domenica 31 gennaio 2010

Protezione civile modello Scelba

 di Alberto Burgio, da Il Manifesto on line
Ex ungue leonem: basta un'unghia per capire con chi si ha a che fare. Il principio vale anche per un'istituzione niente affatto marginale - la Protezione civile - che, sotto il materno nome, è in realtà un vettore del più generale processo di privatizzazione autoritaria dello Stato. Che procede nella pressoché generale disattenzione, o complicità.
In paesi ad alto rischio sismico e idrogeologico la Protezione civile è un fondamentale strumento di autoprotezione dei cittadini, costituito da una rete di soggetti, volontari e forze di soccorso, dotati di competenze scientifiche e operative. Con una pericolosa particolarità: dover fronteggiare emergenze e calamità naturali impone che la Protezione civile possa agire in deroga alle leggi ordinarie, tramite ordinanze e cumulando poteri normalmente sottoposti al controllo di organismi elettivi o ispettivi. Proprio per questo, si richiede la dichiarazione di stato di calamità naturale da parte dei governi, che, di norma, sono molto attenti in materia. Ma c'è un ma, che ci riporta bruscamente all'attuale fase politica, alla crisi di legittimazione dei sistemi democratici e alla risposta neo-oligarchica delle classi dirigenti.
In Italia è sempre più marcata la propensione del governo di abusare delle clausole emergenzialistiche per ampliare a dismisura i propri poteri e agire di fatto al di fuori della legge. Dal 2001 a oggi la Protezione civile ha varato oltre 600 ordinanze, gran parte delle quali nulla ha a che fare con calamità naturali. Si va dalle ordinanze per «emergenza traffico», che in molte città (Roma, Milano, Napoli, Catania) hanno permesso ai sindaci di agire senza un voto dei Consiglio comunale, a quelle per i grandi eventi come il G8 previsto alla Maddalena e dirottato all'Aquila, i mondiali di nuoto e persino i funerali di Giovanni Paolo II. In tutti questi casi il governo ha avuto mani libere, semplicemente perché se le è sciolte da sé, indossando le vesti dell'angelo custode della sicurezza pubblica. In taluni casi si sono mobilitate anche funzioni militari. È avvenuto nella Campania governata dalla Protezione civile per l'emergenza rifiuti, con la dichiarazione di siti di interesse strategico militare per le discariche e l'inceneritore di Acerra. A maggior ragione i poteri di ordinanza sono usati per una incontrollata gestione del territorio quando si tratta di calamità naturali. All'Aquila, con questo sistema, sono state imposte trasformazioni urbanistiche radicali come il piano C.a.s.e. E qui viene il bello.
Con un decreto-legge (il 195, in discussione in senato) il governo ha istituito la Protezione civile Spa. È un privatizzazione, ma non la solita. Continua, beninteso, la rapina «modernizzatrice» delle risorse pubbliche, in linea con le ordinanze della Protezione civile che hanno già fruttato appalti per miliardi di euro (300 milioni alle imprese Marcegaglia solo per il G8 abortito della Maddalena). Ma la posta in gioco è ben altra.
Il decreto amplia ulteriormente i poteri dell'esecutivo, prevedendo la figura dell'«emergenza socio-economico-ambientale», una dizione talmente vaga da permettere, per dir così, la normalizzazione dell'emergenza. Torna alla mente una legge speciale firmata da Scelba nel 1951 (VII governo De Gasperi) che, «in caso di eventi che costituiscano pericolo o danno per la incolumità pubblica delle persone e delle cose», prevedeva il conferimento dei pieni poteri al governo, compresa la facoltà di derogare alle leggi vigenti e di «requisire prestazioni personali».
Come si vede, lo stato d'eccezione esercita sui nostri politici un fascino potente. E lo strumento è anch'esso in qualche modo un classico: quel processo di strisciante svuotamento del parlamento ed incapacitazione del potere giudiziario che Foucault chiamava «governamentalizzazione». Di questo si tratta. Se la democrazia è il governo delle leggi, che cos'è un sistema in cui l'esecutivo dispone delle leggi a proprio piacimento?
Del resto, Berlusconi e i suoi non inventano nulla. Il modello è la Fema, l'Agenzia federale per la gestione dell'emergenza alla quale, dopo l'11 settembre, il governo Bush attribuì poteri militari talmente ampi da far parlare di un governo segreto degli Stati uniti, dotato del potere di sospendere la Costituzione, imporre un comando militare e istituire campi di concentramento.
Tornando a noi, sessant'anni fa in parlamento l'opposizione fu durissima. Giorgio Amendola osservò che il governo avrebbe potuto definire calamità naturale anche «il riacutizzarsi di contrasti politici», e su questa base mettere in atto un colpo di Stato. La legge proposta dal ministro Scelba fu fermata. Torna oggi, sotto mentite spoglie, come misura preventiva contro il «riacutizzarsi dei contrasti» sempre possibili in una fase di devastante crisi economica. Insomma, la storia si ripete. Salvo che ai tempi di Scelba c'era il Pci.

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Protezione civile modello Scelba

 di Alberto Burgio, da Il Manifesto on line
Ex ungue leonem: basta un'unghia per capire con chi si ha a che fare. Il principio vale anche per un'istituzione niente affatto marginale - la Protezione civile - che, sotto il materno nome, è in realtà un vettore del più generale processo di privatizzazione autoritaria dello Stato. Che procede nella pressoché generale disattenzione, o complicità.
In paesi ad alto rischio sismico e idrogeologico la Protezione civile è un fondamentale strumento di autoprotezione dei cittadini, costituito da una rete di soggetti, volontari e forze di soccorso, dotati di competenze scientifiche e operative. Con una pericolosa particolarità: dover fronteggiare emergenze e calamità naturali impone che la Protezione civile possa agire in deroga alle leggi ordinarie, tramite ordinanze e cumulando poteri normalmente sottoposti al controllo di organismi elettivi o ispettivi. Proprio per questo, si richiede la dichiarazione di stato di calamità naturale da parte dei governi, che, di norma, sono molto attenti in materia. Ma c'è un ma, che ci riporta bruscamente all'attuale fase politica, alla crisi di legittimazione dei sistemi democratici e alla risposta neo-oligarchica delle classi dirigenti.
In Italia è sempre più marcata la propensione del governo di abusare delle clausole emergenzialistiche per ampliare a dismisura i propri poteri e agire di fatto al di fuori della legge. Dal 2001 a oggi la Protezione civile ha varato oltre 600 ordinanze, gran parte delle quali nulla ha a che fare con calamità naturali. Si va dalle ordinanze per «emergenza traffico», che in molte città (Roma, Milano, Napoli, Catania) hanno permesso ai sindaci di agire senza un voto dei Consiglio comunale, a quelle per i grandi eventi come il G8 previsto alla Maddalena e dirottato all'Aquila, i mondiali di nuoto e persino i funerali di Giovanni Paolo II. In tutti questi casi il governo ha avuto mani libere, semplicemente perché se le è sciolte da sé, indossando le vesti dell'angelo custode della sicurezza pubblica. In taluni casi si sono mobilitate anche funzioni militari. È avvenuto nella Campania governata dalla Protezione civile per l'emergenza rifiuti, con la dichiarazione di siti di interesse strategico militare per le discariche e l'inceneritore di Acerra. A maggior ragione i poteri di ordinanza sono usati per una incontrollata gestione del territorio quando si tratta di calamità naturali. All'Aquila, con questo sistema, sono state imposte trasformazioni urbanistiche radicali come il piano C.a.s.e. E qui viene il bello.
Con un decreto-legge (il 195, in discussione in senato) il governo ha istituito la Protezione civile Spa. È un privatizzazione, ma non la solita. Continua, beninteso, la rapina «modernizzatrice» delle risorse pubbliche, in linea con le ordinanze della Protezione civile che hanno già fruttato appalti per miliardi di euro (300 milioni alle imprese Marcegaglia solo per il G8 abortito della Maddalena). Ma la posta in gioco è ben altra.
Il decreto amplia ulteriormente i poteri dell'esecutivo, prevedendo la figura dell'«emergenza socio-economico-ambientale», una dizione talmente vaga da permettere, per dir così, la normalizzazione dell'emergenza. Torna alla mente una legge speciale firmata da Scelba nel 1951 (VII governo De Gasperi) che, «in caso di eventi che costituiscano pericolo o danno per la incolumità pubblica delle persone e delle cose», prevedeva il conferimento dei pieni poteri al governo, compresa la facoltà di derogare alle leggi vigenti e di «requisire prestazioni personali».
Come si vede, lo stato d'eccezione esercita sui nostri politici un fascino potente. E lo strumento è anch'esso in qualche modo un classico: quel processo di strisciante svuotamento del parlamento ed incapacitazione del potere giudiziario che Foucault chiamava «governamentalizzazione». Di questo si tratta. Se la democrazia è il governo delle leggi, che cos'è un sistema in cui l'esecutivo dispone delle leggi a proprio piacimento?
Del resto, Berlusconi e i suoi non inventano nulla. Il modello è la Fema, l'Agenzia federale per la gestione dell'emergenza alla quale, dopo l'11 settembre, il governo Bush attribuì poteri militari talmente ampi da far parlare di un governo segreto degli Stati uniti, dotato del potere di sospendere la Costituzione, imporre un comando militare e istituire campi di concentramento.
Tornando a noi, sessant'anni fa in parlamento l'opposizione fu durissima. Giorgio Amendola osservò che il governo avrebbe potuto definire calamità naturale anche «il riacutizzarsi di contrasti politici», e su questa base mettere in atto un colpo di Stato. La legge proposta dal ministro Scelba fu fermata. Torna oggi, sotto mentite spoglie, come misura preventiva contro il «riacutizzarsi dei contrasti» sempre possibili in una fase di devastante crisi economica. Insomma, la storia si ripete. Salvo che ai tempi di Scelba c'era il Pci.

