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sabato 17 ottobre 2009

Il laboratorio italiano

di Pierluigi Sullo [15 Ottobre 2009]
Traducción: Ruben Montedónico.
Pubblicato da La Jornada di Città del Messico sabato 10 ottobre 2009

Quando gli amici de La Jornada, grande quotidiano di Città del Messico, mi hanno chiesto un articolo, all’indomani della bocciatura del Lodo Alfano, mi sono chiesto se sarei stato in grado di far capire a un lettore messicano cosa diavolo capita in Italia. Giudicate voi. L’articolo è stato pubblicato sabato 10 ottobre. In calce, la traduzione in spagnolo.


L’Italia sta stabilendo un record: sperimentare, da paese del primo mondo e membro dell’Unione europea, della Nato e del G8, la trasformazione traumatica del suo assetto politico e istituzionale: da democrazia rappresentativa a qualcos’altro, le cui forme sono sconosciute ma la cui sostanza è evidente, un principato o dittatura monocratica che elimina la supremazia del parlamento sull’esecutivo, com’è scritto nella Costituzione del 1947, annulla l’indipendenza della magistratura, completa l’allineamento dei media al servizio del governo.
Pare una affermazione eccessiva. Molte voci, nel dibattito pubblico, replicano: «Ma noi non siamo una repubblica delle banane sudamericana». I pregiudizi sono duri a morire, e quel che sta accadendo in America latina, i movimenti sociali e i governi indipendenti dagli Usa, è per lo più ignoto, da noi. Tanto più che le forme della democrazia, fin qui, restano in piedi, come le facciate delle case dei villaggi del West nel film di Hollywood. Di più: la resistenza è forte, anche nelle istituzioni, come testimonia la sentenza della Corte costituzionale che qualche giorno fa ha annullato la legge grazie alla quale le quattro maggiori cariche dello Stato, il presidente della repubblica, i presidenti dei due rami del parlamento e soprattutto il presidente del consiglio, godevano di una sostanziale immunità, di fronte alla legge, per la durata del loro mandato. O come mostra, ancora, la grande manifestazione – centinaia di migliaia di persone in piazza a Roma – organizzata dal sindacato dei giornalisti a difesa della libertà di stampa, dopo gli attacchi del capo del governo a giornali e trasmissioni televisive che ne criticano scelte e atteggiamenti. Così, parrebbe che l’integrità dell’assetto costituzionale e i tentativi di modificarlo si scontrino tra loro, mantenendo un certo equilibrio.
Ma a guardare più da vicino, ed esercitando un poco di memoria, si vede come negli ultimi mesi siano arrivati a un punto critico processi di mutamento sostanziale del sistema politico e istituzionale cominciati una quindicina di anni fa con lo scandalo di Tangentopoli, che distrusse i partiti dominanti della cosiddetta «prima repubblica»; in particolare il partito-Stato della Democrazia cristiana, e con la «scesa in campo», nel 1994, di un potente delle televisioni, della finanza, dell’editoria, dell’edilizia e di molte altre cose, Silvio Berlusconi. Il quale introdusse un ingrediente fino ad allora sconosciuto: il marketing elettorale, gonfiato dalle sue televisioni, attorno a un partito-azienda, o partito-prodotto, chiamato Forza Italia. E soprattutto inaugurò la figura di un capo di governo che si comportava come il presidente di un consiglio di amministrazione, cioè lui stesso, dotato potenzialmente di ogni potere, dunque spogliato di ogni cultura democratica, che è appunto quella dell’equilibrio tra poteri che i costituenti, dopo il fascismo, avevano prudentemente disegnato. La frantumazione sociale causata dal liberismo, che ha indebolito le organizzazioni dei lavoratori e le sinistre, e l’illusione dell’arricchimento individuale, nonché il fenomeno della Lega nel nord del paese, che rappresenta appunto la spinta a competere nel mercato mondiale da parte di un popolo di piccoli industriali, hanno fatto da scenario positivo per l’avventura in politica di Berlusconi. Il cui messaggio fondamentale è stato, come fu per Napoleone III nel racconto di Marx, «arricchitevi!». Ovvero: potete tutti diventare ricchi, se mi imitate e mi sostenete.
La vita politica italiana è stata dominata, per un quindicennio, da questo personaggio e da questa «narrazione», e le due occasioni in cui il centrosinistra, con il suo discorso liberista moderato, ha prevalso alle elezioni, non sono state che parentesi. Ed ora il processo precipita in qualcos’altro. L’apparente rispetto di Berlusconi per le forme della democrazia, rendendola quel che qualcuno, utilizzando Guy Debord, ha chiamato «democrazia spettacolare», si sta sbriciolando. Quel che sta emergendo è il nucleo duro, dirigista e intollerante, del berlusconismo. Negli ultimi mesi una serie di scandali avrebbero dovuto indurlo a dimettersi o a moderare i toni. La clamorosa scoperta di un giro di prostitute che partecipavano a «feste» nella casa romana del primo ministro, ad esempio. Gli attacchi forsennati alla stampa e alle poche trasmissioni televisive che lo incalzano su queste faccende. I numerosi processi per corruzione e altri reati in cui è coinvolto, ultimo quello sulla Mondadori, grande casa editrice di cui Berlusconi si assicurò la proprietà, anni fa, corrompendo un giudice. Le ricorrenti voci sul fatto che i processi per le stragi di mafia dei primi anni novanta lo implicherebbero, cosa a cui lui stesso alluse in uno dei consueti comizi contro i «giudici rossi». Infine, appunto, la bocciatura, da parte della Corte costituzionale, della legge sull’impunità.
A tutto questo Berlusconi ha reagito con insulti al presidente della repubblica e alla Suprema corte, favorendo campagne di stampa diffamatorie contro i suoi avversari interni, come il presidente della camera Fini, cercando di impadronirsi definitivamente della tv pubblica, la Rai, riducendo il parlamento a un notaio degli atti del governo [il 90 per cento delle leggi approvate sono di iniziativa dell’esecutivo, da un anno in qua].
Ma questa è solo la superficie istituzionale, per così dire. La legge che ha introdotto il reato di «clandestinità», per cui è un migrante è colpevole per il solo fatto di essere in Italia senza documenti, ha creato un clima di paura e di caccia all’uomo. Altre leggi hanno del tutto escluso le comunità locali nei procedimenti per l’approvazione di «grandi opere», il che equivale, per citare i bolscevichi, a un «liberismo di guerra». La crisi economica, che sta provocando un drammatico aumento della disoccupazione, viene semplicemente negata dal governo, che non può abbandonare facilmente il messaggio dell’«arricchitevi». Mentre la campagna sulla «sicurezza» ha spinto nelle strade reparti dell’esercito, presuntamente alla ricerca di delinquenti, e legittimato le cosiddette «ronde», gruppi di civili che si sostituiscono alle forze dell’ordine. La spinta della Lega nord non solo verso un regime anche formalmente razzista, ma per il «federalismo fiscale», ossia la sottrazione delle regioni del nord dalla fiscalità generale, base dello Stato, hanno accentuato lo squilibrio già molto grave, e storico, tra sud e nord del paese.
L’Italia è in questo momento un paese molto interessante, purtroppo per i motivi sbagliati. La determinazione di Berlusconi nel restare al potere ad ogni costo può provocare eventi imprevedibili e, appunto, modificare l’assetto istituzionale democratico-liberale. In che tempi e con che mezzi nessuno lo sa, nemmeno il «premier». Siamo, come direbbe Almodovar, sull’orlo di una crisi di nervi, forse anche oltre.
El laboratorio italiano
Pierluigi Sullo*

