sé ma al Paese. Un partito non è l’idea di sé. È
uno strumento. Di che cosa? Io non credo che siamo innocenti. Ci siamo occupati poco degli italiani e troppo dei nostri problemi interni (chi comanda). Non è solo colpa della destra se è così cambiato il modo di essere degli italiani: la scissione silenziosa di una larga parte del Nord, l’illegalità diffusa, la paura del diverso, le nuove povertà accanto alla formazione di ricchezze e di stilli di vita quali dopo l’età feudale, e con l’avvento
dei diritti dell’uomo e del cittadino non si erano più visti. In Italia ci sono ormai cinque milioni di emi- grati. Una nuova razza di schiavi. Aggiungo una sorta di “tabula rasa” per ciò che riguarda la consapevolezza della propria storia, e quindi dei valori a cui attingere. Sembra che gli italiani siano alla ricerca di nuovo vincolo fondativo. Chi glielo dà? Noi? La destra e una certa Chiesa ci stanno provando. È chiaro quindi qual sia il nostro compito: essere l’espressione di una nuova “idea nazionale”. Il modello socialdemocratico non c’entra niente. Il partito si chiama “democratico” non solo perché i gruppi al suo interno si confrontano ricorrendo al voto ma perché costruisce una nuova unità del popolo italiano. Il che non è una banalità. Perché la forza della destra consiste proprio in questo: la divisione, la rissa, la lotta di tutti contro tutti e quindi l’impotenza, l’impossibilità di cambiare. Per cui l’opposizione può proporre i programmi più belli ma in questa lotta di tutti contro tutti nessun disegno di me- dio periodo è realizzabile.
Peccato che Rutelli non si sia ac corto che le vecchie dispute tra Stato e mercato, destra-sinistra non dicono nulla. È assolutamente vero che anche il tempo di quello che è stato chiamato lo Stato dei partiti è finito. Non si può più governare solo in nome di un blocco sociale. Non solo, ma governare significa dettare regole e arbitrare una crescente complessità e varietà di poteri (non solo economici). Il che comporta l’uso di agenzie e di strumenti di conoscenza che i partiti non hanno. Ma sarebbe fallimentare l’idea che basti mettere al posto dei vecchi partiti uno strumento essenzialmente di propaganda dove non conta la militanza organizzata.
Non credo che parli in me il rimpianto per il Pci. Parla piuttosto il bisogno di una struttura diversa dove sia possibile elaborare un progetto politico collettivo e un sistema di idee condivise. Non bastano il consenso elettorale e i “Capi” carismatici. So benissimo che non si possono rifare i vecchi partiti, ma c’è poco da fare: un organismo che sia fattore di guida anche morale della comunità è oggi più che mai necessario. Parlo di uno strumento capace di mobilitare forze, intelligenze e passioni e quindi radicato nella società e nella storia del Paese.
In mancanza di ciò dobbiamo sapere quale prezzo si paga. È molto grande. È la rinuncia a prendere decisioni autonome. Ci condanniamo a ballare una musica scritta e suonata da altri. Chiedo a Bersani: la concretezza va bene; ma, nel partito che tu immagini, dove si possono pensare e discutere le possibili alternative?
Per concludere, io penso che siamo di fronte a un vero e proprio problema di “rifondazione” della politica. Con l’obiettivo di ridare alla politica stessa il valore di strumento che organizza la libertà degli uomini e che quindi consente ad essi di decidere del proprio destino. Io penso che bisognerebbe parlare così alla nostra gente. Di che cosa abbiamo paura? Di apparire troppo radicali? Ma la radicalità non sta in noi, bensì nei problemi reali intorno a noi. Basta vedere con quale disinvoltura una ristretta oligarchia ha rapinato le ricchezze del mondo. Oppure come la scienza ha spostato il confine tra la morte e la vita. È su cose come queste che si ridefiniscono le ragioni di un grande partito democratico. Si invoca retoricamente il “nuovo” ma il nuovo è questo. È riprendere finalmente il proprio posto nel cuore del conflitto e delle contraddizioni del Paese.


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giovedì 19 novembre 2009

14 Novembre '09 - Fototeca e ringraziamenti!


Siamo molto content* dell'incontro di sabato, c'è stato dibattito vero. Alberto Leiss e Letizia Paolozzi, soliti ad incontri, ci hanno detto che era la prima volta in assoluto che partecipavano ad un incontro così organizzato e partecipato. Gli stimoli dati dalle letture hanno dato la possibilità , anche a chi il libro non l'aveva letto, di condividerlo, e poi l'argomento è certamente molto sentito.
Per questo vogliamo ringraziare veramente tutti i presenti.
Anticipiamo a grandi linee il prossimo tema che sarà sul lavoro di uomini e donne, partendo dal manifesto "Immagina che il lavoro" pubblicato da Sottosopra, ci saranno naturalmente altri interventi ancora da definire.

f.to: 6donna (Luisa Ferrari, Carmen Marini, Carla Colzi, Clelia Mori, Tina Romano e Manuela Pecorari), Reggio Fahrenheit e Nondasola.