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giovedì 28 gennaio 2010

Omaggio a Salinger


Il giovane Holden

semmai non diamogli fastidio
al mostro-monstruum, giovane disadattato
- tutti quelli come noi che mai lofuronolosonolosaranno –
non diamogli peso, se preferite,
e se talvolta lo vedete riverso nei cessi
dei bar semivuoti di mezzanotte e passa, oppure
Occhistralunati masticare sigarette
e giornali sgualciti rovistare stravaccato
nelle sedie-plastica di quei stramaledetti bar
non è opportuno reagire in quel modo:
e quando uno “oggi stesso per l’Ovest in autostop”
veramente pensa di partire
che non trovi solo una Phebe
pronta a seguirlo.


Dino Angelini

Sett. 1966

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Omaggio a Salinger


Il giovane Holden

semmai non diamogli fastidio
al mostro-monstruum, giovane disadattato
- tutti quelli come noi che mai lofuronolosonolosaranno –
non diamogli peso, se preferite,
e se talvolta lo vedete riverso nei cessi
dei bar semivuoti di mezzanotte e passa, oppure
Occhistralunati masticare sigarette
e giornali sgualciti rovistare stravaccato
nelle sedie-plastica di quei stramaledetti bar
non è opportuno reagire in quel modo:
e quando uno “oggi stesso per l’Ovest in autostop”
veramente pensa di partire
che non trovi solo una Phebe
pronta a seguirlo.


Dino Angelini

Sett. 1966

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mercoledì 27 gennaio 2010

Sindaci rossi, una crisi che viene da lontano

di Valerio Evangelisti, da il Manifesto on line

Un poeta bolognese dei primi del Novecento, Olindo Guerrini in arte Lorenzo Stecchetti, scrisse dei versi intitolati Primo Maggio. Vi si descriveva la marcia lenta, solenne e silenziosa di un corteo di operai. «Toccandosi le mani ognun di loro / cerca il vicin chi sia. / Se i calli suoi non vi segnò il lavoro, / quella è una man di spia».
Senza rimpiangere (ma un poco sì) l'intransigenza dei socialisti di epoca prefascista, fama meritata di onestà a tutta prova ebbero anche i sindaci comunisti del dopoguerra. Io nacqui al tempo di Giuseppe Dozza, magari stalinista, però uomo tutto d'un pezzo, che ancora appariva in pubblico con un fazzoletto rosso al collo.
Un mito d'uomo, tanto che mio padre, pur lontano dal Pci (era socialdemocratico), lo ammirava senza riserve. Ugualmente limpidi sotto il profilo morale furono i successori di Dozza: Guido Fanti, Renato Zangheri, Renzo Imbeni - uno dei sindaci migliori che abbia avuto la mia città. Persino Zangheri, che combattei nelle strade nel '77, era dal punto di vista personale di un'onestà ineccepibile. Nessuno avrebbe seriamente immaginato che lo slogan settantasettino «Bologna è rossa/è rossa di vergogna» potesse essere riferito, di lì a trent'anni, ai comportamenti del suo sindaco.
Il fatto è che il Pci, con gli anni Ottanta e ben prima dell' '89, iniziò a rompere silenziosamente con la propria tradizione. Gran parte della sua base era transitata dalle classi subalterne al ceto medio, con vocazione prevalentemente commerciale, e in parallelo era cambiata l'ideologia di cui era stata portatrice. Avanguardia della trasformazione fu forse la Lega delle Cooperative, passata a un modello compiutamente capitalistico che poco conservava di "alternativo"; seguirono a ruota tutte le altre istituzioni informali o formali cui il movimento operaio aveva dato vita. L'elogio smodato della piccola impresa diventò, sic et simpliciter, elogio dell'esistente. Ciò condusse all'amministrazione del sindaco Walter Vitali, pronta a tutte le privatizzazioni in campo ospedaliero e scolastico, e alla mano dura contro gli immigrati che avevano osato occupare (nel senso di entrare e restarvi) la basilica di San Petronio. Fu scandaloso vedere il Gabibbo accorrere in soccorso di poveracci ricoverati dal Comune, dopo lo sgombero, in un edificio scolastico abbandonato: una spelonca sporca, fredda e fatiscente.
Dopo la pausa politica di Guazzaloca, vincitore grazie all'avversione che il suo predecessore era riuscito a suscitare, Cofferati si incaricò di portare a termine il lavoro avviato da Vitali. Politiche tutte incentrate sull'ordine pubblico, misure proibizionistiche, guerra ai nomadi e ai poveracci, chiusura di centri sociali, semi-militarizzazione dei vigili urbani, ecc. Fino al divieto di costruire una moschea in un quartiere periferico. Ciò rispondeva al profilo di un partito che ormai si era sfaldato. Nei suoi ranghi rimaneva un pugno di militanti «usi a obbedir tacendo», ammiratori di D'Alema perché ha i baffi come Stalin, e segretamente convinti che i programmi neoliberisti del Pd siano una raffinata mossa tattica in direzione del comunismo. Accanto a costoro, però, stavano prendendo posto nuovi rampanti usi più ai salotti che alle riunioni di sezione, al richiamo dei vip che ai volantinaggi. Esattamente come il Psi negli anni di Craxi (ritenuto da Fassino e altri una specie di modello). Poco interessati, di conseguenza, alla cosiddetta «questione morale». Ideologia comune? Nessuna ideologia, salvo l'avversione nei confronti della volgarità berlusconiana, troppo plebea e sguaiata per i loro gusti raffinati.
Nemmeno Vitali e Cofferati, specchio delle diverse fasi di una trasformazione di base, furono attaccabili sul piano della condotta personale. Perché si arrivasse a questo era necessario che il partito (intendo il Pci-Pds-Ds-Pd) perdesse gli ultimi brandelli di coerenza, scoprisse i benefici dell'atlantismo e delle guerre umanitarie, i valori di mercato, l'utilità delle privatizzazioni a oltranza, la consonanza - a fini elettorali - con forze politiche popolate da personaggi collusi con la mafia, oppure fautrici di un ultraliberismo di stampo reaganiano e capaci di proporre lo scioglimento dei sindacati. A quel punto, con un partito ormai privo di organizzazione e di tenuta ideologica, quale fu il Psi di Craxi al tempo «dei nani e delle ballerine» (forma organizzativa attualmente chiamata «primarie», come surrogato della democrazia interna), c'era spazio per ogni avventura.
L'ultima di esse: candidare a sindaco Delbono. Non so se colpevole o innocente (spero nella seconda ipotesi), ma comunque, a differenza dei suoi predecessori, sospettabile di corruzione. Meno incattivito - nel suo breve mandato - nella persecuzione delle minoranze, etniche o politiche, di quanto lo fosse Cofferati, ma subito impegnato nel licenziamento di centinaia di precari e nel finanziamento pubblico delle scuole private. Cosa che lascia indifferente il suo partito (ammesso che esista ancora), proteso verso ben altri, superiori fini. Cioè trovare, attraverso le consuete «primarie», un nuovo candidato sindaco decente. Compito quanto mai difficile.
Temo che Stecchetti, se potesse vivere nella Bologna attuale, di mani callose ne noterebbe poche o nessuna. Di «man di spia» invece tantissime. Fortuna che gli ultimi sindaci di centrosinistra hanno vietato i cortei, nei fine settimana.

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Sindaci rossi, una crisi che viene da lontano