Italia está imponiendo récord: como país del primer mundo, miembro de la Unión Europea, de la Organización del Tratado del Atlántico Norte (OTAN) y del G-8, experimenta la transformación traumática de su ordenamiento político e institucional; de una democracia representativa va hacia otra cosa, cuya forma aún es desconocida pero sostenida y evidente, como un principado o una dictadura unipersonal, que elimina la supremacía del Legislativo sobre el Ejecutivo –según lo ordena la Constitución de 1947–, anula la independencia del Poder Judicial y se complementa con la alineación de los medios de comunicación que se ponen al servicio del gobierno.
Lo anterior puede parecer una afirmación excesiva. Muchas voces replican: Nosotros no somos una republiqueta bananera. Los prejuicios se niegan a morir, y aquello que acontece en América Latina, los movimientos sociales y los gobiernos independientes de Estados Unidos, son ignorados por gran parte de nuestro público. Otro tanto ocurre con las formas de democracia en esas latitudes: al fin, lo que predomina son las visiones estereotipadas que nos aportaron las películas de Hollywood.
En contrasentido, la resistencia aquí es fuerte por parte de las instituciones, como lo testimonia la sentencia del Tribunal Constitucional que en estos días anuló la ley por la cual los cuatro principales cargos del gobierno estatal –el presidente de la república, los presidentes de cada rama del Legislativo y sobre todo el presidente del consejo de gobierno– gozaban de inmunidad especial durante sus mandatos.
Otro tanto exhiben ahora las grandes manifestaciones, como la organizada por el sindicato de periodistas –que reunió a centenares de miles de personas en Roma– en defensa de la libertad de expresión, tras los ataques del gobierno a los periódicos y a las transmisiones televisivas especialmente críticas y mordaces. Así, entonces, pareciera que la confrontación entre los defensores de la integridad del ordenamiento constitucional y quienes pretenden modificarlo se encuentran, ambas, en cierto equilibrio.
Pero si se observa más de cerca, y se ejercita la memoria, se ve cómo en los últimos meses han arribado a un punto crítico los procesos de cambios sustanciales en el sistema político e institucional, comenzando una quincena de años con el escándalo de Tangentopoli1, que destruye a los partidos dominantes de la considerada primera república, en particular el partido (Estado) de la Democracia Cristiana, y con el surgimiento –a partir de 1994– de un poderoso empresario de las televisoras, las finanzas, las editoriales, las constructoras y muchas otras cosas: Silvio Berlusconi. Éste introdujo en su momento un ingrediente novedoso, hasta ese momento desconocido, el marketing electoral –propulsado por los aires de sus televisoras– en torno a su partido-hacienda, su partido-producto llamado Forza Italia. Pero, sobre todo, instaló la figura de un “capo de gobierno” que se comportó como el presidente de un consejo de administración; es decir, idéntico a éste, dotado potencialmente de todos los poderes –aunque despojado de cualquier cultura democrática respetuosa de la máxima que otorga equilibrio entre los poderes constituidos–, desde un fascismo largamente proyectado.
El rompimiento social causado por el liberalismo, que debilitó las organizaciones de trabajadores y a la izquierda con las ilusiones del enriquecimiento individual, así como la Liga del Norte del país –representante ni más ni menos del impulso para competir en el mercado mundial por parte de un sector de pequeños industriales– montaron un escenario positivo para la aventura política de Berlusconi. Su mensaje político fundamental, como fue el de Napoleón III en la narración de Marx, ¡arriésguense! Claro: todos pueden volverse ricos, si me imitan y me sostienen.
La vida política italiana ha estado dominada, durante tres lustros, por este personaje con este mensaje, y en las dos ocasiones en los que la centroizquierda, con un discurso liberal moderado, ha ganado las elecciones, no han sido más que un paréntesis. Ahora el proceso institucional se precipita hacia otro lado. El aparente respeto de Berlusconi por las formas de la democracia, asegurando que él es sólo uno más, utilizando lo que Guy Debord llama democracia espectacular, se está desmenuzando. Aquello que está emergiendo es el núcleo duro, dirigista e intolerante del berlusconismo. En los últimos meses una serie de escándalos debieron inducirlo a dimitir o por lo menos, aunque más no fuera, a moderar los tonos. El estruendoso descubrimiento de un circuito de prostitutas que participaban en fiestas en la residencia romana del primer ministro es un ejemplo. Los ataques se publicaron en periódicos y por algunas pocas trasmisiones de televisión que lo captaron en sus quehaceres.
Los numerosos procesos por corrupción y otros hechos en los que se ha visto envuelto, el último en Mondadori –la gran casa editorial de la que Berlusconi se hizo propietario hace unos años– incluyen a un juez. Son recurrentes, también, las voces en los procesos contra la mafia en los 90 que lo implicaron, ante lo cual se defiende argumentando con uno de sus recursos favoritos que acusa a la judicatura de tener jueces rojos.
En fin, subrayo la reprobación por parte del Tribunal Constitucional de la ley de la impunidad.
A todo esto Berlusconi ha reaccionado con insultos hacia los presidentes de la república y de la Suprema Corte, iniciando una campaña difamatoria contra sus adversarios internos, como el presidente de la Cámara de Diputados, Gianfranco Fini, al intentar apoderarse definitivamente de la televisión pública –la Rai– reduciendo el Congreso a un notario de los actos del gobierno (90 por ciento de las leyes aprobadas en el último año han sido iniciativa enviadas por el Ejecutivo).
Pero, hay que decirlo, esto es sólo la superficie institucional. La ley que ha introducido el delito de clandestinidad, por el cual un migrante es culpable por el solo hecho de estar en Italia sin documentos, ha creado un clima de terror y de caza del hombre. Otras normas han excluido del todo a las comunidades locales en los procedimientos para la aprobación de las grandes obras, lo que equivale –parafraseando a los bolcheviques– a un liberalismo de guerra. La crisis económica, que está provocando un dramático aumento de la desocupación, es simplemente negada por el gobierno, que no puede abandonar con facilidad el mensaje de arriésguense. Mientras la campaña sobre la seguridad ha justificado las apariciones del ejército italiano en las calles, presuntamente en búsqueda de apresar delincuentes, se han legitimado las denominadas rondas, los grupos de civiles que suplantan a las fuerzas del orden.
El impulso dado por la Liga del Norte no es sólo hacia un régimen que fomenta el racismo, sino el federalismo fiscal, o sea la sustracción de la región del norte de las cargas fiscales generales, base de la captación del Estado, con lo cual acentúan los desequilibrios, ya muy graves, históricos, entre el sur y norte del país.
Italia es en este momento un país sumamente interesante para observar por todos los motivos señalados. La determinación de Berlusconi de mantenerse en el poder a cualquier costo puede provocar situaciones impredecibles y, advierto, modificar la ingeniería institucional democrático-liberal. En qué tiempo y con qué medios, nadie lo sabe, y menos el premier. Estamos, como diría Almodóvar, al borde de una crisis de nervios, o, tal vez, más allá.
1 Manos Limpias (Mani pulite) se conoce al proceso judicial llevado a cabo por el fiscal Antonio di Pietro en 1992. El mismo descubrió una extensa red de corrupción que implicaba a los principales partidos políticos de entonces y a varios grupos empresariales. Los hechos causaron conmoción pública, conociéndose como la tangentopoli. Tangente se entiende como comisión ilegal (mordida) en italiano (N. del T.).



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lunedì 3 agosto 2009

Conflitto di interessi, ecco la proposta di Furio Colombo

Ecco il testo della proposta di Furio Colombo sul tema del conflitto di interessi.