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Due video sull'evento del 14.11 scorso: le donne sono cambiate





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mercoledì 18 novembre 2009

Il mio dissenso

di Rossana Rossanda, da Il Manifesto online

Non è un incidente se il manifesto, che si definisce ancora «quotidiano comunista», ha elegantemente glissato sul ventesimo anniversario del 1989; non per distrazione, ci strillano da vent'anni che la distruzione del muro di Berlino segnava la fine del comunismo, «utopia criminale».

Noi su quella «utopia» ambiziosa eravamo nati, ed eravamo stati i primi a denunciare nella sinistra che con essa avevano chiuso da un pezzo i «socialismi reali». Li denunciavamo nell'avversione del partito comunista e nella scarsa attenzione delle cancellerie e della stampa democratiche. Il movimento del '68 ne aveva avuto un'intuizione, ma non il tempo né la preparazione per andare oltre.
Avevamo aggiunto che almeno dalla crisi del 1974 l'egemonia dell'occidente non mirava più alla messa a morte del comunismo, ma a quella del compromesso socialdemocratico nella sua veste keynesiana. Questo ammetteva che il conflitto tra capitale e lavoro era intrinseco al sistema e per evitare involuzioni fasciste occorreva garantire il lavoro dipendente e una parte consistente di beni pubblici. Se no anche la società europea sarebbe andata, nell'ipotesi migliore, a quella che non Lenin ma Hannah Arendt aveva definito un'americanizzazione fondata sulla libertà politica e la schiavitù sociale. Non è fin risibile, tutt'al più dipietresco, battersi contro le derive autoritarie e presidenzialiste di Berlusconi, e non solo, quando dalla metà degli anni settanta sono tornate a risuonare come novità le trombe di Von Hajek, la correzione rooseveltiana è stata definita, anche dalla nuova sinistra, statalista dunque fascistizzante, e sul «meno stato più mercato» nonché «la crisi fiscale dello stato sociale» si divagava anche sulle nostre pagine, mentre l'Unione europea si avviava con una liberalizzazione dopo l'altra? 
E come si poteva non chiedersi, alla luce di questo esito, perché il gigantesco tentativo del 1917 era finito così? L'errore era cominciato quando, perché, dove? Stava in Stalin, in Lenin, in Marx? Cioè nella ipotesi stessa che fosse possibile una società libera non sovradeterminata dalla proprietà e dal mercato? Eppure, dopo la prima rivista del manifesto, i primi anni del giornale e i convegni del 1978 e del 1981, non ce lo chiedemmo più. Possiamo darci tutte le giustificazioni, per prima la difficoltà a sopravvivere come testata, ma era una resa non confessata all'egemonia della destra, del neoliberismo, dunque dei neocon negli Usa, e della Commissione in Europa. Malamente nascosta dall'esorcismo: sono problemi del novecento, oggi sono superati dalle nuove realtà e dalle soggettività delle nuove generazioni. Come se le une e le altre ne avessero risolta almeno una. Come se oggi il presidente degli Usa, Barack Obama, non vedesse dimezzata dalle lobbies e dai poteri sistemici che pesano sul suo stesso partito, la sua riforma sanitaria, non fosse inchiodato in Medioriente e riuscisse a eliminare una sola delle pratiche che hanno dato origine alla crisi finanziaria del 2008.
La sinistra è a pezzi e noi non stiamo meglio. Né come finanze, né come peso nell'opinione, né fra di noi. «Isoletta socialista», senza padroni, non ci troviamo di fronte a qualcosa che avevamo già intravisto nei socialismi reali: produttività scarsa, demotivazione, fine di un progetto comune, ciascuno per sé, insofferenza verso gli altri? Quando ho lasciato la redazione nel 1993, battuta dall'assemblea la proposta di applicare una piccola dose di Marx anche a noi stessi, ho sperato che le cose ci avrebbero fatto crescere, che occorreva calma e pazienza. Il 10 novembre mi sono finite tutte e due. Datevi una mossa.

