mercoledì 5 agosto 2009

Giovanni Jervis - La forza di passioni condivise

di Stefano Mistura, da Il Manifesto on line
Dagli anni con Basaglia a quelli dell'insegnamento vissuto come missione. Vicenda anche etica, che si intreccia con la storia di Resistenza e antifascismo. Un ricordo dello psichiatra scomparso domenica
Alla fine degli anni Sessanta, era facile stringere amicizia. Non mancava, in quegli anni, il coraggio di mirare a obiettivi precisi e in tal modo costruire forme di comune e condivisa appartenenza. Accadde così anche quando l'allora trentaquattrenne Gionni - con questo nome conoscenti e amici chiamavano Giovanni Jervis - e io, che ero poco più che un ragazzo, ci incontrammo. Era il '67 e il nostro legame è durato tanto a lungo che è difficile realizzare che proprio ora quell'appartenenza, quella condivisione, quel vivere comune fatto di studi, discussioni e lavoro si è interrotto per sempre a causa della sua morte, avvenuta domenica scorsa.

Un maestro raro
Detto così, tutto appare semplice, ma in realtà nei giorni trascorsi all'Ospedale Psichiatrico di Gorizia, dove Jervis lavorava nel gruppo costituitosi attorno a Franco Basaglia, prendeva forma un modo nuovo di insegnare e di «trattare» con i giovani. C'era un clima di attenzione e cure verso di loro di cui presto si sarebbe persa traccia. Giovanni Jervis è stato un maestro raro per tanti, soprattutto perché non ha mai desiderato «allievi conformi», né ha mai mostrato di subire il fascino delle tentazioni scolastiche pure e semplici. Con Jervis si poteva nutrire la naturale attitudine alla critica e anche intensificare la propensione a interrogarsi reciprocamente e a fare domande. Pur muovendo da un rigore scientifico e intellettuale ricercato e praticato fino all'acribia, con lui, però, non ci si sentiva mai «pieni di certezze», non si era mai pronti a dare sempre e comunque risposte, si preferiva piuttosto apparire alla ricerca di un altro orizzonte capace di cogliere meglio la realtà in cui eravamo immersi. Non è possibile mantenere il silenzio quando si riflette sul rapporto tra Franco Basaglia e Giovanni Jervis: per oltre dieci anni - da vivi - e poi fino a oggi, quando anche Gionni non c'è più, si è fantasticato e si fantastica su un presunto, profondo dissidio tra i due. Dissidio che è stato, anche recentemente, enfatizzato in occasione dell'uscita dell'ultimo libro di Jervis, La razionalità negata (Bollati-Boringhieri, 2008), dedicato all'origine e al destino della legge di riforma psichiatrica in Italia.
Se si fa riferimento alle diverse e complesse personalità di questi due grandi psichiatri, alle loro diverse maniere di pensare, al diverso modo che avevano di affrontare i problemi concreti, al modo altrettanto diverso di impostare le loro relazioni interpersonali, allo «stile di comando» quasi incomparabile, alle diverse (almeno in parte) ascendenze culturali, non si può che constatare che erano due persone per tanti versi agli antipodi. Una era certamente più passionale dell'altra, ma spesso erano in grado di completarsi a vicenda. Detto della diversità di carattere e disposizione d'animo, non si può però sostenere che avessero valori di riferimento inconciliabili o che, peggio, Jervis, il più giovane tra i due, potesse essere considerato un «traditore» della giusta causa. Entrambi, con le modalità a loro peculiari, su terreni solo apparentemente lontani, hanno saputo tenere viva la capacità di indignarsi di fronte all'ingiustizia, alle forme assistenziali segnate dall'abbandono, alla cialtroneria professionale che si disinteressa delle storie sociali come di quelle individuali. Entrambi si irritavano quando vedevano «aleggiare la forza dell'ideologia». Non sopportavano la posizione tutti quelli - e non erano pochi - che sostenevano l'inesistenza delle malattie mentali, magari attribuendo l'origine del disturbo psichico a qualche causa sociale. Basaglia e Jervis sapevano distinguere il problema della genesi della malattia da quello della sua gestione terapeutico-assistenziale. La tendenza a descriverli, oggi, come due eterni duellanti è quanto meno ingenerosa. Certo erano diversi, ma nel loro patrimonio culturale non albergava alcun semplicismo e non ragionavano servendosi di formulette riduttive.
Per quasi tutti gli anni Settanta, Jervis si è dedicato a una vasta opera di costruzione istituzionale. Mentre proseguiva la sacrosanta lotta contro la violenza manicomiale, ebbe l'occasione di sperimentare nella provincia di Reggio Emilia la prima rete di Centri di Salute Mentale ordinata e coerente.
Vocazione e pratica istituzionale
Ancora oggi i Servizi Psichiatrici Territoriali più evoluti in Italia si ispirano direttamente o indirettamente a quella esperienza. In particolare, lo si può affermare per quei Dipartimenti di Salute Mentale, ancora non troppo numerosi malauguratamente, che comprendono, accanto alla psichiatria per gli adulti, anche la neuropsichiatria infantile e adolescenziale, il Servizio di consulenza per le altre agenzie socio-sanitarie, quello per le tossicodipendenze e quello per il servizio psichiatrico negli istituti penitenziari. Il frutto teorico di quegli anni è raccolto in tre libri: Manuale critico di psichiatria, Il buon rieducatore editi da Feltrinelli nel 1975 e nel 1977 e, appunto, l'ultimo lavoro dal titolo La razionalità negata.
Dalla fine degli anni Settanta Jervis ha abbracciato la sua vocazione più genuina: l'insegnamento. È stato un maestro rigoroso, riflessivo, critico e autocritico, teso al continuo approfondimento, dotato di una straordinaria virtù: la chiarezza. Non ha mai lasciato intendere di potere dare risposte definitive, qualsiasi fosse il campo che stesse affrontando. Pur essendo un uomo pubblico è rimasto sempre e assolutamente schivo, infastidito da ogni forma di demagogia, di arrivismo, di sensazionalismo, di superficialità. Importanti sono anche i libri che racchiudono corsi e percorsi del suo insegnamento presso la facoltà di Psicologia dell'Università La Sapienza di Roma, da Presenza e identità (Garzanti, 1992) alla Conquista dell'identità (Feltrinelli, 1997), dai Fondamenti di psicologia dinamica (Feltrinelli, 1995) alle Prime lezioni di psicologia (Laterza, 1997). Dagli anni Novanta, fino alla sua scomparsa, Jervis si è cimentato soprattutto nel campo della psicoantropologia sociale divenendone un instancabile promotore culturale e lavorando con le più importanti case editrici italiane. I suoi libri più recenti, su tutti Contro il relativismo (Laterza, 1995) e Pensare dritto, pensare storto (Bollati-Boringhieri, 1997), risentono ancora dell'influsso metodologico di Ernesto De Martino, suo maestro degli anni giovanili, ma appaiono parimenti segnati da una nuova ansia di verifica scientifica scevra di ogni autoreferenzialità.
Con molto dolore, mi trovo quindi costretto a «parlare di» Giovanni Jervis invece che parlare «a lui». Costretto a parlare del maestro e dell'amico che resta per molti, mentre è vivissimo il desiderio purtroppo brutalmente interrotto di discutere con lui, ascoltando il tono inconfondibile della sua voce, di ascoltarlo parlare di tante cose sempre con un'intelligenza così lucida, con un ragionamento così suadente, con una generosità mai stanca. La sua lucidità talvolta colpiva duro, era terribile, non lasciava scampo, non offriva facili concessioni né debolezze, ma comunque priva di ogni arroganza e sicurezza negativa che sono così spesso presenze compiaciute delle coscienze critiche. La sua opera, vale a dire il suo insegnamento, la sua costruzione istituzionale, i suoi libri, sono testimonianze di una forza mai doma, pronta alla riflessione e a disegnare progetti. Forza e progetto che non sono venuti meno, anche nei giorni della malattia.