Onorevoli colleghi, il problema del conflitto di interessi – ovvero di incompatibilità dei titolari di funzioni di governo che siano anche titolari di rilevanti attività aziendali – è lo scopo di questa proposta di legge. Con essa si vuole impedire al paralisi della normale vita politica di un paese che si verifica quando una persona, oltre che responsabile di attività di governo, è anche alla guida di rilevanti attività economiche. Questa proposta di legge tende a colmare due vuoti legislativi pericolosi e allarmanti. Il primo riguarda la portata e le dimensioni dell’attività privata che – facendo capo a una persona che svolge funzioni di governo – tende a creare il problema gravissimo di una sovrapposizione o aggancio fra responsabilità pubblica e interesse privato.

Il secondo vuoto riguarda l’attenzione scarsa o nulla finora prestata al delicatissimo settore imprenditoriale delle comunicazioni intese in tutte le possibili forme, modi e settori in cui tale attività si può svolgere, dalla Tv, alla radio, ai giornali, alla telefonia, all’informatica.

Il problema, in tutti e due i percorsi indicati, è materia così delicata e rilevante al fine di definire incompatibilità e separazione completa di responsabilità pubblica e interesse privato, che la sua regolamentazione non può essere rinviata ai criteri decisionali, che possono essere di volta diversi, di una autorità garante.

Nessuna autorità può essere messa in condizioni di decidere su un conflitto di interessi in assenza di una legge che stabilisca le modalità per risolverlo. Non è ragionevole chiamare qualcuno – per quanto autorevole – a decidere su un conflitto già in atto fra attività di governo e interessi privati. Infatti quando tale conflitto è insorto, si sono già stabilite le condizioni di pericolo per la legalità che possono rendere inagibile l’azione di una eventualità Autorità incaricata di risolvere il problema.

E’ persuasione di chi presenta questa proposta di legge che ogni aspetto della incompatibilità tra funzioni e interessi e ogni regola sul come identificare, impedire o fermare un conflitto di interessi debba essere definito e diventare legge della Repubblica prima che il conflitto insorga, così come avviene per ogni comportamento giudicato - da una comunità e dai suoi legislatori - pericoloso per la vita della repubblica e i rapporti fra i cittadini. Nel caso che stiamo discutendo, è in gioco la credibilità e rispettabilità di un governo e dei suoi membri, il rispetto per le norme e decisioni di quel governo, la certezza che in nessun caso e per nessuna ragione possa esservi dubbio sul completo disinteresse di ogni azione e decisione di governo, il costante rispetto di ogni norma vigente, l’armonia con i principi della carta costituzionale, prima fra tutte è la prescrizione, che è anche vincolo comune: “La legge è uguale per tutti”.

Il conflitto di interessi in atto infrange, prima di tutto, tale fondamentale principio. Infatti attribuisce al titolare del conflitto la disponibilità di un doppio criterio decisionale: l’efficacia erga omnes di una determinata norma o decisione; ma anche la possibile convenienza privata di quella norma o decisione nell’ambito degli interessi personali di chi governa, se chi governa è titolare di conflitto. Ovvero è in grado di decidere sul proprio beneficio privato.

Questa legge indica le dimensioni, ovviamente cospicue, del tipo di interesse privato, finanziario, azionario, proprietario o manageriale cui si intende porre argine e stabilire impedimento.

L’esperienza, anche recente, insegna che esercitare funzioni di governo - mentre si rappresentano vasti interessi privati - è situazione in grado di travolgere l’autonomia di qualunque Autorità (per esempio attraverso insistenti ed efficaci campagne di intimidazione e delegittimazione mediatica, campagne facilmente orchestrabili con mezzi adeguati). La stessa esperienza dimostra la capacità di condizionare una assemblea legislativa (certo la parte di assemblea che sostiene il titolare di un vasto conflitto di interessi) sia attraverso il peso mediatico, sia attraverso la versatilità e varietà di interventi, premi e vantaggi in svariati settori e in luoghi diversi della vita pubblica e privata, in modo da rendere compatto il consenso ogni volta che esso riguardi una legge “ad personam”.

Le leggi “ad personam”, di cui è stata costellata la legislatura precedente, sono il capolavoro del conflitto di interessi, nel senso di manifestazione perfetta del danno nei confronti di un paese, delle sue leggi, dei suoi cittadini. Dimostrano che un potente titolare di conflitto di interessi tende a usare la condizione anomala esattamente nel senso per il quale tale condizione deve essere preventivamente proibita; ovvero, per il suo esclusivo, privato, personale interesse. E poiché, come si è visto e constatato di recente in Italia, è in grado di farlo usando l’obbedienza compatta di una maggioranza, si ha la dimostrazione che il conflitto di interessi – quando esiste in dimensioni abbastanza grandi – è in grado di rompere il patto fra lo stato e i cittadini, di relegare in posizione irrilevante il dettato della Costituzione e di usare un vasto consenso, creato dall’uso spregiudicato del conflitto di interessi, per favorire e sviluppare tutti i modi – che sono in sé l’opposto dell’interesse pubblico – in cui quel conflitto si può esprimere.

Ciò dimostra quanto sia arduo e irrealistico immaginare che una Autorità garante – che è parte delle istituzioni umiliate e vilipese dal conflitto – possa smantellare le difese di un potere pubblico-privato ormai insediato, mentre quel potere è già in grado di intimidire, disinformare e creare gogna per i propri avversari.

Questa proposta di legge indica dunque una definizione chiara, un intervento preventivo, e le norme che rendono impossibile l’instaurarsi di una condizione di conflitto in atto, nella persuasione – già provata da recente esperienza – che un conflitto in atto tende ad allargarsi e, con i frutti di convenienza illegale che ne ricava, è in grado di rendere vana ogni contestazione alla grave situazione di illegalità che il conflitto stesso produce.

L’impegno di questa proposta infatti non conta sul deterrente di multe sempre inefficaci, per quanto severe, verso le grandi ricchezze. Si propone invece di rendere impossibile l’instaurarsi, presso qualsiasi carica di governo, di una situazione di conflitto di interessi che è la peggiore infezione nella vita pubblica e nella moralità di una comunità e di un paese.



CONFLITTO DI INTERESSI

Art. 1 – Agli effetti della presente legge sono titolari delle cariche di governo il Presidente del Consiglio dei Ministri, i ministri, i vice-ministri, i sottosegretari di Stato, i commissari straordinari di governo, i presidenti delle regioni ordinarie e delle regioni a statuto speciale.



Art. 2 – Agli effetti della presente legge sono incompatibili con cariche di governo i titolari di attività imprenditoriali, finanziarie, industriali o commerciali di qualunque impresa che abbia, rapporti di concessione con pubbliche amministrazioni, nonché di qualunque tipo di impresa che dipenda, per il suo funzionamento, da autorizzazione o sorveglianza o approvazione o controllo di organi dello Stato.

Sono incompatibili i titolari, i maggiori azionisti e amministratori di imprese attive a qualsiasi titolo nel settore delle informazioni, comunicazioni, telefonia e informatica, con qualsiasi mezzo e forma di diffusione. Sono inoltre incompatibili i titolari di responsabilità, proprietà e controllo diretto e indiretto di qualsiasi fondo, impresa, attività finanziaria, industriale, distributiva, bancaria, immobiliare, con un valore superiore ai 10 milioni di euro, in qualsiasi parte del mondo siano dislocate.



Art. 3 – L’incompatibilità di cui agli articoli 1 e 2 è in atto dal momento della elezione della persona titolare di imprese e interessi elencati in questa legge e rende impossibile l’inclusione di tale titolare in qualsiasi lista di governo. Una volta accertate le condizioni di incompatibilità indicate in questa legge, l’esclusione è automatica e non è previsto alcun ricorso, salvo che alla magistratura ordinaria.