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ALLE DONNE REGGIANE

Il 24 e 25 maggio scorsi l’anfora, simbolo della Staffetta di donne contro la violenza sulle donne promossa dall’UDI nazionale, è arrivata anche a Reggio Emilia grazie all’impegno di Donneinsieme, Associazione Nondasola, Associazione Gruppo Archivio UDI di RE e l’adesione di diverse altre associazioni/enti.
L’iniziativa, partita il 25 novembre 2008 da Niscemi dove è stata uccisa Lorena, stava attraversando tutta l’Italia coinvolgendo migliaia di persone in un dibattito che metteva al centro il tema della violenza domestica contro le donne e più in generale per dire che la violenza sessuata stravolge i rapporti tra i generi.
Si può seguire il suo percorso di parole e immagini nel sito dedicato www.staffettaudi.org
Il 21 novembre prossimo a Brescia, dove è stata assassinata Hiina ed è stata scelta come sede conclusiva di questo evento durato un anno, si terrà una manifestazione nazionale dalle ore 15.00 alle ore 18.00.
Anche le donne di Reggio saranno presenti per testimoniare la volontà di continuare a sostenere un impegno concreto nell’aiutare le vittime della violenza e allo stesso tempo un impegno culturale per prevenirla.
Il pullman partirà alle ore 11,30 dal parcheggio di fronte al Tribunale in via Paterlini, il rientro è previsto per le ore 20,30.
L’iniziativa è autofinanziata perciò sarà richiesto un contributo per le spese.

Per informazioni e iscrizioni:
massimilla.rinaldi@fastwebnet.it cell 380 3595665 oppure 0522 558881

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domenica 15 novembre 2009

Funzioni materne e funzioni paterne a casa e al nido: primi elementi per una riflessione

Vi proponiamo questo nostro lavoro del '96, come contributo alla discussione sul maschile e femminile oggi, a Reggio Emilia: Dino Angelini e Deliana Bertani

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venerdì 13 novembre 2009

Le donne sono cambiate. Gli uomini dovranno cambiare - 3

Dino Angelini


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martedì 10 novembre 2009

Dopo il muro. Fra attese e realtà

di Luciana Castellina* , dalla rivista on line Nuvole.it

Vorrei concedermi – e me ne scuso – una breve nota autobiografica. Mi è necessaria affinché, chi di quei tempi antichi che sono ormai gli anni a cavallo fra i ’60 e i ’70 non può avere memoria (o ha scelto di non averla), non sia spinto a pensare che io sia una incallita ortodossa conservatrice comunista. Perché dico che l’‘89 non è la data di una gioiosa rivoluzione libertaria, ma un passaggio assai più ambiguo e gravido di conseguenze, non tutte meravigliose.
nsomma: per sgomberare il campo da possibili equivoci voglio ricordare che io, assieme ad altri, dal PCI fui, nel ’69, radiata anche perché ritenevo che il sistema sovietico fosse ormai irriformabile e non più difendibile. Molti di coloro che nei paesi dell’est si battevano per libertà e democrazia sono stati del resto interlocutori diretti (e a lungo esclusivi) della rivista cui demmo vita, Il Manifesto.

Vent’anni dopo, nell’‘89, era ancora più chiaro che, se il comunismo poteva avere ancora un futuro (come noi pensavamo), non era certo in continuità con l’esperienza sovietica. Una rottura era dunque indispensabile, ma non una qualsiasi. In merito più che mai necessaria appariva una riflessione critica di tutte le forze che a quella storia si erano ispirate se volevano avere ancora un ruolo. Che invece non ci fu.

Se insisto nel dire – e oggi, ad altri vent’anni di distanza è ancora più evidente – che in quell’autunno dell’‘89, vi fu certo liberazione da regimi diventati oppressivi, ma non una risolutiva liberazione, è perché il crollo del Muro si verificò in un preciso contesto: non per la vittoria di forze animatrici di un positivo cambiamento, ma come riconquista da parte di un occidente che proprio in quegli anni, con Reagan, Thatcher e Kohl, aveva avviato una drammatica svolta reazionaria.