di Valerio Evangelisti, da il Manifesto on line

Un poeta bolognese dei primi del Novecento, Olindo Guerrini in arte Lorenzo Stecchetti, scrisse dei versi intitolati Primo Maggio. Vi si descriveva la marcia lenta, solenne e silenziosa di un corteo di operai. «Toccandosi le mani ognun di loro / cerca il vicin chi sia. / Se i calli suoi non vi segnò il lavoro, / quella è una man di spia».
Senza rimpiangere (ma un poco sì) l'intransigenza dei socialisti di epoca prefascista, fama meritata di onestà a tutta prova ebbero anche i sindaci comunisti del dopoguerra. Io nacqui al tempo di Giuseppe Dozza, magari stalinista, però uomo tutto d'un pezzo, che ancora appariva in pubblico con un fazzoletto rosso al collo.
Un mito d'uomo, tanto che mio padre, pur lontano dal Pci (era socialdemocratico), lo ammirava senza riserve. Ugualmente limpidi sotto il profilo morale furono i successori di Dozza: Guido Fanti, Renato Zangheri, Renzo Imbeni - uno dei sindaci migliori che abbia avuto la mia città. Persino Zangheri, che combattei nelle strade nel '77, era dal punto di vista personale di un'onestà ineccepibile. Nessuno avrebbe seriamente immaginato che lo slogan settantasettino «Bologna è rossa/è rossa di vergogna» potesse essere riferito, di lì a trent'anni, ai comportamenti del suo sindaco.
Il fatto è che il Pci, con gli anni Ottanta e ben prima dell' '89, iniziò a rompere silenziosamente con la propria tradizione. Gran parte della sua base era transitata dalle classi subalterne al ceto medio, con vocazione prevalentemente commerciale, e in parallelo era cambiata l'ideologia di cui era stata portatrice. Avanguardia della trasformazione fu forse la Lega delle Cooperative, passata a un modello compiutamente capitalistico che poco conservava di "alternativo"; seguirono a ruota tutte le altre istituzioni informali o formali cui il movimento operaio aveva dato vita. L'elogio smodato della piccola impresa diventò, sic et simpliciter, elogio dell'esistente. Ciò condusse all'amministrazione del sindaco Walter Vitali, pronta a tutte le privatizzazioni in campo ospedaliero e scolastico, e alla mano dura contro gli immigrati che avevano osato occupare (nel senso di entrare e restarvi) la basilica di San Petronio. Fu scandaloso vedere il Gabibbo accorrere in soccorso di poveracci ricoverati dal Comune, dopo lo sgombero, in un edificio scolastico abbandonato: una spelonca sporca, fredda e fatiscente.
Dopo la pausa politica di Guazzaloca, vincitore grazie all'avversione che il suo predecessore era riuscito a suscitare, Cofferati si incaricò di portare a termine il lavoro avviato da Vitali. Politiche tutte incentrate sull'ordine pubblico, misure proibizionistiche, guerra ai nomadi e ai poveracci, chiusura di centri sociali, semi-militarizzazione dei vigili urbani, ecc. Fino al divieto di costruire una moschea in un quartiere periferico. Ciò rispondeva al profilo di un partito che ormai si era sfaldato. Nei suoi ranghi rimaneva un pugno di militanti «usi a obbedir tacendo», ammiratori di D'Alema perché ha i baffi come Stalin, e segretamente convinti che i programmi neoliberisti del Pd siano una raffinata mossa tattica in direzione del comunismo. Accanto a costoro, però, stavano prendendo posto nuovi rampanti usi più ai salotti che alle riunioni di sezione, al richiamo dei vip che ai volantinaggi. Esattamente come il Psi negli anni di Craxi (ritenuto da Fassino e altri una specie di modello). Poco interessati, di conseguenza, alla cosiddetta «questione morale». Ideologia comune? Nessuna ideologia, salvo l'avversione nei confronti della volgarità berlusconiana, troppo plebea e sguaiata per i loro gusti raffinati.
Nemmeno Vitali e Cofferati, specchio delle diverse fasi di una trasformazione di base, furono attaccabili sul piano della condotta personale. Perché si arrivasse a questo era necessario che il partito (intendo il Pci-Pds-Ds-Pd) perdesse gli ultimi brandelli di coerenza, scoprisse i benefici dell'atlantismo e delle guerre umanitarie, i valori di mercato, l'utilità delle privatizzazioni a oltranza, la consonanza - a fini elettorali - con forze politiche popolate da personaggi collusi con la mafia, oppure fautrici di un ultraliberismo di stampo reaganiano e capaci di proporre lo scioglimento dei sindacati. A quel punto, con un partito ormai privo di organizzazione e di tenuta ideologica, quale fu il Psi di Craxi al tempo «dei nani e delle ballerine» (forma organizzativa attualmente chiamata «primarie», come surrogato della democrazia interna), c'era spazio per ogni avventura.
L'ultima di esse: candidare a sindaco Delbono. Non so se colpevole o innocente (spero nella seconda ipotesi), ma comunque, a differenza dei suoi predecessori, sospettabile di corruzione. Meno incattivito - nel suo breve mandato - nella persecuzione delle minoranze, etniche o politiche, di quanto lo fosse Cofferati, ma subito impegnato nel licenziamento di centinaia di precari e nel finanziamento pubblico delle scuole private. Cosa che lascia indifferente il suo partito (ammesso che esista ancora), proteso verso ben altri, superiori fini. Cioè trovare, attraverso le consuete «primarie», un nuovo candidato sindaco decente. Compito quanto mai difficile.
Temo che Stecchetti, se potesse vivere nella Bologna attuale, di mani callose ne noterebbe poche o nessuna. Di «man di spia» invece tantissime. Fortuna che gli ultimi sindaci di centrosinistra hanno vietato i cortei, nei fine settimana.

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martedì 26 gennaio 2010

Free Student Box - una recensione su "Adolescenza e Psicoanalisi"



Su: Adolescenza e Psicoanalisi, n. 2, novembre 2009, pp. 166 \ 171, la recensione del testo: Free Student Box - Counselling psicologico per studenti, genitori e docenti” a cura di: L. Angelini e D. Bertani, Psiconline Editore, 2009, pp. 328)
Il testo si riferisce alla ormai lunga esperienza di counselling psicologico nelle scuole medie superiori di Reggio E. e provincia che l’anno scorso ha visto ben 16 sportelli aperti per un totale di 1105 accessi (725 studenti, 219 docenti e 161 genitori).
Poiché Adolescenza e Psicoanalisi è la più prestigiosa rivista sull’adolescenza presente in Italia, ci fa piacere comunicare a tutt* voi questo importante attestato.
Dino e Deliana





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Free Student Box - una recensione su "Adolescenza e Psicoanalisi"

Su: Adolescenza e Psicoanalisi, n. 2, novembre 2009, pp. 166 \ 171, la recensione del testo: Free Student Box - Counselling psicologico per studenti, genitori e docenti” a cura di: L. Angelini e D. Bertani, Psiconline Editore, 2009, pp. 328)
Il testo si riferisce alla ormai lunga esperienza di counselling psicologico nelle scuole medie superiori di Reggio E. e provincia che l’anno scorso ha visto ben 16 sportelli aperti per un totale di 1105 accessi (725 studenti, 219 docenti e 161 genitori).
Poiché Adolescenza e Psicoanalisi è la più prestigiosa rivista sull’adolescenza presente in Italia, ci fa piacere comunicare a tutt* voi questo importante attestato.
Dino e Deliana





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lunedì 25 gennaio 2010

Vendola, videolettera di ringraziamento





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Vendola, videolettera di ringraziamento

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Puglia, Vendola ha stravinto In 200 mila al voto per le primarie

da Repubblica on line:

Puglia, Vendola ha stravinto
In 200mila al voto per le primarie

Hanno votato quasi il triplo degli elettori rispetto a 5 anni fa
Per l'ex governatore oltre il 70% di consensi. Applauso all'avversario Boccia

di MICHELE OTTOLINO

BARI -Schiacciante vittoria di Nichi Vendola alle primarie. E' lui il candidato alla presidenza della Regione Puglia e la sfida finale sarà con Rocco Palese, il delfino del ministro Fitto scelto a sorpresa dal centrodestra qualche minuto prima dell'apertura delle urne del derby interno del centrosinistra. I risultati che arrivano dagli oltre 200 seggi sparsi in tutta la regione parlano di un successo netto e inequivocabile del Presidente della Regione, 73 per cento contro il 27.

Quasi 200mila i votanti delle primarie. Numeri che superano ogni aspettativa ma che Vendola vuole già archiviare per pensare al futuro. Il primo passo è stato accogliere il suo rivale Boccia con un applauso e un abbraccio all'arrivo nella sua "Fabbrica di Nichi", in via De Rossi a Bari, dove verso le 23,30 si è celebrata la vittoria.  "Il 2009 è stato per me un anno difficile sia  per vicende personali che per questioni politiche, alcune volte mi sono sentito solo", è stato il primo commento a caldo del governatore pugliese.  "In casa del centrosinistra - ha aggiunto - il candidato alla presidenza della Regione Puglia non viene deciso a Palazzo Grazioli, ma da una porzione del corpo elettorale rilevante di 200mila elettori. Nessuno si deve sentire sconfitto. Da oggi, insieme, dobbiamo lavorare perchè l'energia messa in campo dei sostenitori di Boccia e dai miei possa diventare un unico grande cantiere, una fabbrica per la popolazione pugliese. La Puglia ha il diritto di essere il laboratorio della buona politica".

Per il sindaco di Bari e presidente del Pd, Michele Emiliano " Vendola ha meritatamente vinto le primarie impartendo al nostro partito, e non a Francesco Boccia, una dura lezione che non può più essere ignorata". "Anche la più razionale delle strategie politiche non può essere calata dall'alto - ha rincarato la dose - e non può essere attuata ignorando i sentimenti di rispetto e di affetto delle persone nei confronti di quei pochi politici che nel bene e nel male sono sintonizzati con il senso comune". "Questa è la lezione - ha detto Emiliano - che tutto il Pd deve apprendere e trasformare nello spirito col quale affrontare la prossima campagna elettorale. Possiamo vincere. Possiamo vincere perchè adesso, grazie alle primarie che abbiamo fortemente voluto, abbiamo un unico candidato, forte e legittimato.Possiamo vincere perchè l'avversario, come al solito, ci aiuta candidando la protesi della protesi di Berlusconi, possiamo vincere perchè il popolo del Pd ha saputo interpretare questo momento politico legando ancora una volta Nichi Vendola al destino della Puglia".

Per la regione che ha inaugurato la stagione delle primarie, è stata un'altra lezione di democrazia. Alle urne si sono presentati in più di 192mila, incuranti delle lunghe code per l'esiguità dei seggi. Le urne sono rimaste aperte dalle 8 alle 21, in un clima di festa e senza alcun incidente.