Art. 4 – Il titolare di un conflitto di interessi indicato in questa legge può porre fine al conflitto:

- attraverso la vendita e la collocazione del capitale ricavato in un fondo cieco;

- attraverso le dimissioni e la separazione dall’impresa o dall’attività in questione in caso di attività manageriale con l’impegno a non riassumere cariche o funzioni dello stesso tipo o nello stesso campo prima di tre anni dalla fine del mandato;

- nel caso di impresa di editoria, giornalismo, radio, televisione, telefonia, informatica, l’incompatibilità permane e impedisce l’assunzione di ogni attività di governo, perché non è possibile – in questi settori – la costituzione di un fondo cieco. Inoltre, la vendita improvvisa a causa dell’assunzione di una responsabilità di governo, non garantisce in alcun modo l’indipendenza dell’impresa e il distacco del titolare di governo dal sistema informativo già controllato. Altra causa ostativa è la concessione da parte del governo del permesso di trasmettere, sia nel settore pubblico che in quello privato. Chiunque sia beneficiario di concessione governativa - o lo sia stato negli ultimi tre anni - è incompatibile con cariche di governo.



Art. 5 – I casi di incompatibilità dovuti a ragioni diverse dalla proprietà e titolarità di impresa sono regolati da altre leggi. La magistratura ordinaria accerta, su richiesta della parte ritenuta “incompatibile”, l’esistenza effettiva delle condizioni di tale incompatibilità nel caso che esse siano contestate dalla parte interessata.



01 agosto 2009

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venerdì 31 luglio 2009

La strategia autoritaria del governo

di Luigi de Magistris*, da Il Manifesto

Credo sia un grave errore pensare che il governo Berlusconi, la maggioranza berlusconiana, non persegua una ben precisa strategia che mira a modificare in modo radicalmente autoritario ed illiberale il nostro Paese. Il disegno, di chiara matrice piduista, impone sia ampie revisioni costituzionali che svuotamenti della Carta attraverso la legislazione ordinaria: matrice di fondo è la soppressione di quella che gli anglosassoni chiamano balance of powers, il bilanciamento dei poteri.


La Costituzione deve subire - in tale progetto strategico - una svolta presidenziale, con la concentrazione dei poteri di governo nelle mani di un'unica persona: il Parlamento ridotto a mero organo di ratifica dei voleri della maggioranza, Corte costituzionale e Consiglio superiore della magistratura modificati nella loro composizione attraverso l'aumento dei membri di nomina politica. Il Presidente della Repubblica sarà quindi capo del governo, capo delle forze armate, capo del Csm e magari, se lo scenario di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico e politico-istituzionale del nostro paese rimarrà quello attuale, anche capo dei capi.
Dal momento che anche una maggioranza di chiara ispirazione autoritaria ed illiberale non potrà mai abolire formalmente l'art. 3 della Costituzione (l'uguaglianza delle persone di fronte alla legge) e l'art. 21 della Costituzione (libera manifestazione del pensiero e diritto di cronaca) ecco che si colpiscono - attraverso lo strumento della legge ordinaria - quelli che sono due baluardi di ogni stato di diritto che consentono l'effettiva attuazione di tali principi: l'autonomia e l'indipendenza della magistratura e dell'informazione. In questi ultimi mesi la maggioranza sta portando avanti un disegno di complessivo annichilimento dell'autonomia della magistratura e dell'indipendenza, libertà e pluralismo dell'informazione.
Corollari di un disegno autoritario di questo tipo sono anche taluni censurabili provvedimenti normativi adottati negli ultimi mesi e che offrono una chiara cornice dell'avanzare del fascismo del terzo millennio: 1) le ronde che - mortificando le forze dell'ordine - introducono la privatizzazione della sicurezza pubblica e l'istituzionalizzazione in alcune aree del controllo del territorio da parte della criminalità organizzata (tipico strumento utilizzato nel ventennio del secolo scorso e nel periodo iniziale dei paramilitari colombiani); 2) il ricorso sempre maggiore ai militari per compiti di ordine pubblico che - soprattutto in un'ottica di presidenzialismo di chiara ispirazione piduista - potranno essere utilizzati per affrontare conflitti sociali e reprimere il dissenso che viene sempre più criminalizzato nel nostro paese attraverso pratiche liberticide tipiche della tolleranza zero; 3) la criminalizzazione dell'immigrato in quanto tale e non perché ha commesso un reato, ossia l'introduzione della colpa d'autore tanto cara al regime nazi-fascista, con tratti xenofobi indegni di un paese democratico.
Un disegno autoritario di tale portata nasce e si consolida attraverso un ricercato crollo etico anche grazie all'imperversare della pubblicità commerciale, del consolidamento della teoria del consumatore universale, del radicamento del pensiero unico, del rovesciamento dei valori: non conta chi sei, qual è la tua storia, ma quanto appari; il culto del profitto, dell'avere al posto dell'essere, del dio denaro. Un revisionismo culturale realizzato in anni di bombardamento mediatico, in un conflitto di interessi mai affrontato da un opaco centro-sinistra intriso da tanti conflitti d'interessi. Un definitivo controllo delle coscienze e la narcotizzazione delle menti e finanche dei cuori deve passare attraverso la mortificazione della scuola pubblica, dell'università e della ricerca: deve apparire che siamo un paese normale (quanto bello ed attuale quell'articolo di Domenico Starnone che parlava di normale devianza).
Di fronte ad un disegno che appare a tratti anche eversivo dell'ordine costituzionale; di fronte ad un paese dove le mafie condizionano in modo devastante parte significativa del Pil e riciclano immani somme di denaro in ogni settore suscettibile di valutazione economica ed in ogni parte del territorio nazionale; di fronte ad una capillare penetrazione della criminalità organizzata in vasti settori della politica e delle istituzioni, attraverso soprattutto il controllo della spesa pubblica; di fronte ad un collante sempre più evidente tra sistema politico castale e criminalità organizzata; di fronte a tutto questo, le forze democratiche - in qualunque articolazione della società civile siano presenti - debbono impegnarsi concretamente per impedire la realizzazione di un tale progetto politico che condurrà inesorabilmente alla fine dello Stato di diritto.
Così come chi è investito di ruoli istituzionali e non è ancora totalmente assuefatto a tale sistema di potere deve battere un colpo per difendere la Costituzione nata dalla Resistenza e per far sì che venga attuata giorno per giorno.
* parlamentare europeo Idv

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Due proposte per fermare il regime

di Paolo Ferrero*, il Manifesto

Condivido l’articolo di Luigi de Magistris sulla strategia autoritaria del governo. Condivido e ritengo necessario, dopo la raccolta di firme che Rifondazione comunista ha fatto con l’Italia dei Valori per sottoporre a referendum il lodo Alfano, proseguire l’iniziativa per contrastare l’azione antidemocratica del governo. Occorre costruire una manifestazione nazionale unitaria contro il pacchetto sicurezza ma anche una azione unitaria delle diverse forze politiche, culturali e sociali che si collocano all’opposizione, articolata sul territorio, che sveli a fondo il carattere eversivo dell’azione di governo. Occorre fare una vera e propria campagna di massa.