Quanto seguì non fu infatti certo glorioso. Al dissolversi del vecchio sistema si fece strada, arrogante e pervasivo, il capitalismo più selvaggio e ogni forma di aggregazione nella società civile, espressione di qualche valore collettivo, venne cancellata, lasciando sul terreno solo ripiegamento individuale, egoismi, prepotenza, quando non peggio. Non solo ad est della ormai ex cortina di ferro, del resto, ma anche dal nostro lato. Perché anche qui da noi, la morte del socialismo sovietico è stata vissuta come rinuncia ad ogni ipotesi di cambiamento. Persino un liberal democratico come Bobbio, che certo comunista non era, ebbe – lucidamente – a preoccuparsene.
Non era scontato che andasse così. La storia non si fa con i se, né può essere accusato il destino “cinico e baro”. Se è andata così non è per caso, ma è per precise responsabilità di cui tutti, chi più chi meno, portiamo il peso. Voglio solo dire che c’erano altri scenari possibili e che a quel risultato si è invece arrivati perché si era nel frattempo consumata una storica sconfitta della sinistra a livello mondiale, e il 1989 è una data che ci ricorda anche questo. Se il Pci avesse operato la rottura che poi operò nel 1981 con il sistema sovietico quando noi lo avevamo chiesto, in quegli anni ’60 in cui i rapporti di forza stavano cambiando a favore delle forze di rinnovamento in tutti i continenti, sarebbe stata ancora possibile una uscita “da sinistra” dall’esperienza sovietica, non la capitolazione al vecchio che invece c’è stata.
Già all’inizio degli anni ’80 il mondo era cambiato, alla fine del decennio era ulteriormente peggiorato.
Nel terzo mondo i paesi di nuova indipendenza, che avevano cercato di sottrarsi al neocapitalismo, erano ormai largamente finiti nelle mani di corrotte cosche “compradore”, affossate quasi ovunque le grandi speranze che avevano animato i movimenti di liberazione che li avevano portati all’indipendenza.
Il solo paese che aveva ostinatamente cercato di seguire un modello diverso da quello imposto dalla burocrazia moscovita, la Jugoslavia, si trovava – morto Tito – alla vigilia di un conflitto interno che l’avrebbe dilaniata. Sotterrata, anche, l’illusione accesa dallo schieramento di Bandung di cui Belgrado era stata animatrice e che per qualche decennio aveva realmente contribuito a limitare l’arroganza delle due grandi potenze.
Il movimento operaio, in occidente, era costretto a una linea difensiva per impedire che le conquiste dei decenni precedenti fossero rimangiate (e infatti lo furono). Il ’68, appariva ormai addomesticato dalla rivoluzione passiva che i ceti dominanti erano riusciti a effettuare, integrando quanto in quello straordinario movimento c’era di indolore e cancellando ogni suo segno alternativo.
La leadership socialdemocratica europea – Brandt, Palme, Foot, Kreisky – che aveva coraggiosamente puntato a rimuovere la cortina di ferro col dialogo anziché con la minaccia militare, ovunque ormai scomparsa dalla scena, espulse dall’o.d.g. le proposte di denuclearizzazione almeno della fascia centrale europea.