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Puglia, Vendola ha stravinto In 200 mila al voto per le primarie

da Repubblica on line:

Puglia, Vendola ha stravinto
In 200mila al voto per le primarie

Hanno votato quasi il triplo degli elettori rispetto a 5 anni fa
Per l'ex governatore oltre il 70% di consensi. Applauso all'avversario Boccia

di MICHELE OTTOLINO

BARI -Schiacciante vittoria di Nichi Vendola alle primarie. E' lui il candidato alla presidenza della Regione Puglia e la sfida finale sarà con Rocco Palese, il delfino del ministro Fitto scelto a sorpresa dal centrodestra qualche minuto prima dell'apertura delle urne del derby interno del centrosinistra. I risultati che arrivano dagli oltre 200 seggi sparsi in tutta la regione parlano di un successo netto e inequivocabile del Presidente della Regione, 73 per cento contro il 27.

Quasi 200mila i votanti delle primarie. Numeri che superano ogni aspettativa ma che Vendola vuole già archiviare per pensare al futuro. Il primo passo è stato accogliere il suo rivale Boccia con un applauso e un abbraccio all'arrivo nella sua "Fabbrica di Nichi", in via De Rossi a Bari, dove verso le 23,30 si è celebrata la vittoria.  "Il 2009 è stato per me un anno difficile sia  per vicende personali che per questioni politiche, alcune volte mi sono sentito solo", è stato il primo commento a caldo del governatore pugliese.  "In casa del centrosinistra - ha aggiunto - il candidato alla presidenza della Regione Puglia non viene deciso a Palazzo Grazioli, ma da una porzione del corpo elettorale rilevante di 200mila elettori. Nessuno si deve sentire sconfitto. Da oggi, insieme, dobbiamo lavorare perchè l'energia messa in campo dei sostenitori di Boccia e dai miei possa diventare un unico grande cantiere, una fabbrica per la popolazione pugliese. La Puglia ha il diritto di essere il laboratorio della buona politica".

Per il sindaco di Bari e presidente del Pd, Michele Emiliano " Vendola ha meritatamente vinto le primarie impartendo al nostro partito, e non a Francesco Boccia, una dura lezione che non può più essere ignorata". "Anche la più razionale delle strategie politiche non può essere calata dall'alto - ha rincarato la dose - e non può essere attuata ignorando i sentimenti di rispetto e di affetto delle persone nei confronti di quei pochi politici che nel bene e nel male sono sintonizzati con il senso comune". "Questa è la lezione - ha detto Emiliano - che tutto il Pd deve apprendere e trasformare nello spirito col quale affrontare la prossima campagna elettorale. Possiamo vincere. Possiamo vincere perchè adesso, grazie alle primarie che abbiamo fortemente voluto, abbiamo un unico candidato, forte e legittimato.Possiamo vincere perchè l'avversario, come al solito, ci aiuta candidando la protesi della protesi di Berlusconi, possiamo vincere perchè il popolo del Pd ha saputo interpretare questo momento politico legando ancora una volta Nichi Vendola al destino della Puglia".

Per la regione che ha inaugurato la stagione delle primarie, è stata un'altra lezione di democrazia. Alle urne si sono presentati in più di 192mila, incuranti delle lunghe code per l'esiguità dei seggi. Le urne sono rimaste aperte dalle 8 alle 21, in un clima di festa e senza alcun incidente.

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mercoledì 20 gennaio 2010

Il sospetto, di Gustavo Zagrebelski



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Il sospetto, di Gustavo Zagrebelski

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24 Gennaio p.v. - Il giorno della Memoria a Reggio Emilia 2

 Il giorno della Memoria a reggio emilia
24 Gennaio p.v.

ore 15,00: commemorazione ufficiale davanti alla Sinagoga
ore 15,30 - Inizio delle letture, che saranno:
--> la lettura "integrale" della Notte di Elie Wiesel
--> 10 "Lettere" di Ettj Hillesum

chi vuole può passare in mattinata - dalle 10 alle 11 - in Sinagoga a ritirare il testo, altrimenti di pomeriggio si consiglia di passare prima delle 15

Marcello Stecco, consigliere provinciale
Lorenzo Capitani, docente Liceo Ariosto-Spallanzani
Carmen Marini, vice-presidente ass.ne " Non da sola"
Chiara Morelli, responsabile provinciale formazione capi Agesci

Reggio Fahrenheit aderisce all'iniziativa!
Chi intende partecipare alla pubblica lettura ce lo faccia sapere:  

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24 Gennaio p.v. - Il giorno della Memoria a Reggio Emilia 2

 Il giorno della Memoria a reggio emilia
24 Gennaio p.v.

ore 15,00: commemorazione ufficiale davanti alla Sinagoga
ore 15,30 - Inizio delle letture, che saranno:
--> la lettura "integrale" della Notte di Elie Wiesel
--> 10 "Lettere" di Ettj Hillesum

chi vuole può passare in mattinata - dalle 10 alle 11 - in Sinagoga a ritirare il testo, altrimenti di pomeriggio si consiglia di passare prima delle 15

Marcello Stecco, consigliere provinciale
Lorenzo Capitani, docente Liceo Ariosto-Spallanzani
Carmen Marini, vice-presidente ass.ne " Non da sola"
Chiara Morelli, responsabile provinciale formazione capi Agesci

Reggio Fahrenheit aderisce all'iniziativa!
Chi intende partecipare alla pubblica lettura ce lo faccia sapere:  

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martedì 19 gennaio 2010

Bari, 19.1.10: video-lettera di Niki Vendola

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Bari, 19.1.10: video-lettera di Niki Vendola

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giovedì 14 gennaio 2010

Considerate di nuovo se questo è un uomo

Considerate di nuovo se questo è un uomo


di Adriano Sofri


Di nuovo, considerate di nuovo
Se questo è un uomo,
Come un rospo a gennaio,
Che si avvia quando è buio e nebbia
E torna quando è nebbia e buio,
Che stramazza a un ciglio di strada,
Odora di kiwi e arance di Natale,
Conosce tre lingue e non ne parla nessuna,
Che contende ai topi la sua cena,
Che ha due ciabatte di scorta,
Una domanda d’asilo,
Una laurea in ingegneria, una fotografia,
E le nasconde sotto i cartoni,
E dorme sui cartoni della Rognetta,
Sotto un tetto d’amianto,
O senza tetto,
Fa il fuoco con la monnezza,
Che se ne sta al posto suo,
In nessun posto,
E se ne sbuca, dopo il tiro a segno,
“Ha sbagliato!”,
Certo che ha sbagliato,
L’Uomo Nero
Della miseria nera,
Del lavoro nero, e da Milano,
Per l’elemosina di un’attenuante
Scrivono grande: NEGRO,
Scartato da un caporale,
Sputato da un povero cristo locale,
Picchiato dai suoi padroni,
Braccato dai loro cani,
Che invidia i vostri cani,
Che invidia la galera
(Un buon posto per impiccarsi)
Che piscia coi cani,
Che azzanna i cani senza padrone,
Che vive tra un No e un No,
Tra un Comune commissariato per mafia
E un Centro di Ultima Accoglienza,
E quando muore, una colletta
Dei suoi fratelli a un euro all’ora
Lo rimanda oltre il mare, oltre il deserto
Alla sua terra –“A quel paese!”
Meditate che questo è stato,
Che questo è ora,
Che Stato è questo,
Rileggete i vostri saggetti sul Problema
Voi che adottate a distanza
Di sicurezza, in Congo, in Guatemala,
E scrivete al calduccio, né di qua né di là,
Nè bontà, roba da Caritas, nè
Brutalità, roba da affari interni,
Tiepidi, come una berretta da notte,
E distogliete gli occhi da questa
Che non è una donna
Da questo che non è un uomo
Che non ha una donna
E i figli, se ha figli, sono distanti,
E pregate di nuovo che i vostri nati
Non torcano il viso da voi



Adriano Sofri
"  Il mio testo su Rosarno prende a prestito Primo Levi -lui ne sarebbe stato generoso- ...."

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Considerate di nuovo se questo è un uomo

Considerate di nuovo se questo è un uomo


di Adriano Sofri


Di nuovo, considerate di nuovo
Se questo è un uomo,
Come un rospo a gennaio,
Che si avvia quando è buio e nebbia
E torna quando è nebbia e buio,
Che stramazza a un ciglio di strada,
Odora di kiwi e arance di Natale,
Conosce tre lingue e non ne parla nessuna,
Che contende ai topi la sua cena,
Che ha due ciabatte di scorta,
Una domanda d’asilo,
Una laurea in ingegneria, una fotografia,
E le nasconde sotto i cartoni,
E dorme sui cartoni della Rognetta,
Sotto un tetto d’amianto,
O senza tetto,
Fa il fuoco con la monnezza,
Che se ne sta al posto suo,
In nessun posto,
E se ne sbuca, dopo il tiro a segno,
“Ha sbagliato!”,
Certo che ha sbagliato,
L’Uomo Nero
Della miseria nera,
Del lavoro nero, e da Milano,
Per l’elemosina di un’attenuante
Scrivono grande: NEGRO,
Scartato da un caporale,
Sputato da un povero cristo locale,
Picchiato dai suoi padroni,
Braccato dai loro cani,
Che invidia i vostri cani,
Che invidia la galera
(Un buon posto per impiccarsi)
Che piscia coi cani,
Che azzanna i cani senza padrone,
Che vive tra un No e un No,
Tra un Comune commissariato per mafia
E un Centro di Ultima Accoglienza,
E quando muore, una colletta
Dei suoi fratelli a un euro all’ora
Lo rimanda oltre il mare, oltre il deserto
Alla sua terra –“A quel paese!”
Meditate che questo è stato,
Che questo è ora,
Che Stato è questo,
Rileggete i vostri saggetti sul Problema
Voi che adottate a distanza
Di sicurezza, in Congo, in Guatemala,
E scrivete al calduccio, né di qua né di là,
Nè bontà, roba da Caritas, nè
Brutalità, roba da affari interni,
Tiepidi, come una berretta da notte,
E distogliete gli occhi da questa
Che non è una donna
Da questo che non è un uomo
Che non ha una donna
E i figli, se ha figli, sono distanti,
E pregate di nuovo che i vostri nati
Non torcano il viso da voi



Adriano Sofri
"  Il mio testo su Rosarno prende a prestito Primo Levi -lui ne sarebbe stato generoso- ...."