Sono rimasto colpito però della assenza nell’intervento di de Magistris della questione sociale. Ritengo infatti che senza una discussione di fondo sul rapporto tra questione democratica e questione sociale, Berlusconi non solo demolirà la democrazia nel nostro paese ma lo farà con il sostanziale consenso – attivo o passivo – del paese. Occorre cioè fare i conti con la situazione reale del paese che a me pare caratterizzata da due elementi: da un lato la separazione nella testa di milioni di persone tra questione sociale e questione democratica. Dall’altra la questione sociale oggi non trova “naturalmente“ uno sbocco a sinistra, in termini di conflitto di classe, o se volete di conflitto del basso contro l’alto; sempre più spesso è la guerra tra i poveri, dei penultimi contro gli ultimi, ad esprimere la questione sociale.
Penso che se l’opposizione non saprà fare i conti con questo doppio problema, sarà destinata a soccombere di fronte all’avanzata della destra populista e della crisi della politica: non sarà efficace al fine di battere Berlusconi e il berlusconismo.
In altri termini Berlusconi trae un vantaggio decisivo dal fatto che milioni di persone appartenenti agli strati subalterni o non vanno più a votare, schifati dalla politica, oppure votano a destra – a partire dalla Lega – perché la ritengono più efficace per difendere i loro interessi.
Occorre quindi unire alla denuncia del carattere eversivo dell’azione di governo, una azione coerente di denuncia del carattere di classe dell’azione del governo e la costruzione di una seria opposizione alle sue misure economiche e sociali. A tal fine è completamente suicida la linea di gran parte dell’opposizione di appoggiarsi a Confindustria per criticare il governo; è suicida che il provvedimento più estremista varato dal governo sul piano economico e sociale e cioè il federalismo fiscale, sia stato approvato dall’Italia dei Valori e abbia visto l’astensione del Pd. Col federalismo fiscale si taglierà la spesa sociale, la guerra tra i poveri verrà istituzionalizzata e si apre una autostrada alla distruzione del contratto nazionale di lavoro e alla gestione localistica dei conflitti. Il federalismo fiscale è una manna per la Lega Nord e per il nascituro partito del Sud, per balcanizzare l’Italia. Ho fatto questo esempio ma potrei proseguire con l’opposizione che vota mozioni di sostegno al finanziamento delle scuole private, non dice nulla sulla spesa di 14 miliardi per l’acquisto di cacciabombardieri, non dice nulla sulle prebende per il sistema bancario, balbetta sull’attacco al contratto nazionale di lavoro, concorda sulla riduzione della tassazione per le rendite fondiarie, ecc.
A me pare evidente che la sostanziale subalternità dell’opposizione parlamentare (e quindi dell’opposizione presente sui mass media) alla Confindustria apra uno spazio politico immenso alla destra populista di Berlusconi e alla sua azione demolitrice dell’impianto costituzionale.
Per questo faccio a mia volta un appello a de Magistris: costruiamo insieme nell’autunno, tutte le forze disponibili, una mobilitazione sociale degna di questo nome che contesti radicalmente la politica e economica e sociale del governo, contro la precarietà, per la redistribuzione del reddito e del lavoro, per una riconversione ambientale dell’economia. Per rendere credibile agli occhi di larghi strati popolari la nostra battaglia per la democrazia occorre schierarsi dalla loro parte nel conflitto sociale, altrimenti i nostri discorsi saranno incomprensibili.
Aggiungo una seconda considerazione e una seconda proposta che concerne il piano istituzionale. Con questa legge elettorale maggioritaria e bipolare è pressoché impossibile sconfiggere il berlusconismo. Berlusconi ha uno schieramento che vale il 45% mentre i suoi oppositori sono divisi e hanno voti non facilmente sommabili. Non penso possibile fare una alleanza con l’Udc di Cuffaro per governare l’Italia. La gabbia bipolare, costruita stupidamente dal centrosinistra negli anni ’90, si è rivelata il contesto concreto in cui è nato e cresciuto il berlusconismo, il sistema che più favorisce Berlusconi e il suo tentativo di trasformare in regime il suo governo. Se fosse passato il referendum sul partito unico su cui il Pd ha dato indicazione di voto favorevole e per cui Di Pietro ha raccolto le firme, il discorso sarebbe chiuso. La sconfitta del referendum apre però una strada che voglio proporre a de Magistris. Prendere atto che il bipolarismo è all’origine del successo berlusconiano e proporre una legge elettorale proporzionale. Una legge proporzionale garantirebbe una cosa semplicissima e cioè che Berlusconi, che è minoranza nel paese, non si trovi poi ad avere la maggioranza assoluta di parlamentari in virtù della legge elettorale bipolare. L’Udc e le forze della sinistra propongono il sistema elettorale tedesco, se l’Italia dei Valori si pronunciasse chiaramente su questo indirizzo avremo buone possibilità che anche il congresso del Pd si muova in questa direzione. Un comune orientamento di questo tipo permetterebbe di costruire uno schieramento di salvaguardia costituzionale con l’obiettivo di fare una legge elettorale proporzionale e una legge sul conflitto di interesse. Questi provvedimenti si possono fare in sei mesi e su questo obiettivo si può costruire uno schieramento per dar vita ad una brevissima legislatura di salvaguardia costituzionale che cambi le regole del gioco per poi andare a votare con un sistema proporzionale, ognuno con la propria faccia e il proprio programma. Noi tutti ci battiamo perché Berlusconi cada ma è nostro obbligo avanzare un proposta per sconfiggerlo senza fare pasticci: questa proposta a me pare utile e praticabile.
Riassumendo voglio quindi dire a de Magistris che per impedire a Berlusconi di realizzare il proprio disegno eversivo occorre costruire sul piano sociale una forte opposizione alla sua politica di classe e sul piano istituzionale porre con chiarezza l’obiettivo dell’uscita dal regime bipolare. Questo non dipende solo dagli altri ma in buona misura anche da che cosa farà l’Italia dei Valori nei prossimi mesi.
*Segretario nazionale Prc


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lunedì 20 luglio 2009

Se la politica "pop" costruisce la morale

di Ilvo Diamanti da Repubblica on line

TRE MESI dopo l'avvio delle polemiche sulle frequentazioni del premier. Le reazioni della moglie. Le rivelazioni e i servizi fotografici sulle feste che hanno ravvivato le sue residenze. A Roma e in Sardegna. Private ma al tempo stesso pubbliche. Sede di rappresentanza per missioni dello Stato. E di feste fastose, abituali a casa "sua". Dopo molte spiegazioni - date e ritrattate - per spiegare vicende mai spiegate perché inspiegabili. Sentiamo echeggiare una questione, non solo in ambienti amici (suoi). Questa insorgenza morale e moralista. A chi e a che è servita?



Infine la maggioranza ha vinto le elezioni europee. Stravinto le amministrative. Magari "lui" non ha ottenuto il plebiscito personale che aveva chiesto. Il "suo" partito non ha ottenuto il risultato che sperava. Però, è ancora saldamente al comando. Del partito, della maggioranza, del governo. "Lui": ha vinto anche il G8. Tre mesi di inchieste giornalistiche, fotografie maliziose, rivelazioni piccanti e imbarazzanti. E poi scandali, veline, escort. Se dopo tutto questo "lui" è ancora saldamente al comando: ma chi ne potrà scalfire il potere e il consenso in futuro? Non solo: se dopo tutto questo la popolarità del premier è calata ma non è collassata, non significa che la maggioranza dei cittadini, in fondo, gli somiglia? Pensa come lui?

Definite in questi termini, le questioni ci sembrano mal poste. Anzitutto perché queste vicende hanno comunque influito sul risultato. Spingendo una quota elevata di elettori del PdL nel grande buco grigio dell'astensione. Ma, soprattutto, poste in senso meramente utilitarista. Come se il valore delle inchieste dipendesse solo da chi ci perde e guadagna. Non intendo affrontare discorsi moralisti e tantomeno morali. Non ne avrei titolo. Non scrivo per Famiglia Cristiana e non sono un portavoce della Cei. Solo un peccatore come (e forse più di) tanti altri.