In Italia, si collocava un Pci che prima aveva troppo tardato a prendere atto della crisi sovietica, e poi aveva accantonato il tentativo cui Berlinguer, prima della sua morte improvvisa e inaspettata, aveva lavorato: l’idea di non trarre “dall’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre” conclusioni liquidatorie di ogni ipotesi alternativa, ma anzi, l’indicazione di una possibile “terza via”, ipotesi sulla quale aveva del resto intrecciato un fruttuoso scambio anche con settori importanti della socialdemocrazia. Proprio dalla caduta del Muro, il Pci, il più grande partito comunista dell’occidente, ancora forte di quasi due milioni di iscritti e di quasi un terzo dei voti, prendeva spunto per proporre il proprio scioglimento, accingendosi ad una frettolosa abiura. Laddove, proprio in Italia, a differenza di altri paesi, sarebbe stato invece possibile un altro tipo di svolta: perché la rottura con l’Urss si era ormai consumata da tempo e la critica ai sistemi che aveva generato non più patrimonio di piccole minoranze (come per molti versi era stato, vent’anni prima, all’epoca della radiazione del gruppo de Il Manifesto), bensì di una larga maggioranza di iscritti al partito e di elettori. Non c’era voluta la caduta del Muro, insomma, per svelare il fallimento, quanti credevano ancora nel mito erano a quel punto davvero un’esigua minoranza. Non c’era qui, dunque, nessun bisogno di clamorosi pentimenti, e neppure della frettolosa liquidazione del pensiero, dei valori, delle conquiste che costituivano il patrimonio del partito. E così è stato inferto un colpo durissimo alla memoria collettiva, alla soggettività di milioni di donne e di uomini. Avrebbe potuto invece essere l’occasione, finalmente, per una riflessione critica sulla propria storia che così non c’è stata. Non credo sia un caso se anche i posteriori tentativi di dar vita a partiti di sinistra abbiano prodotto formazioni tanto pasticciate, incapaci di fare i conti con la storia. Complessivamente nessuno sforzo serio di riflettere criticamente su cosa era accaduto per trarre forza in vista di un più adeguato tentativo di cambiare il mondo, ma solo qualche ristagno nostalgico e, altrimenti, la resa a un pensiero unico che indicava il capitalismo come solo orizzonte della storia. Per me e molti altri la data dell’‘89 è anche data di questo lutto.
E’ un discorso che non vale solo per i comunisti, del resto. Per il modo come il Muro è caduto era chiaro che un impatto ci sarebbe stato alla lunga anche sull’altra corrente del movimento operaio, la socialdemocrazia. La cui crisi, sempre più accentuata, è oggi palese testimonianza. Perché è la legittimità stessa di ogni idea di sinistra che è stata messa in discussione. Non solo: anche se i partiti socialdemocratici erano stati sempre molto ostili al blocco sovietico bisogna ben dire che le loro conquiste sociali sono state strappate in Europa anche grazie al fatto che la borghesia era stata costretta a dei compromessi perché c’era una società che, con tutti i suoi difetti, aveva però spazzato via il feudalesimo e la reazione. Senza il vento dell’est quelle conquiste sarebbero state impensabili. È tutta la sinistra, insomma, che da quel tipo di crollo dell’Urss ha sofferto.
Certo, il Muro avrebbe potuto cadere in modi molto più drammatici: incenerito dai missili che proprio in quegli anni ‘80 erano stati installati in tutta Europa, in attuazione della sconsiderata strategia reaganiana cui, con miopia, aveva risposto la corrispettiva installazione di SS20 da parte di Breznev. Se questo scenario devastante non si inverò fu molto – vorrei ricordarlo – per via del movimento pacifista, la più grande mobilitazione giovanile europea dopo il ‘68, che contenne le spinte belliciste e contribuì a far avanzare un negoziato di disarmo che creò lo spazio in cui Gorbachev – vero artefice della caduta del Muro – poté inizialmente muoversi.
Non abbastanza, tuttavia, perché il nuovo leader sovietico, che aveva capito che occorreva cambiare e in fretta, e in questo senso si era mosso con imprevedibile coraggio, non trovò interlocutori ad occidente disposti a costruire quella “casa comune europea” che egli aveva in mente e che avrebbe dovuto essere cosa diversa dalla semplice annessione all’UE dei più obbedienti paesi dell’est. Qualche passo in questo senso lo accennò nel gennaio del ‘90 Jaques Delors, allora presidente della Commissione UE, ma nessuno lo seguì. E così l’‘89 segna la data anche di un’altra sconfitta: quella dell’ambizione europea ad assumere un ruolo, che proprio le aperture di Gorbachev consentivano, nel ridisegnare i rapporti internazionali. E così l’equilibrio bipolare non sfociò in un equilibrio multipolare, diventò semplicemente monopolare.
Se nel nostro pezzo d’Europa ci fosse stata una sinistra più forte e lungimirante, avrebbe potuto cogliere l’occasione dello scioglimento dei due blocchi politico-militari per dare nuova forza al soggetto Europa, così riequilibrando i rapporti di forza nel mondo. E invece la sua debolezza finì solo per avallare una resa incondizionata al blocco atlantico, lasciando tutti alla mercè del dominio incontrastato degli Stati Uniti. La guerra contro l’Iraq, la catastrofe palestinese, e infine l’Afganistan sono lì a provarlo. Quanto alle vecchie “democrazie popolari”, sono tornate allo status vassallo di protettorato a dipendenza del capitalismo occidentale, riservato tra le due guerre all’Europa centrale e balcanica.
L’esempio forse più illuminante di come malamente hanno proceduto le cose è quello dell’unificazione della Germania, che pure era stata sogno legittimo del popolo tedesco. A 20 anni da quell’evento, una inchiesta pubblicata sul settimanale Spiegel ci dice che il 57% dei cittadini della ex Repubblica Democratica Tedesca hanno nostalgia di quel regime. Che francamente non era davvero bello. Vuol dire dunque che l’integrazione è stata solo conquista, e che l’ovest è arrivato come un rullo compressore, cancellando ogni cosa, anche i diritti sociali che lì erano stati sanciti e oggi vengono rimpianti.
Se insisto ancor oggi a sottolineare le occasioni mancate dell’‘89, e i guasti che il non averle colte ha provocato, è perché nell’agiografica euforia con cui viene ora celebrato il ventennale della caduta del Muro anche da una bella fetta della stessa sinistra, c’è qualcosa di anche più pericoloso: lo spensierato seppellimento di tutto il XX secolo, come se si fosse trattato solo di un cumulo di orrori, da dimenticare. Senza alcun rispetto storico per quanto di eroico e coraggioso, e non solo di tragico, c’è stato nei grandi tentativi, pur sconfitti, del Novecento. Non solo: una riduzione gretta del concetto di libertà e democrazia, arretrato persino rispetto alla Rivoluzione Francese, che assieme alla parola liberté aveva pur collocato le altre due significative espressioni: egalité e fraternité, ormai considerate puerili e controproducenti obiettivi. Il mercato, infatti, non le può sopportare.
Io non credo che andremo da nessuna parte se, invece, su quel secolo non torneremo a riflettere, perché si tratta di una storia piena di ombre, ma anche di esperienze straordinarie. Buttare tutto nel cestino significa incenerire anche ogni velleità di cambiamento, di futuro.
In quelle settimane di precipitosa accelerazione della storia che culminò con la fiumana umana che attraversava festosa la porta di Brandenburgo, a Berlino c’ero anch’io. Certo partecipe di quella gioia, come si è contenti ogni volta che un ostacolo al cambiamento viene abbattuto. Ma la libertà vera, quella per cui in tanti che credono che un “altro mondo” sia possibile si battono, quella non ha trionfato. Per questo l’‘89 non è una festa, è un passaggio contraddittorio e difficile. Un’occasione per riflettere.