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mercoledì 13 gennaio 2010

Se questi sono uomini

di Barbara Spinelli, da La Stampa on line

Il futuro in cui siamo già immersi comincia nella piana di Gioia Tauro: a Rosarno in provincia di Reggio Calabria (un’autentica guerriglia urbana è ancora in corso), come a Castel Volturno e a Reggio stessa, dove la ’ndrangheta ha voluto intimidire i magistrati con un attentato alla procura generale. Il futuro comincia a Rosarno perché i principali problemi della nostra civiltà si addensano qui: le fughe di intere popolazioni dalla povertà e dalle guerre (guerre spesso scatenate dagli occidentali, generatrici non di ordine ma di caos); le vaste paure che s’insediano come nebbie, intossicando la vita degli immigrati e dei locali; le cruente cacce al diverso; il dilagare di una mafia esperta in controllo mondializzato.

A ciò si aggiunga l’impossibilità di arrestare migrazioni divenute inarrestabili, perché da tempo non si trovano italiani e cittadini di Paesi ricchi disposti a fare, allo stesso salario, i lavori fatti da africani. Si aggiunga l’ipocrisia di chi crede che la risposta consista in un’identità monoculturale da ritrovare.

E la menzogna di chi non sopporta lo sguardo inquieto e assicura: abbiamo già praticamente vinto le mafie, Gomorra appartiene al passato, è «un vecchio film in bianco e nero», come dice Maroni. Non per ultimo, si aggiunga lo Stato che perde il controllo del territorio e il monopolio della violenza: i neri a Rosarno combattono contro ronde private di locali, infiltrate da ’ndrangheta e armate di fucili. Il pensiero della Lega è egemonico e le rivolte vengono associate, dal ministro Maroni, non alle mafie ma all’immigrazione clandestina che si promette di azzerare sanando ogni male. È inganno anche questo. Quando in Francia s’infiammarono le banlieue, nel novembre 2005, Romano Prodi disse che il fenomeno, mondiale, non avrebbe risparmiato l’Italia. Fu deriso e non creduto.

Non era menzogna invece. È vero che l’Italia ha da anni una reputazione cupa, e impaura a tal punto immigrati e fuggitivi da suscitare, nei loro animi, il senso di schifo di cui parla Balotelli. Gran parte dell’Europa ha una cupa reputazione, ma questo non scusa i nostri misfatti e silenzi: il silenzio del sindacato soprattutto, abituato a proteggere pensionati e operai delle grandi industrie (ormai dei privilegiati) e del tutto afasico sull’intreccio mafia, immigrati, sfruttamento. Il massimo della spudoratezza è raggiunto quando i nostri ministri citano Zapatero o Sarkozy, quasi che gli errori altrui nobilitassero i nostri. Quasi che non esistesse, in Italia, quel sovrappiù che è il potere malavitoso. Le rivolte di questi giorni discendono dal fallimento dello Stato e lo rivelano. È la conclusione cui giunge il prezioso libro di Antonello Mangano, scritto sui ventennali disastri di Rosarno e Castel Volturno. Il titolo è: Gli africani salveranno Rosarno - E, probabilmente, anche l’Italia (Terrelibere.org 2009).

Le rivolte odierne hanno infatti una storia alle spalle, occultata dai politici e da molti giornali. Coloro che a Rosarno hanno reagito con ira distruttiva a un’ennesima aggressione contro i lavoratori neri (due feriti a colpi di carabina, giovedì) sono gli stessi che nel dicembre 2008 si ribellarono alla ’ndrangheta. Erano stati feriti quattro immigrati, e gli africani fecero qualcosa che da anni gli italiani non fanno più. Scesero in piazza, chiedendo più Stato, più giustizia, più legalità. Contribuirono alle indagini dei magistrati con coraggio, rompendo l’omertà e rischiando molto.

Denunciarono gli aggressori a volto scoperto, pur non essendo protetti da permessi di soggiorno. È vero dunque: gli africani salveranno Rosarno e forse l’Italia, come scrive anche Roberto Saviano. Poco prima della rivolta a Rosarno si erano ribellati gli africani a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, rispondendo a una sparatoria di camorristi che aveva ammazzato sei immigrati.

Quel che è accaduto dopo è una sciagura prevedibile, e per rendersene conto basta vedere come vivono, gli africani dell’antimafia. Sono eloquenti più di altri i video di Medici senza Frontiere, che parlano di crisi umanitaria nella piana di Gioia Tauro. Il rapporto che Msf ha redatto nel 2008 ha un titolo ominoso: «Una stagione all’inferno», come il poema di Rimbaud. Difficile descrivere altrimenti gli africani che vivono in stabilimenti industriali abbandonati, come la cartiera «La Rognetta» a Rosarno, o l’oleificio dismesso presso Gioia Tauro. Dentro l’oblò del silos per l’olio: giacigli di stracci. Tutt’intorno, fuochi e soprattutto rifiuti, montagne di rifiuti tra cui vagano, tristi ombre, esseri umani che si costruiscono alloggi di cartone o tende senza sanitari. Vedere simili paesaggi ricorda Gaza, gli slum pachistani: non è vita primitiva ma l’osceno connubio tra architetture industriali moderne, indigenza estrema e apartheid. Un africano dice sorridendo a Medici senza Frontiere: «Tra l’una e le quattro di notte inutile provare a dormire. Troppo freddo».

Ci nutriamo volontariamente di menzogne, come il protagonista nel poema di Rimbaud, quando diciamo che quest’oscenità nasce dall’eccessiva tolleranza verso i clandestini. Abbiamo chiamato noi gli africani a raccogliere aranci, consci che nessuno lo farà a quel prezzo e per tante ore (25 euro per un giorno di 16-18 ore; 5 euro vanno a caporali mafiosi e autisti di pullman). E la tolleranza denunciata da Maroni non è verso i clandestini ma verso le condizioni in cui vivono clandestini o regolari.

Dopo aver tollerato tutto questo, e versato nella regione milioni di euro finiti in tasche sbagliate, ogni stupore è fuori luogo. I tumulti odierni non sorprendono: se questi africani non son uomini, come s’intuisce nei video, impossibile che non sboccino, prima o poi, i Frutti dell’Ira di John Steinbeck. Scritto nel ’39 durante la Grande depressione, il libro Furore poteva sperare, almeno, nel New Deal di Roosevelt che noi non abbiamo.

Ne abbiamo tuttavia bisogno, di un New Deal, che metta fine all’apartheid e non si limiti a spostare immigrati come mandrie da un posto all’altro. Perfino i poliziotti, spiega Antonello Mangano, dicono che la risposta non può essere solo punitiva, che gli africani sono una comunità mite, che le migrazioni continueranno. Con l’estendersi delle catastrofi climatiche saranno enormi, gli esodi. Non è vero che la questione della cittadinanza viene per ultima. Le grandi crisi si affrontano con grandi scommesse iniziali, fondatrici di nuove solidarietà. Non è vero neppure che i liberal e la Chiesa sono retrogradi, come scrive Angelo Panebianco sul Corriere. Pensare in grande l’integrazione è preparare oggi il futuro.

Dicono che l’identità stiamo smarrendola, a forza di rinunciare alle nostre radici e di convivere con diversi che ci condannano al meticciato.

Anche questa è menzogna. In realtà siamo già cambiati: non perché incomba il meticciato tuttavia, ma perché la nostra identità non è più quella ­ curiosa, accogliente, porosa ­ che fu nostra quando emigravamo in massa e incontravamo violenza. È un ottimo viatico l’ultimo libro di Gian Antonio Stella (Negri Froci Giudei - L’eterna guerra contro l’altro, Rizzoli 2009): si scoprirà che la mutazione già è avvenuta, nel linguaggio della Lega e nella disinvoltura con cui si accettano segregazioni che trasformano l’uomo in non uomo.

L’identità che abbiamo perduto, la recuperiamo solo se non tradiamo quella vera inventandone una falsa. Solo se sblocchiamo le memorie e ricordiamo che le sommosse antimafia dei neri prolungano le rivolte italiane condotte, sempre in Calabria, da uomini come Peppe Valarioti e Giannino Losardo, i dirigenti comunisti uccisi dalle ’ndrine nel 1980. Solo se scopriremo che il nostro problema irrisolto non è l’identità italiana, ma l’identità umana. Le scuole non hanno bisogno delle quote del ministro Gelmini (non più di tre alunni su dieci per classe in tutta Italia, come se Gesù avesse imposto quote di accesso alla stalla di Betlemme: non più di tre Magi). Hanno bisogno di insegnare il mondo che muta. Altrimenti sì, è l’inferno di Rimbaud: «L’Inferno antico: quello di cui il Figlio dell’Uomo aperse le porte».