Mi interessa, invece, tornare su un tema già affrontato in altre occasioni. Riguarda il rapporto fra le istituzioni, i leader e gli elettori in tempi di democrazia dell'opinione. Quando i cittadini diventano pubblico. Spettatori. Le istituzioni e i leader: attori. I media: teatro. Quando i valori diventano slogan. Le politiche e i politici prodotti da vendere. Quando il privato diventa pubblico. Perché è esposto in pubblico. E ha valore pubblico. Quando il gossip: diventa linguaggio politico.

È l'epoca della "politica pop". E si rischia di scambiare la popolarità per la realtà. Identificare la volontà popolare con la realtà sociale. Peggio: con l'etica pubblica. E viceversa: immaginare l'etica pubblica come un dato. Ma ciò che pensa e dice la "gente", anche in larga maggioranza, non è "innato". Riflesso della natura umana. Intanto perché una minoranza, talora molto ampia, pensa e dice diversamente. Poi perché a costruire l'opinione pubblica e la realtà sociale contribuiscono, in misura significativa, le istituzioni, chi le rappresenta e governa. Attraverso gli atti, l'esempio, le parole, i contatti quotidiani.

Attraverso i media. Il "fatto" che l'intolleranza e la xenofobia montino a folate in modo non coerente con le tendenze dei reati e dei crimini. Non è un "fatto", ma un "risultato". Prodotto dall'enfasi attribuita dai media e dagli attori politici e sociali. A livello nazionale e locale. Come ha scritto Barbara Spinelli sulla Stampa: "I fatti sono reali, ma se vengono sistematicamente manipolati (omessi, nascosti, distorti) la realtà ne risente, ed è così che se ne crea una parallela".

Si pensi all'esecrazione che, a seconda del periodo, investe i cani assassini, gli stupri, gli zingari, i romeni, gli albanesi. Gli islamici. A ondate. Oggi ad esempio pare che gli sbarchi degli immigrati si siano arrestati. I clandestini ridotti. D'altronde, se tali smettono di essere le badanti, ne abbiamo eliminati più della metà.
La realtà sociale, inoltre, è spesso trasfigurata dall'iperrealtà (come abbiamo scritto, riprendendo una suggestione di Carlo Marletti). Un ritratto quasi fotografico. Che si concentra su alcuni particolari. Li dilata oppure li riproduce in modo ossessivo.

Così propone uno specchio tanto fedele quanto distorto. Riflette una prospettiva unilaterale - e per questo falsa - della realtà. Perché ognuno di noi è "diverse persone". Siamo tutti, almeno un poco: opportunisti, egoisti, xenofobi, intolleranti, bugiardi, trasformisti, evasori (latenti), diffidenti (verso gli altri e lo Stato). Ma siamo tutti - almeno un poco - anche: altruisti, solidali, generosi, ospitali, dotati di civismo, sinceri, aperti, felici di stare in comunità.

E ci sentiamo tutti - almeno un poco - infastiditi: da chi dice bugie, evade, frega il prossimo, tratta male gli altri, è arrogante, prepotente, usa le cose pubbliche come fossero private e le cose private come fossero pubbliche. Tutti. (In particolare quando ci trasformiamo in vittime di questi atteggiamenti.) Per cui siamo capaci di grandi slanci e grandi chiusure. Per questo ogni raffigurazione unilaterale e caricata è irreale quanto iperreale.

È la pop-art della democrazia-pop. Dove i valori sono trasmessi dai comportamenti pubblici e privati - tanto è lo stesso - esibiti dalle istituzioni. Dall'esempio degli uomini che le rappresentano e le governano. Dai media. Tanto più oggi, in Italia. Dove i confini tra chi guida la politica, il governo, i media sono tanto sottili e confusi che quasi non si vedono. Per questo ciò che il premier dice e non dice. Quel che fa e non fa. Anche in privato. Ha valore pubblico. Forma - o deforma - i valori pubblici. E privati. Le inchieste e le critiche (di una parte solo) della stampa e della politica che tanto infastidiscono il premier, per la stessa ragione, non sono un "attentato" alla democrazia. Ma una garanzia.

Un antidoto contro l'iperrealismo. Servono a correggere la distorsione di questo "specchio unico". In cui si riflette, ripetuta e dilatata all'infinito, l'immagine del berlusconi-che-è-in-noi. Fino a sovrapporla al nostro profilo. Un'idea che, personalmente, mi inquieta non poco. (19 luglio 2009)


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venerdì 17 luglio 2009

Quando il potere teme la verità

di GUSTAVO ZAGREBELSKY , Repubblica on line

SONO venute a galla, finalmente, due questioni che riguardano, l'una, la verità e, l'altra, la moralità nella vita pubblica. Sono questioni che oggi particolarmente toccano un uomo alle prese con l'affannosa gestione davanti alla pubblica opinione di uno sdoppiamento, tra la realtà di ciò che effettivamente egli è e fa e la rappresentazione fittizia che ne dà, a uso del suo pubblico. Siamo di fronte a una novità? Possiamo credere sia un caso isolato? Via! La menzogna e l'ipocrisia, alla fine la schizofrenia, sono sempre state compagne del potere.


Questa constatazione realistica può chiudere il discorso solo per i nichilisti, i quali pensano a un eterno nudo potere, che volta a volta, si presenta in forme esteriori diverse, ma sempre e solo per coprire la sua immutabile, disgustosa, realtà. Per gli altri, quelli che credono che il potere non necessariamente sia sempre solo quella cosa lì, ma che si possa agire, oltre che per conquistarlo, anche per cambiarlo; per quelli, in breve, che credono che vi siano diversi possibili modi di concepire e gestire le relazioni politiche, verità e menzogna, moralità e ipocrisia sono dilemmi su cui si può e si deve prendere posizione.

Vizi e virtù cambiano, anzi si scambiano le vesti, a seconda di quali siano le concezioni del vivere comune. I vizi possono diventare virtù e le virtù, vizi. Onde possiamo dire che da come li si concepisce capiamo che idea abbiamo della nostra convivenza. C'è qui una spia che permette di guardare nello strato profondo, magari inconscio, delle nostre concezioni politiche. Nelle Istorie fiorentine (III, 13), Machiavelli dice che i mezzi del potere sono "frode e forza" e che "quelli che per poca prudenza o per troppa sciocchezza, fuggono questi modi, nella servitù sempre e nella povertà affogano; perché i fedeli servi sempre sono servi, e gli uomini buoni sempre sono poveri; né mai escono di servitù se non gli infedeli e audaci, e di povertà se non i rapaci e fraudolenti". Buone massime di comportamento, ma per il Principe in società di servi e padroni: qui davvero le virtù diventano vizi e i vizi, virtù.

La verità, il rispetto dei "bruti fatti", è la virtù di coloro che si intendono e vogliono intendersi tra loro; al contrario, quando il proposito non è l'intesa ma la sopraffazione, la virtù non è più la verità ma è la menzogna, la simulazione di quel che è e la dissimulazione di quel che non è. La verità predispone al dialogo in cui ciascuno onestamente fa valere i propri punti di vista; la menzogna prepara inganni e, in risposta, giustifica altre simulazioni e dissimulazioni (Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta - 1641), come arma di legittima difesa. Ne vengono società di maschere, mascheramenti e mascherate che nascondono violenza, come erano le società di cortigiani, venefici e tradimenti del 5 e '600 in cui l'elogio della malafede dei governanti ha trovato il suo terreno di coltura.