* Luciana Castellina, giornalista e scrittrice, è stata deputata nazionale e al parlamento europeo

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lunedì 9 novembre 2009

6Donna. Sei donna. Punto. - gruppo di riflessione femminista

Per un pensiero a tutto campo: dalla coscienza di sé, alla differenza, dalla politica al privato, di ieri e oggi.

Un pensiero che ci chiama a un confronto libero tra donne, esplorando i molti e diversi femminismi, e che ci chiede un confronto approfondito con l’altro genere.

Dagli anni ‘60, la pacifica rivoluzione femminile che ha connotato tutto il novecento, ha trasformato, con grande accelerazione, l’immagine e il ruolo della Donna.

Il patriarcato è finito, ma per molti uomini questo fatto è ancora motivo di spaesamento, di identità perduta, di paura e di violenza. Non più debole, sottomessa, priva di autodeterminazione, la Donna è però oggi come bloccata da una idea di parità che si declina puramente in termini di rimozione degli ostacoli normativi, con l’offerta delle pari opportunità e delle azioni positive.

Le politiche di genere agite dalle donne dei partiti sono diventate scandalosamente inutili perché hanno conformato le loro pratiche politiche alle liturgie maschili senza nulla modificare i noti meccanismi spartitori.

Il rifiuto del pensiero delle Donne, la loro emarginazione dai luoghi decisionali, l’indifferenza verso le loro ragioni, hanno come conseguenza una democrazia gravemente sbilanciata, a predominanza maschile, soprattutto nel nostro paese. Anzi possiamo definire la nostra, una vera e propria “androcrazia”, che persino gli Uomini ormai cominciano a trovare gravemente limitativa di una democrazia concreta, e di una piena affermazione degli individui .

Le donne imitative del modello maschile, che paiono vincenti nella cronaca dell’oggi, in politica e nella società, finiscono per rafforzare l’idea che esiste un genere solo, per accettare un’idea ancora troppo neutra delle leggi, del lavoro, della famiglia e della vita quotidiana. E poiché così non è, occorre riflettere, cercare, trovare altro modo di Essere, per Donne e Uomini.



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sabato 7 novembre 2009

La riforma del gattopardo

di Alessandro Dal Lago, da Il Manifesto on line

Ogni discussione seria sulla situazione dell'università (e quindi sul Ddl Gelmini) non può che partire da un accordo preliminare sulla funzione dell'istituzione accademica. Da un paio di secoli circa, qualsiasi università degna di questo nome si basa su un presupposto semplice: l'unico fine che la formazione superiore dovrebbe servire è la conoscenza in quanto tale. Da Kant e Wilhelm von Humboldt al cardinale Henry Newman, senza dimenticare Max Weber e Karl Jaspers.