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Se questi sono uomini

di Barbara Spinelli, da La Stampa on line

Il futuro in cui siamo già immersi comincia nella piana di Gioia Tauro: a Rosarno in provincia di Reggio Calabria (un’autentica guerriglia urbana è ancora in corso), come a Castel Volturno e a Reggio stessa, dove la ’ndrangheta ha voluto intimidire i magistrati con un attentato alla procura generale. Il futuro comincia a Rosarno perché i principali problemi della nostra civiltà si addensano qui: le fughe di intere popolazioni dalla povertà e dalle guerre (guerre spesso scatenate dagli occidentali, generatrici non di ordine ma di caos); le vaste paure che s’insediano come nebbie, intossicando la vita degli immigrati e dei locali; le cruente cacce al diverso; il dilagare di una mafia esperta in controllo mondializzato.

A ciò si aggiunga l’impossibilità di arrestare migrazioni divenute inarrestabili, perché da tempo non si trovano italiani e cittadini di Paesi ricchi disposti a fare, allo stesso salario, i lavori fatti da africani. Si aggiunga l’ipocrisia di chi crede che la risposta consista in un’identità monoculturale da ritrovare.

E la menzogna di chi non sopporta lo sguardo inquieto e assicura: abbiamo già praticamente vinto le mafie, Gomorra appartiene al passato, è «un vecchio film in bianco e nero», come dice Maroni. Non per ultimo, si aggiunga lo Stato che perde il controllo del territorio e il monopolio della violenza: i neri a Rosarno combattono contro ronde private di locali, infiltrate da ’ndrangheta e armate di fucili. Il pensiero della Lega è egemonico e le rivolte vengono associate, dal ministro Maroni, non alle mafie ma all’immigrazione clandestina che si promette di azzerare sanando ogni male. È inganno anche questo. Quando in Francia s’infiammarono le banlieue, nel novembre 2005, Romano Prodi disse che il fenomeno, mondiale, non avrebbe risparmiato l’Italia. Fu deriso e non creduto.

Non era menzogna invece. È vero che l’Italia ha da anni una reputazione cupa, e impaura a tal punto immigrati e fuggitivi da suscitare, nei loro animi, il senso di schifo di cui parla Balotelli. Gran parte dell’Europa ha una cupa reputazione, ma questo non scusa i nostri misfatti e silenzi: il silenzio del sindacato soprattutto, abituato a proteggere pensionati e operai delle grandi industrie (ormai dei privilegiati) e del tutto afasico sull’intreccio mafia, immigrati, sfruttamento. Il massimo della spudoratezza è raggiunto quando i nostri ministri citano Zapatero o Sarkozy, quasi che gli errori altrui nobilitassero i nostri. Quasi che non esistesse, in Italia, quel sovrappiù che è il potere malavitoso. Le rivolte di questi giorni discendono dal fallimento dello Stato e lo rivelano. È la conclusione cui giunge il prezioso libro di Antonello Mangano, scritto sui ventennali disastri di Rosarno e Castel Volturno. Il titolo è: Gli africani salveranno Rosarno - E, probabilmente, anche l’Italia (Terrelibere.org 2009).

Le rivolte odierne hanno infatti una storia alle spalle, occultata dai politici e da molti giornali. Coloro che a Rosarno hanno reagito con ira distruttiva a un’ennesima aggressione contro i lavoratori neri (due feriti a colpi di carabina, giovedì) sono gli stessi che nel dicembre 2008 si ribellarono alla ’ndrangheta. Erano stati feriti quattro immigrati, e gli africani fecero qualcosa che da anni gli italiani non fanno più. Scesero in piazza, chiedendo più Stato, più giustizia, più legalità. Contribuirono alle indagini dei magistrati con coraggio, rompendo l’omertà e rischiando molto.

Denunciarono gli aggressori a volto scoperto, pur non essendo protetti da permessi di soggiorno. È vero dunque: gli africani salveranno Rosarno e forse l’Italia, come scrive anche Roberto Saviano. Poco prima della rivolta a Rosarno si erano ribellati gli africani a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, rispondendo a una sparatoria di camorristi che aveva ammazzato sei immigrati.

Quel che è accaduto dopo è una sciagura prevedibile, e per rendersene conto basta vedere come vivono, gli africani dell’antimafia. Sono eloquenti più di altri i video di Medici senza Frontiere, che parlano di crisi umanitaria nella piana di Gioia Tauro. Il rapporto che Msf ha redatto nel 2008 ha un titolo ominoso: «Una stagione all’inferno», come il poema di Rimbaud. Difficile descrivere altrimenti gli africani che vivono in stabilimenti industriali abbandonati, come la cartiera «La Rognetta» a Rosarno, o l’oleificio dismesso presso Gioia Tauro. Dentro l’oblò del silos per l’olio: giacigli di stracci. Tutt’intorno, fuochi e soprattutto rifiuti, montagne di rifiuti tra cui vagano, tristi ombre, esseri umani che si costruiscono alloggi di cartone o tende senza sanitari. Vedere simili paesaggi ricorda Gaza, gli slum pachistani: non è vita primitiva ma l’osceno connubio tra architetture industriali moderne, indigenza estrema e apartheid. Un africano dice sorridendo a Medici senza Frontiere: «Tra l’una e le quattro di notte inutile provare a dormire. Troppo freddo».

Ci nutriamo volontariamente di menzogne, come il protagonista nel poema di Rimbaud, quando diciamo che quest’oscenità nasce dall’eccessiva tolleranza verso i clandestini. Abbiamo chiamato noi gli africani a raccogliere aranci, consci che nessuno lo farà a quel prezzo e per tante ore (25 euro per un giorno di 16-18 ore; 5 euro vanno a caporali mafiosi e autisti di pullman). E la tolleranza denunciata da Maroni non è verso i clandestini ma verso le condizioni in cui vivono clandestini o regolari.

Dopo aver tollerato tutto questo, e versato nella regione milioni di euro finiti in tasche sbagliate, ogni stupore è fuori luogo. I tumulti odierni non sorprendono: se questi africani non son uomini, come s’intuisce nei video, impossibile che non sboccino, prima o poi, i Frutti dell’Ira di John Steinbeck. Scritto nel ’39 durante la Grande depressione, il libro Furore poteva sperare, almeno, nel New Deal di Roosevelt che noi non abbiamo.

Ne abbiamo tuttavia bisogno, di un New Deal, che metta fine all’apartheid e non si limiti a spostare immigrati come mandrie da un posto all’altro. Perfino i poliziotti, spiega Antonello Mangano, dicono che la risposta non può essere solo punitiva, che gli africani sono una comunità mite, che le migrazioni continueranno. Con l’estendersi delle catastrofi climatiche saranno enormi, gli esodi. Non è vero che la questione della cittadinanza viene per ultima. Le grandi crisi si affrontano con grandi scommesse iniziali, fondatrici di nuove solidarietà. Non è vero neppure che i liberal e la Chiesa sono retrogradi, come scrive Angelo Panebianco sul Corriere. Pensare in grande l’integrazione è preparare oggi il futuro.

Dicono che l’identità stiamo smarrendola, a forza di rinunciare alle nostre radici e di convivere con diversi che ci condannano al meticciato.

Anche questa è menzogna. In realtà siamo già cambiati: non perché incomba il meticciato tuttavia, ma perché la nostra identità non è più quella ­ curiosa, accogliente, porosa ­ che fu nostra quando emigravamo in massa e incontravamo violenza. È un ottimo viatico l’ultimo libro di Gian Antonio Stella (Negri Froci Giudei - L’eterna guerra contro l’altro, Rizzoli 2009): si scoprirà che la mutazione già è avvenuta, nel linguaggio della Lega e nella disinvoltura con cui si accettano segregazioni che trasformano l’uomo in non uomo.

L’identità che abbiamo perduto, la recuperiamo solo se non tradiamo quella vera inventandone una falsa. Solo se sblocchiamo le memorie e ricordiamo che le sommosse antimafia dei neri prolungano le rivolte italiane condotte, sempre in Calabria, da uomini come Peppe Valarioti e Giannino Losardo, i dirigenti comunisti uccisi dalle ’ndrine nel 1980. Solo se scopriremo che il nostro problema irrisolto non è l’identità italiana, ma l’identità umana. Le scuole non hanno bisogno delle quote del ministro Gelmini (non più di tre alunni su dieci per classe in tutta Italia, come se Gesù avesse imposto quote di accesso alla stalla di Betlemme: non più di tre Magi). Hanno bisogno di insegnare il mondo che muta. Altrimenti sì, è l’inferno di Rimbaud: «L’Inferno antico: quello di cui il Figlio dell’Uomo aperse le porte».

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martedì 12 gennaio 2010

ROSARNO E' L'ITALIA

riceviamo da Giorgio Grappi:


 
ROSARNO E' L'ITALIA

Qualche giorno fa noi, migranti e italiani, uomini e donne appartenenti ai coordinamenti, collettivi e reti di Bari, Bologna, Brescia, Mantova e basso mantovano, Milano, Padova, Roma, Torino abbiamo dichiarato di sostenere nei prossimi mesi la campagna politica per l’organizzazione anche in Italia dello sciopero delle migranti e dei migranti .