Gesù di Nazareth impartisce ai discepoli due comandamenti, all'apparenza contraddittori: "Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno" (Mt 5, 36) e "siate avveduti (phronimòi) come serpenti" (Mt 10, 16). Da un lato, dunque, rispecchiare la verità, né più né meno; dall'altro, usare la lingua biforcuta del "più astuto tra tutti gli animali" (Gn 3, 1). Come si scioglie la contraddizione? In un modo molto interessante per la nostra questione. Il primo comandamento vale nei rapporti tra leali appartenenti alla stessa cerchia, in quel caso i credenti nella medesima parola di Dio ("avete inteso che fu detto ..., ma io vi dico"). Il secondo vale quando le pecore (i discepoli) sono inviati in mezzo ai lupi, gli uomini dai quali devono "guardarsi" con accortezza.
Ecco, dunque. La verità vale tra amici; tra nemici è dissennatezza. Se riteniamo di non essere vincolati alla mutua obbligazione al vero, se riteniamo legittima la frode, la menzogna, l'inganno è perché viviamo nell'ostilità e i regimi dell'ostilità sono quelli inclini alla sopraffazione. Noi comprendiamo perciò lo scandalo che, purtroppo in altri Paesi e non nel nostro, dà l'uomo pubblico che è scoperto avere mentito, per questo solo fatto, magari su una questioncella da niente: uno scandalo non di natura morale o moralistica ma politico, che può portare alla rovina d'una carriera. Chi mente, non importa su che cosa, è un pericolo per la libertà e la democrazia. Oggi, da noi, si moltiplicano assennati appelli alla concordia e al dialogo, ma senza il parallelo, anzi preliminare, appello alla chiarezza della verità, sono parole destinate al vento.
* * *
Anche la questione della moralità conduce a un problema politico di democrazia. Si dice: il giudizio morale non deve influire sul giudizio politico. La politica si giudica con criteri politici; la moralità, con criteri morali. Un ottimo uomo pubblico può essere un pessimo individuo nel privato, col quale non si vorrebbe avere nulla da spartire. O viceversa: una persona dabbene può essere un pessimo politico, cui non vorremmo affidate responsabilità pubbliche. Gli ambiti sono diversi e devono essere tenuti separati. Lo Stato moderno è il prodotto della scissione dell'ufficio pubblico dalla persona fisica che lo ricopre. Il funzionario è, come tale, soggetto a particolari e stringenti doveri di moralità pubblica, della cui osservanza risponde pubblicamente. Ma la stessa persona, nel momento in cui è spogliato della sua funzione ritorna a essere uno come tutti, ha il diritto di essere lasciato in pace come un qualunque altro cittadino. La sua moralità è in questione solo di fronte alla sua coscienza, a Dio o al confessore.
Tutto questo è chiaro ma troppo semplice. I punti di interferenza sono numerosi, in un senso e nell'altro. Quando c'è interferenza, non si può negare l'esigenza di verità. Può accadere che la posizione pubblica sia spesa nella vita privata, oppure che i comportamenti privati si riverberino sulla posizione pubblica. Talora queste commistioni hanno rilievo per il codice penale. Ma molto spesso no. Non per questo non hanno rilievo politico. Esempio del primo tipo: la strumentalizzazione del "fascino del potere" per ottenere vantaggi nella vita privata. I favori sessuali attengono certamente alla vita privata. Ma altrettanto certamente ciò non basta a escludere il diritto dell'opinione pubblica di sapere se questi si ottengono facendo balenare o distribuendo favori, come solo chi occupa posizioni di pubblico potere può fare. Oppure, esempio del secondo tipo, lo stile di vita personale attiene certamente all'ambito privato che chiunque ha il diritto di definire come vuole. Ma se questo stile di vita contraddice i valori sociali e politici che si professano pubblicamente e si vogliono imporre agli altri, possiamo dire che questa ipocrisia sia irrilevante per un giudizio politico da parte dell'opinione pubblica?
Non è affatto questione di moralismo. Nessuno, meno che mai quella cosa che si denomina opinione pubblica, ha diritto di pronunciare sentenze morali, condannare peccati e peccatori. Chi mai gradirebbe un giudizio di questo genere sulle piazze o sui giornali? Non è questo il punto. Il punto è che in democrazia i cittadini hanno diritto di conoscere chi sono i propri rappresentanti, perché questi, senza che nessuno li obblighi, chiedono ai primi un voto e instaurano con loro un rapporto che vuol essere di fiducia. Devono poterli conoscere sotto tutti i profili rilevanti in questo rapporto. Ora, entrambe le interferenze tra pubblico e privato di cui si è detto convergono nel creare divisioni castali in cui la disponibilità del potere crea disuguaglianze, privilegi e immunità, perfino codici morali diversi, che discriminano chi sta su da chi sta giù. E questo non ha a che vedere con la democrazia? Non deve entrare nel dibattito pubblico? Così siamo ritornati al punto di partenza, il rapporto verità menzogna. Che questa immoralità tema la verità è naturale ed evidente. Anzi, proprio il rifiuto ostinato di renderla disponibile a tutti in un pubblico dibattito, motivato dalle temute ripercussioni sul rapporto di fiducia tra l'eletto e gli elettori, è la riprova che questa è materia di etica politica, non (solo) di moralità privata; è questione che tocca tutti, non (solo) famigliari, famigli, amici, clienti.


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UN ORGANISMO PER FARE SOCIETÀ E POLITICA

di Paolo Cacciari, da Il Manifesto

Chi più, chi meno, ognuno di noi è geloso delle proprie appartenenze, è affezionato alla propria storia politica, al fondo, è convinto di avere la soluzione in tasca. Molto del nostro tempo lo spendiamo cercando di convincerci a vicenda. Siamo arrivati al punto di preferire la sconfitta certa comune piuttosto che correre il rischio di vedere vincere l'altro. Non è bello ma bisogna capirne i motivi. Altrimenti anche i più genuini e generosi appelli all'unità, i vari e ripetuti tentativi di associazione e federazione sono destinati a rimanere vox clamantis in deserto.


Bisogna ammettere che le differenze trovano ragione in culture e visioni diverse, spesso molto diverse. I comunismi sono stati e saranno sempre molti. Gli antagonismi anticapitalisti sono ancora più numerosi. Come fare a stabilire qual è quello «giusto», più efficace e vincente? Il nostro o il loro? È evidente che così non se ne va fuori. Anche il più modesto risultato elettorale, il più striminzito sciopero, il più malriuscito corteo, il meno diffuso giornale... potrà essere rivendicato come «un buon inizio».
La nostra generazione politica (diciamo quella che si è formata tra il '68 e il '77) è prigioniera di una cultura politica competitiva e aggressiva, che pretende di «egemonizzare» chiunque esprima visioni differenti dalle nostre. Contrariamente a quanto predichiamo in pubblico (una società di liberi ed eguali) applichiamo acriticamente al nostro interno i metodi peggiori che abbiamo imparato vivendo nella società borghese: tra questi il «principio di maggioranza». Ma poiché (come giustamente spiegava Bakunin) le decisioni non possono che valere per chi le prende, alle minoranze non è data altra alternativa che ubbidire o allontanarsi. Da qui la straordinaria propensione alla scissione delle formazioni politiche di sinistra. Per di più, come ci insegnano gli scienziati dell'organizzazione, esiste un principio di sopravvivenza che trasforma i «gruppi dirigenti», anche della più piccola e scalcinata organizzazione, in una oligarchia.
Noi, gente di sinistra, non possiamo avere altri legami e motivi di stare assieme se non la condivisione di idee. Per Ekkehart Krippendorff: «Il movente originario della sinistra sta in una ribellione morale». Quindi, un processo di compresenze, convergenze e accumunamento tra diverse soggettività antagoniste, spiriti critici, coscienze dotate di spirito di giustizia... o come altro preferiamo chiamarci, avviene per catarsi esterna sotto la forza di un attrattore ordinatore generale (il comparire di un soggetto rivoluzionario in sé e per sé, l'esplodere della contraddizione principale, l'affermazione di un modello di ordinamento sociale assunto come guida), ma non è questo il nostro caso storico, oppure bisogna cercare dei sistemi di collaborazione, di mutualità, di reciproco appoggio utili a tutti e a ciascuno. Per questo le regole (vedi proposte di Marcon e Pianta, formulate prima e dopo le elezioni) assumono un valore decisivo.
Del resto, come diceva già quel vecchio seminudo all'arcolaio, tra mezzi e fini esiste la stessa connessione inviolabile che vi è tra il seme e la pianta. Penso ad un agire insieme per campagne di iniziative (quelle elettorali sono solo alcune tra le altre) su piattaforme elaborate con modalità partecipate, con auditing e convention pubbliche, con l'uso di delegati sempre revocabili ma titolari di una propria inalienabile libertà di coscienza. Penso ad un sistema di connessioni, collaborazioni, coordinamenti multidimensionali che costituiscono spazi pubblici e forme organizzate stabili dell'agire politico. Penso alla fine di ogni separazione tra lavoro sociale e lavoro di rappresentanza. Non un «incontro a metà strada» e più che un «intreccio» tra pratiche sociali e rappresentanze, tra spontaneità insorgente e mediazione politica, ma una forma di autoriconoscimento e autodeterminazione di soggetti capaci assieme di conflitto e di contrattazione, capaci di «fare società» perché sanno districarsi tra le istituzioni e capaci di «fare politica» perché sono parti di società.
Questa nuovo «organismo» lo chiameremo ancora partito (anche se variamente aggettivato: politico, sociale, di massa, cartello elettorale, federazione, ecc.) o in qualche altro modo? Non nascondo che se riuscissimo a distinguerlo dagli altri e da tutti quelli che ci sono stati fino ad oggi anche nel nome, oltre che nei modi d'essere e nelle modalità di funzionamento, sarebbe già un gran bel passo avanti.