L'idea classica di università, oggi visibilmente al tramonto, ruota intorno al principio della libertà di ricerca e ad alcuni corollari: che né il potere politico, né gli interessi privati possono interferire nella ricerca e nell'educazione degli studenti, che solo gli scienziati giudicano gli scienziati, e che l'università è responsabile davanti alla società del modo in cui usa la propria libertà.
Questo è lo spirito che si respira in una vera università. Dal ruolo che tradizionalmente gli studenti svolgono di opposizione sociale e politica (dal maggio '68 sino alla Teheran d'oggi) sino alle bizzarrie in tema di abbigliamento e stile di vita dei professori, la libertà accademica è il lusso che una società sviluppata e democratica lungimirante dovrebbe concedersi facilmente, riconoscendone le ricadute positive. Che si tratti di algoritmi o di scoperte, di interpretazioni giuridiche o letterarie, di nuove cure o nuove tecnologie, ciò che l'università produce liberamente torna in forma di valore aggiunto conoscitivo, civile e culturale alla società che l'ha reso possibile.
Il privilegio accademico ha naturalmente delle contropartite. I professori devono meritare la loro posizione, e ciò significa che solo la loro capacità e produttività (da accertare in base a ciò che fanno, secondo criteri di valutazione inevitabilmente convenzionali, ma applicati universalmente) giustifica la loro posizione; devono rendere conto alla collettività non di ciò che ricercano, ma dei soldi che spendono nella ricerca e, soprattutto, hanno il dovere di rendere pubblici e trasparenti i criteri e le procedure con cui cooptano o promuovono quelli che un giorno li sostituiranno.
In altri termini, l'università può essere libera solo se è responsabile. Su questo piano, spiace dirlo, non solo i governi di centrodestra e centrosinistra degli ultimi vent'anni si sono dimostrati disastrosi, ma il ceto accademico ha dato il suo efficace contributo al disastro. Farò un esempio di connivenza oggettiva. Anche i sassi sanno ormai che la riforma Berlinguer è fallita perché imposta dalle lobby accademiche che vi hanno trovato un meccanismo ideale per moltiplicare posti e poteri. Al di là delle proteste puramente verbali della Conferenza dei rettori per il taglio incessante dei fondi, tra i governi degli ultimi anni e i grandi gruppi di potere accademico c'è sempre stata una corrispondenza d'amorosi sensi.
Ma la connivenza tra baronati e ministri va oltre. Dopo la comparsa priva di tracce ed effetti di personaggi incompetenti come Moratti e Mussi, il ministro Gelmini - che probabilmente di questioni universitarie non mastica molto, ma deve avere dei consulenti che hanno obiettivi assai chiari - dà un'ulteriore sterzata dirigistica non solo imponendo a tutte le università la stessa struttura di governo, ma aumentando a dismisura il potere del rettore e conferendo la facoltà di eleggerlo ai "professori ordinari in servizio presso università italiane in possesso di comprovata competenza ed esperienza di gestione, anche a livello internazionale, nel settore universitario, della ricerca o delle istituzioni culturali" (art 2, comma 2, capo c). In altri termini, solo un ristretto gruppo di baroni eleggerà il rettore, e poiché di norma i rettori che contano sono medici e ingegneri, chiunque capisce quali sono i gruppi di interesse, accademici e non, coinvolti nella vera "governance" dell'università.
In base ai principi della libertà e della responsabilità esposti sopra, alcuni punti del Ddl sono del tutto inaccettabili, mentre altri, sulla carta, potrebbero essere discussi. Tra i primi c'è il quaranta per cento dei posti in Consiglio di amministrazione riservati ai "privati", senza alcun vincolo di finanziamento (con che diritto i privati contribuiscono alle decisioni in materia di vita accademica se non danno contributi?). E lo stesso vale per un'agenzia di valutazione dai contorni indefinibili, ma aperta ai privati e soggetta visibilmente all'imperio del ministro. E non parliamo delle norme in materia di reclutamento. Al di là dell'"abilitazione" nazionale dei futuri docenti, che riprende idee vecchie quanto il mondo e in fondo l'antica libera docenza, la composizione delle commissioni è ovviamente macchinosa, come sempre, e si basa su un principio, il sorteggio, che sostituisce in parte il mero caso alle vecchie spartizioni nazionali. Nei settori scientifico-disciplinari organizzati, e cioè quelli che hanno un potere reale, è facile prevedere che il sorteggio non cambierà di molto le cose.
Il principio della valutazione della ricerca individuale in linea di principio è sacrosanto e non si capisce perché incontra tante resistenze a sinistra (o meglio si capisce benissimo). Chi è vecchio del mestiere sa che l'università italiana si porta dietro, a ogni livello gerarchico, una sacca di docenti i quali, ammesso che abbiano fatto ricerca da giovani, a un certo punto smettono o vivacchiano, facendosi i fatti propri o interessandosi esclusivamente dei propri micropoteri. Che i contribuenti paghino lo stipendio a simili "professori" - e non sono pochi - i quali oltretutto occupano posti che potrebbero essere riservati ai giovani è una vergogna dell'università italiana. E io non trovo nulla di scandaloso nel fatto che siano previsti incentivi per i più meritevoli, quelli che lavorano di più e meglio. Semmai, ciò che è privo di senso è i che fondi per l'incentivazione siano gestiti dal ministro dell'Economia: questo significa soltanto che il ministro detterà alla comunità accademica criteri di valutazione che saranno tutto tranne che scientifici. Quanto al fatto che tali fondi deriveranno (a parole) dal gettito del famigerato scudo di Tremonti, l'equazione tra denari illeciti e finanziamento della scienza parla da sé.
Anche i ricercatori a tempo determinato in teoria potrebbero essere accettabili (se non altro per metterli alla prova ed evitare che uno entri all'università e il suo lavoro non sia valutato mai più). Ma poiché siamo in Italia e la "riforma" è a costo zero, appare evidente che i contratti a tempo determinato sono solo nuovo precariato, oltretutto senza alcuna indicazione sugli sbocchi futuri.
A me pare che il Disegno di legge Gelmini manipoli più o meno abilmente alcuni principi che sono diventati.nel bene e nel male senso comune dell'università (valutazione, merito, efficienza ecc.). Ma ho l'impressione che il suo obiettivo sia soprattutto rafforzare l'università italiana in senso verticistico, attribuendo tutto il potere all'alleanza tra rettori, gruppi baronali e attori esterni. In realtà, nel Disegno di legge il controllo su quello che davvero fanno i professori è del tutto aleatorio e fumoso, la valutazione è una chimera e la semplificazione delle strutture al servizio di un'organizzazione più dispotica di prima ma burocratica quanto in passato.
Se si tiene conto che i finanziamenti sono in costante diminuzione e che i difetti strutturali non sono scalfiti in nulla, il risultato del disegno di legge Gelmini sarà un'università culturalmente modesta, ancor meno competitiva sulla scena internazionale e assoggettata al potere politico. Insomma, una riforma roboante ma gattopardesca nello stile della destra italiana, affinché tutto sia come prima o magari peggio.