Negli stessi giorni nella Piana di Gioia Tauro è diventato realtà il sogno del leghista Gentilini di fare dei migranti “lepri a cui sparare”. La strage di Castel Volturno del settembre 2008 ci ricorda che non è la prima volta. Allora come oggi i migranti non hanno ceduto al ricatto e alla minaccia, ma di fronte alla violenza armata è stata loro offerta solo la fuga. Chi ha invocato l’intervento dello Stato ha avuto una risposta pronta: i migranti di Rosarno sono stati deportati in massa, mentre un ministro razzista, “cattivo” e coerente ora organizza l’espulsione degli sfruttati.

Nell’era del “pacchetto sicurezza”, in Italia si è aperta la caccia al migrante che alza la voce. Rosarno non è un puro frutto della criminalità: la violenza della ‘ndrangheta si è nutrita negli anni della legge Bossi-Fini e delle connivenze dello Stato. A tutto questo, il razzismo ormai diffuso ha fatto da perfetta cornice. Un razzismo istituzionale coltivato nel tempo e che oggi esplode di fronte alla crisi. Ma non dovrebbero essere necessari i morti ammazzati di Castel Volturno e i feriti di Rosarno per vedere che in Italia vige una forma di sfruttamento totale del lavoro favorita dalla legge Bossi-Fini, che autorizza a espellere i lavoratori quando non servono più o alzano la voce. La “fabbrica verde” del sud d’Italia, quella dove sono rifluiti i lavoratori espulsi dalle fabbriche in crisi del nord, non potrebbe funzionare senza quelli che accettano qualsiasi lavoro per mantenere il permesso e sono regolari persino secondo le leggi di questo Stato, senza quelli che aspettano per mesi un rinnovo, senza quelli che un permesso di soggiorno lo perdono o non lo avranno mai perché vige l’assurdo sistema delle quote, senza quelli che attendono il diritto d’asilo, senza quelli che sono criminalizzati e bollati dell’infamia (reale o meno, poco importa, purché giustifichi le “misure di sicurezza”) della clandestinità.

Diciamolo chiaro: Rosarno è l’Italia. Non solo l’Italia della Lega, ma quella delle leggi di uno Stato razzista e quella dei padroni che, nel sud come al nord, che siano o meno affiliati alla criminalità organizzata, sono disposti a tutto pur di pagare il salario più basso possibile.

La misura è colma da parecchio tempo. Ben vengano le testimonianze di civiltà, ma è necessario decidere davvero da che parte stare. La risposta a ciò che è successo non può risolversi in un presidio e in una festa. È necessario che la solidarietà vada oltre se stessa e si esprima dentro ai percorsi organizzativi che coinvolgono lavoratori e lavoratrici, migranti e italiani, nella preparazione dello sciopero del lavoro migrante in Italia, che non sarà solo lo sciopero dei migranti, ma di tutti coloro che si oppongono al modo in cui vengono trattati. Il ministro Calderoli ha deriso il progetto di uno sciopero affermando che i regolari non lo faranno mai, e che gli irregolari saranno espulsi. È necessario mostrare a tutti quelli come lui la forza che i migranti sono in grado di mettere in campo come protagonisti delle loro lotte. Protagonisti insieme a quegli uomini e a quelle donne che rifiutano il razzismo come pratica quotidiana di sfruttamento. Lo sciopero è la vera forza che oggi l’antirazzismo può mettere in campo. 

Coordinamento per lo sciopero del lavoro migrante in Italia

Per partecipare, sostenere, diffondere la campagna per lo sciopero del lavoro migrante in Italia:





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ROSARNO E' L'ITALIA

riceviamo da Giorgio Grappi:


 
ROSARNO E' L'ITALIA

Qualche giorno fa noi, migranti e italiani, uomini e donne appartenenti ai coordinamenti, collettivi e reti di Bari, Bologna, Brescia, Mantova e basso mantovano, Milano, Padova, Roma, Torino abbiamo dichiarato di sostenere nei prossimi mesi la campagna politica per l’organizzazione anche in Italia dello sciopero delle migranti e dei migranti .

Negli stessi giorni nella Piana di Gioia Tauro è diventato realtà il sogno del leghista Gentilini di fare dei migranti “lepri a cui sparare”. La strage di Castel Volturno del settembre 2008 ci ricorda che non è la prima volta. Allora come oggi i migranti non hanno ceduto al ricatto e alla minaccia, ma di fronte alla violenza armata è stata loro offerta solo la fuga. Chi ha invocato l’intervento dello Stato ha avuto una risposta pronta: i migranti di Rosarno sono stati deportati in massa, mentre un ministro razzista, “cattivo” e coerente ora organizza l’espulsione degli sfruttati.

Nell’era del “pacchetto sicurezza”, in Italia si è aperta la caccia al migrante che alza la voce. Rosarno non è un puro frutto della criminalità: la violenza della ‘ndrangheta si è nutrita negli anni della legge Bossi-Fini e delle connivenze dello Stato. A tutto questo, il razzismo ormai diffuso ha fatto da perfetta cornice. Un razzismo istituzionale coltivato nel tempo e che oggi esplode di fronte alla crisi. Ma non dovrebbero essere necessari i morti ammazzati di Castel Volturno e i feriti di Rosarno per vedere che in Italia vige una forma di sfruttamento totale del lavoro favorita dalla legge Bossi-Fini, che autorizza a espellere i lavoratori quando non servono più o alzano la voce. La “fabbrica verde” del sud d’Italia, quella dove sono rifluiti i lavoratori espulsi dalle fabbriche in crisi del nord, non potrebbe funzionare senza quelli che accettano qualsiasi lavoro per mantenere il permesso e sono regolari persino secondo le leggi di questo Stato, senza quelli che aspettano per mesi un rinnovo, senza quelli che un permesso di soggiorno lo perdono o non lo avranno mai perché vige l’assurdo sistema delle quote, senza quelli che attendono il diritto d’asilo, senza quelli che sono criminalizzati e bollati dell’infamia (reale o meno, poco importa, purché giustifichi le “misure di sicurezza”) della clandestinità.

Diciamolo chiaro: Rosarno è l’Italia. Non solo l’Italia della Lega, ma quella delle leggi di uno Stato razzista e quella dei padroni che, nel sud come al nord, che siano o meno affiliati alla criminalità organizzata, sono disposti a tutto pur di pagare il salario più basso possibile.

La misura è colma da parecchio tempo. Ben vengano le testimonianze di civiltà, ma è necessario decidere davvero da che parte stare. La risposta a ciò che è successo non può risolversi in un presidio e in una festa. È necessario che la solidarietà vada oltre se stessa e si esprima dentro ai percorsi organizzativi che coinvolgono lavoratori e lavoratrici, migranti e italiani, nella preparazione dello sciopero del lavoro migrante in Italia, che non sarà solo lo sciopero dei migranti, ma di tutti coloro che si oppongono al modo in cui vengono trattati. Il ministro Calderoli ha deriso il progetto di uno sciopero affermando che i regolari non lo faranno mai, e che gli irregolari saranno espulsi. È necessario mostrare a tutti quelli come lui la forza che i migranti sono in grado di mettere in campo come protagonisti delle loro lotte. Protagonisti insieme a quegli uomini e a quelle donne che rifiutano il razzismo come pratica quotidiana di sfruttamento. Lo sciopero è la vera forza che oggi l’antirazzismo può mettere in campo. 

Coordinamento per lo sciopero del lavoro migrante in Italia

Per partecipare, sostenere, diffondere la campagna per lo sciopero del lavoro migrante in Italia:





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domenica 10 gennaio 2010

Rosarno, l'omelia di don Pino: "I cristiani aiutano chi sbaglia"

(Repubblica on line) dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO

ROSARNO - E' domenica, giorno di festa ma anche di preghiera. E di riflessione. La città si sveglia un po' stordita, confusa e incerta. Le violenze dei giorni scorsi, la caccia all'emigrante che è proseguita ancora nella notte hanno lasciato il segno. Nella parte bassa di Rosarno, le ruspe dei vigili del fuoco sono già al lavoro. Smantellano con i loro lunghi bracci dentati le mura fatiscenti di Rognetta, il piccolo campo dove vivevano trecento immigrati africani. Nella parte alta, davanti al palazzo del Comune, spicca il Duomo. Sono le 10 e per la prima volta, dopo tante settimane, la chiesa torna a riempirsi di fedeli. I bambini, a decine, nelle prime file. Gli adulti, molti anziani, dietro. Sulla sinistra c'è ancora il presepe, la grotta, Giuseppe e Maria piegati su Gesù, il bue e l'asino. Sui nastri rossi che l'avvolgono ci sono parole che in queste ore acquistano ancora più valore. Solidarietà, tolleranza, rispetto, pace, uguaglianza.


Don Pino Varrà, parroco di Rosarno, parte da lontano. Afffronta la parabola del Vangelo dedicata al battesimo. La nascita, il riconoscimento ufficiale, l'eguaglianza di tutti i bambini di fronte a Dio. Parla ai più piccoli che gli siedono davanti. Parte da loro per arrivare agli altri. Che lo ascoltano, che intuiscono, che si aspettano qualcosa. Nelle ultime file sostano gli uomini del paese. Molti, in questi giorni, hanno partecipato alle violenze, hanno brandito bastoni e catene. Hanno dato man forte ai blocchi sulla statale per Gioia Tauro. Giù alla vecchia fabbrica di Rognetta e poi più in là, verso l'altro campo dei dannati, all'ex oleificio trasformato in un campo di disperati. Adesso sono qui. Cercano conforto e comprensione.