Rigore familiare
Senza indulgere a ricordi sulla sua vita personale, una cosa non si può comunque tacere e riguarda l'assoluta impossibilità per Jervis di cadere in qualche forma di opportunismo, in particolare se erano in gioco interessi individuali. Questa attitudine verso un'etica personale piuttosto dura gli derivava dall'atmosfera della sua famiglia d'origine. Gli amici e i lettori se ne resero conto quando Gionni e la sorella Paola decisero di mettere a disposizione e rendere in tal modo pubblica la documentazione che attestava la cattura, la prigionia e la fucilazione da parte dei nazifascisti del padre Guglielmo. Se si vuole comprendere qualcosa della disposizione etica di Jervis - e da quale clima culturale avesse ricevuto il calco - è sufficiente leggere l'edificante Un filo tenace (Bollati-Boringhieri, 2008) che raccoglie le lettere dal carcere di Guglielmo Jervis, noto col nome di battaglia di «Willy», medaglia d'oro della Resistenza. All'epoca, Giovanni aveva dieci anni ed era già largamente consapevole di molte cose sul piano politico. Un giorno del 1969 ebbi occasione di parlarne con Vittorio Foa che conservava memoria nitida dell'«affare Jervis» e ricordava la già sorprendente maturità del «piccolo Gionni».
Mi è capitato molte volte di incontrare persone che avevano avuto difficoltà a capire taluni aspetti della personalità di Jervis. Assumevano come intolleranza e rigidità, ciò che era semplicemente rifiuto della falsa coscienza e della demagogia. Indubbiamente il trascorrere del tempo aiuterà a comprendere meglio quanto il lavoro di Giovanni Jervis sia stato prezioso.


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