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giovedì 5 novembre 2009

Le donne sono cambiate, gli uomini dovranno cambiare - 2

Oggi parliamo ancora di violenza alle donne,
ma prendendo l’argomento da un’altra parte: dalla questione maschile, presentando il libro:
“La paura degli uomini, maschi e femmine nella crisi della politica
Dall’ultima di copertina abbiamo tratto il titolo inequivocabile:
”Le donne sono cambiate, gli uomini dovranno cambiare”.
E’ venuto il tempo di chiedere … agli uomini di interrogarsi. Alcuni uomini hanno iniziato questo percorso con il manifesto
“La violenza alle donne ci riguarda prendiamo la parola come uomini” (Leiss e fra i primi firmatari).
Il modello d’impronta maschile che esclude la parte femminile dal potere di pensiero ci parla della crisi della politica, pubblica e privata.
Pensiamo che le relazioni fra i generi, attraversino tutto il nostro vivere, e sia ora di prendere la parola in questa direzione per aprire nuovi scenari.
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Sabato 14 Novembre,
alle ore 16.00 presso l’Officina delle Arti, Via Brigata Reggio 29, Reggio Emilia
LETTURA E DIALOGO
ALLA PRESENZA DI LETIZIA PAOLOZZI ED ALBERTO LEISS

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L’iniziativa è organizzata da:
6Donna, Associazione Nondasola, con l’adesione di Emergency e Amnesty International, e, ovviamente, Reggio Fahrenheit
Questa volta l’incontro ha una formula nuova che comprende letture, domande e dialogo.
ATTENZIONE!!
Chiediamo una partecipazione attiva.
Per le letture, abbiamo bisogno di almeno 15 persone.
Attendiamo le vostre adesioni sollecitando in modo particolare, la partecipazione maschile:

fahre@email.it

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martedì 3 novembre 2009

Circola un filmino scandaloso..

di Alessandro Robecchi, da Il Manifesto on line

Gira un filmino scandaloso, una cosa davvero schifosa e impresentabile, un film concepito per il ricatto che se dovesse uscire farebbe vergognare chiunque. È il filmino dell'Italia.
Il paese dove ti ammazzano in galera spezzandoti la schiena in due punti, il posto dove i carabinieri tentano l'estorsione. Il paese che sta nelle prime posizioni mondiali per diseguaglianza economica, il posto dove un cittadino su quattro sotto i 25 anni è disoccupato. 
Nel filmino si vede tutto questo e altro ancora, un po' sgranato, ma si vede tutto bene: mica è il Tg1!. Ho tentato di venderlo e di farmi un gruzzoletto, perché mi adeguo alla morale corrente. Il Giornale ha visionato ma non l'ha preso. Libero ha guardato ma ha deciso: no, grazie. Nel filmino c'è tutto quello che c'è da sapere: i capitali mafiosi che rientrano anonimi con la modica spesa del cinque per cento, vita e opere di Dell'Utri, le leggi per farla franca, due o tre morti sul lavoro ogni giorno, la libertà di stampa ai minimi storici e il papello dei patti con la mafia. 
Filmino lungo, è vero, ma meno noioso del Barbarossa che ci è pure costato dei soldi. Questo è gratis. Ci sono i nazi che accoltellano gay e stranieri, ma di cui fa fico parlare come se fossero intellettuali un po' ribelli. Ci sono gli imprenditori sovvenzionati che chiedono soldi. Ci sono i giovani imprenditori, loro figli, che chiedono soldi. Ci sono ministri che difendono le radici cristiane e adorano il dio Po, il dio Eridano e chissà quale altra puttanata celtica. C'è ancora Cossiga. C'è ancora Andreotti. Ci sono i militari per le strade «per la nostra sicurezza». Ci sono ministri che dicono viva il posto fisso dopo aver creato milioni di precari. Nel filmino si vedono avvocati che studiano come accorciare la prescrizione, come spostare i processi, come evitare grane al capo. L'ho mandato a Signorini, a «Chi», che ha detto: ne parlo con Marina. Marina ha detto: ne parlo con papà. Papi ha visto e ha detto: embé? L'Italia è il paese che io amo. Ecco, mi pareva.

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