"Bisogna aiutare i fratelli che sbagliano", spiega il sacerdote. "E in questi giorni che stiamo vivendo qualcuno ha sbagliato. Ma questo non ci autorizza a colpirlo, a inseguirlo, a ucciderlo, a cacciarlo. Ci obbliga a capire, a fermarci. Per non sbagliare più. Questo dobbiamo fare se vogliamo essere dei cristiani". Il parroco lascia l'altare, scende tra la gente. Parla a braccio, stringe con le mani il microfono. "Se ho un fratello in famiglia non posso picchiarlo o cacciarlo di casa perché ha rotto un vaso. Devo andargli incontro, sostenerlo, capire cosa è accaduto". Allarga le braccia, sorride: "Vedo finalmente questa chiesa piena, sono contento che moltissimi tra voi sono tornati. Ma vedo anche che manca qualcuno". Don Pino sospira, si rivolge ai bambini. "Lo vedete anche voi. Non c'è John. Vi ricordate di lui? Veniva ogni domenica". I bambini annuiscono. I genitori, dietro, restano in silenzio. Tesi e consapevoli. "Mancano anche Christian, Luarent. E Didou, il piccolo Didou. Mancano i suoi genitori. Erano come voi, con la pelle più scura, venivano dall'Africa. Non ci sono perché li hanno cacciati".

E' il culmine dell'omelia. E' il momento dell'appello. E del rimprovero: "Mi rivolgo ai più grandi, ai genitori. Perché loro hanno un ruolo importante, formativo. A voi dico: non vi fate trascinare verso ragionamenti e reazioni che non sono da cristiani. E' facile dire: abbiamo ragione noi. Quando siete nati, Dio è stato chiaro: questo è mio figlio. Lo siamo tutti. Tutti abbiamo diritto alla vita, una vita dignitosa, che non ci umili. Anche quelli di un altro colore, anche quelli che sbagliano sempre. Se vogliamo essere cristiani noi non possiamo avere sentimenti di odio e di disprezzo".

Il parroco adesso è al centro della navata. Si rivolge al suo gregge che appare ancora più smarrito. Alza la voce, come un tuono: "Possiamo anche dire che abbiamo sbagliato. Che i miei fratelli, bianchi e neri hanno sbagliato. Ma lo dobbiamo dire sempre. Non solo quando qualcuno ci sfascia la macchina. Lo dobbiamo sostenere con forza anche quando altri fanno delle cose ancora più gravi. Cose terribili. Dobbiamo avere il coraggio di gridare e denunciare". Il sacerdote indica il presepe: "Non avrebbe senso aver allestito questa opera. Non avrebbe senso festeggiare il Natale. Meglio distruggerlo e metterlo sotto i piedi. Dobbiamo celebrarlo convinti dei valori che lo rappresentano. Perché crediamo nella misericordia e nella solidarietà. Se invece non abbiamo la forza di ribbellarci ai soprusi e alle ingiustizie e siamo pronti alle violenze nei confronti dei più deboli, allora non veniamo più in chiesa. Dio saprà giudicare. Saprà chi sono i suoi figli".

Il Duomo è avvolto da un silenzio pesante. Molti muovono nervosi le gambe. Don Pino è stato chiarissimo. Ha colpito nel segno. E' riuscito a scavare nell'animo della Rosarno ferita e confusa. "Non mi ero preparato alcuna omelia. Ho detto queste cose perché le sentivo. Perché mi sono state suggerite. Non da qualcuno tra voi. Ma da Dio. Potrò sembrarvi presuntuoso. Ma Dio, che ha assistito alle violenze di questi giorni, mi ha chiesto di dirle ai suoi figli. Figli come voi. Figli che hanno sbagliato e che vanno aiutati a non sbagliare più".

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Rosarno, l'omelia di don Pino: "I cristiani aiutano chi sbaglia"

(Repubblica on line) dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO

ROSARNO - E' domenica, giorno di festa ma anche di preghiera. E di riflessione. La città si sveglia un po' stordita, confusa e incerta. Le violenze dei giorni scorsi, la caccia all'emigrante che è proseguita ancora nella notte hanno lasciato il segno. Nella parte bassa di Rosarno, le ruspe dei vigili del fuoco sono già al lavoro. Smantellano con i loro lunghi bracci dentati le mura fatiscenti di Rognetta, il piccolo campo dove vivevano trecento immigrati africani. Nella parte alta, davanti al palazzo del Comune, spicca il Duomo. Sono le 10 e per la prima volta, dopo tante settimane, la chiesa torna a riempirsi di fedeli. I bambini, a decine, nelle prime file. Gli adulti, molti anziani, dietro. Sulla sinistra c'è ancora il presepe, la grotta, Giuseppe e Maria piegati su Gesù, il bue e l'asino. Sui nastri rossi che l'avvolgono ci sono parole che in queste ore acquistano ancora più valore. Solidarietà, tolleranza, rispetto, pace, uguaglianza.


Don Pino Varrà, parroco di Rosarno, parte da lontano. Afffronta la parabola del Vangelo dedicata al battesimo. La nascita, il riconoscimento ufficiale, l'eguaglianza di tutti i bambini di fronte a Dio. Parla ai più piccoli che gli siedono davanti. Parte da loro per arrivare agli altri. Che lo ascoltano, che intuiscono, che si aspettano qualcosa. Nelle ultime file sostano gli uomini del paese. Molti, in questi giorni, hanno partecipato alle violenze, hanno brandito bastoni e catene. Hanno dato man forte ai blocchi sulla statale per Gioia Tauro. Giù alla vecchia fabbrica di Rognetta e poi più in là, verso l'altro campo dei dannati, all'ex oleificio trasformato in un campo di disperati. Adesso sono qui. Cercano conforto e comprensione.

"Bisogna aiutare i fratelli che sbagliano", spiega il sacerdote. "E in questi giorni che stiamo vivendo qualcuno ha sbagliato. Ma questo non ci autorizza a colpirlo, a inseguirlo, a ucciderlo, a cacciarlo. Ci obbliga a capire, a fermarci. Per non sbagliare più. Questo dobbiamo fare se vogliamo essere dei cristiani". Il parroco lascia l'altare, scende tra la gente. Parla a braccio, stringe con le mani il microfono. "Se ho un fratello in famiglia non posso picchiarlo o cacciarlo di casa perché ha rotto un vaso. Devo andargli incontro, sostenerlo, capire cosa è accaduto". Allarga le braccia, sorride: "Vedo finalmente questa chiesa piena, sono contento che moltissimi tra voi sono tornati. Ma vedo anche che manca qualcuno". Don Pino sospira, si rivolge ai bambini. "Lo vedete anche voi. Non c'è John. Vi ricordate di lui? Veniva ogni domenica". I bambini annuiscono. I genitori, dietro, restano in silenzio. Tesi e consapevoli. "Mancano anche Christian, Luarent. E Didou, il piccolo Didou. Mancano i suoi genitori. Erano come voi, con la pelle più scura, venivano dall'Africa. Non ci sono perché li hanno cacciati".

E' il culmine dell'omelia. E' il momento dell'appello. E del rimprovero: "Mi rivolgo ai più grandi, ai genitori. Perché loro hanno un ruolo importante, formativo. A voi dico: non vi fate trascinare verso ragionamenti e reazioni che non sono da cristiani. E' facile dire: abbiamo ragione noi. Quando siete nati, Dio è stato chiaro: questo è mio figlio. Lo siamo tutti. Tutti abbiamo diritto alla vita, una vita dignitosa, che non ci umili. Anche quelli di un altro colore, anche quelli che sbagliano sempre. Se vogliamo essere cristiani noi non possiamo avere sentimenti di odio e di disprezzo".

Il parroco adesso è al centro della navata. Si rivolge al suo gregge che appare ancora più smarrito. Alza la voce, come un tuono: "Possiamo anche dire che abbiamo sbagliato. Che i miei fratelli, bianchi e neri hanno sbagliato. Ma lo dobbiamo dire sempre. Non solo quando qualcuno ci sfascia la macchina. Lo dobbiamo sostenere con forza anche quando altri fanno delle cose ancora più gravi. Cose terribili. Dobbiamo avere il coraggio di gridare e denunciare". Il sacerdote indica il presepe: "Non avrebbe senso aver allestito questa opera. Non avrebbe senso festeggiare il Natale. Meglio distruggerlo e metterlo sotto i piedi. Dobbiamo celebrarlo convinti dei valori che lo rappresentano. Perché crediamo nella misericordia e nella solidarietà. Se invece non abbiamo la forza di ribbellarci ai soprusi e alle ingiustizie e siamo pronti alle violenze nei confronti dei più deboli, allora non veniamo più in chiesa. Dio saprà giudicare. Saprà chi sono i suoi figli".

Il Duomo è avvolto da un silenzio pesante. Molti muovono nervosi le gambe. Don Pino è stato chiarissimo. Ha colpito nel segno. E' riuscito a scavare nell'animo della Rosarno ferita e confusa. "Non mi ero preparato alcuna omelia. Ho detto queste cose perché le sentivo. Perché mi sono state suggerite. Non da qualcuno tra voi. Ma da Dio. Potrò sembrarvi presuntuoso. Ma Dio, che ha assistito alle violenze di questi giorni, mi ha chiesto di dirle ai suoi figli. Figli come voi. Figli che hanno sbagliato e che vanno aiutati a non sbagliare più".

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