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domenica 12 luglio 2009

Chi rompe la tregua paga

di Barbara Spinelli, da: La Stampa

La tregua che è stata invocata nei giorni scorsi, per proteggere da aggressioni l’immagine dell’Italia durante il G8, introduce nella politica democratica un’esigenza di immobile quiete su cui vale la pena riflettere. Presa in prestito dal vocabolario guerresco, tregua significa sospensione delle operazioni belliche, concordata di volta in volta per stanchezza, timore del pericolo, subitanee emergenze. Fino alla rivoluzione francese, scrive Clausewitz, le guerre erano fatte soprattutto di pause: l’ozio assorbiva i nove decimi del tempo trascorso in armi.


Era «come se i lottatori stessero allacciati per ore senza fare alcun movimento». Le battaglie smettono quest’usanza quando si fa più possente il pensiero dello scopo per il quale si guerreggia, giacché solo tale pensiero può vincere la «pesantezza morale» del combattente. Ma la tregua non è solo «pesantezza, irresolutezza propria all’uomo». L’etimologia dice qualcos’altro: perché ci sia tregua efficace occorre che i lottatori siano leali, che la sospensione sia un patto, che non sia unilaterale. L’etimologia, germanica, rimanda all’inglese true-vero, e al tedesco treu-leale, fiducioso.

Verità, fiducia, lealtà, patto: sono gli ingredienti essenziali della tregua, specie quando dal teatro di guerra ci si sposta a quello di pace, e quando il concetto si applica alla selezione dei governanti migliori che avviene in democrazia. Un prorompente atto terrorista, una calamità naturale, possono comportare la sospensione della conflittualità propria alle democrazie.

Non per questo vengono sospese la ricerca di verità, la pubblicità data all’azione dei politici, il contrasto fra partiti, l’informazione indipendente. Altrimenti la tregua politica altro non è che continuazione della guerra con altri mezzi, e per essa vale quel che Samuel Johnson usava dire dei conflitti armati, nel 1758: «Fra le calamità della guerra andrebbe annoverata la diminuzione dell’amore della verità, ottenuta tramite le falsità che l’interesse detta e che la credulità incoraggia». Se sostituiamo la parola tregua a guerra, vediamo che i rischi sono gli stessi.

Quando ha chiesto una tregua, il 29 giugno, il presidente Napolitano non pensava certo a questo sacrificio della verità. Ma il rischio è grande che i governanti l’intendano in tal modo: usando il Colle, rompendo unilateralmente la tregua come ha subito fatto Berlusconi aggredendo oppositori e giornali. Il conflitto maggioranza-opposizione, le inchieste giornalistiche o della magistratura sul capo del governo, sono automaticamente bollate come poco patriottiche, fedifraghe, addirittura eversive. Questo in nome di uno stato di emergenza trasformato in condizione cronica anziché occasionale, necessitante la sospensione di quel che dalla Grecia antica distingue la democrazia: la parresia, il libero esprimersi, la contestazione del potere e dell’opinione dominante, il domandare dialogico.

Significativa è l’allergia del potente alle domande, non solo quelle di Repubblica ma ogni sorta di quesiti: netto è stato il rifiuto di Berlusconi di permettere domande ai giornalisti, il primo giorno del G8. Sulla scia dell’11 settembre 2001 Bush reclamò simile tregua, che non migliorò la reputazione dell’America ma la devastò. Washington si gettò in una guerra sbagliata, in Iraq, senza che opinione pubblica e giornali muovessero un dito. La recente storia Usa dimostra che la democrazia guadagna ben poco dalle tregue politiche, quando i governi possono tutto e l’equilibrio dei poteri è violato. Il vantaggio delle tregue è la coesione nazionale: falsa tuttavia, se passiva. Lo svantaggio è la libertà immolata. Tanto più grave lo svantaggio, se l’emergenza è un mero vertice internazionale.

Ripensare la tregua e le sue condizioni può servire, perché la tendenza è forte, in chi governa, a prolungare emergenze e sospensioni della parresia, rendendole permanenti. Purtroppo la tendenza finisce con l’estendersi all’opposizione, alla stampa, e anche qui vale la descrizione di Clausewitz sul cessate il fuoco: che spesso interviene non perché la tregua sia necessaria, ma perché nell’uomo che rinvia decisioni c’è pavidità. Perché dilaga «l’imperfezione delle conoscenze, delle facoltà di giudizio». Perché, soprattutto, opposizione e giornali non hanno un «chiaro pensiero dello scopo» per cui si oppongono, analizzano, interrogano. Sono le occasioni in cui la tregua non è un patto di verità ma una variante dell’illusionismo e della menzogna.

Ma c’è una condizione supplementare, affinché la tregua si fondi su verità e fiducia. La condizione è che la memoria resti viva, e non solo il ricordo del passato ma la memoria del presente, meno facile di quel che sembri perché essa presuppone un legame tra i frammenti dell’oggi e aborre la fissazione su uno solo di essi: l’ultimo della serie. È la memoria di cui parla Primo Levi, quando descrive la tregua nei campi. Nel Lager, simbolo della condizione umana, esistono remissioni, «tregue». Ma esse sono chimere se non s’accompagnano alla memoria di quel che ineluttabilmente avverrà al risveglio, quando risuonerà il «comando dell’alba»: l’urlo in polacco - wstawac - che intima di alzarsi.

Meditare attorno all’idea di tregua è fecondo perché aiuta a capire come deve organizzarsi, in Italia e altrove, la parresia greca che i latini traducevano con libertas. Parresia è letteralmente parlare con libertà: un compito che politici e stampa condividono col medico, che non deve dire tutto alla rinfusa ma andare all’essenza e fare sintesi. Galeno, medico del primo secolo dopo Cristo, scriveva che «non si può guarire senza sapere di cosa si deve guarire»: il malato ha diritto alla verità, detta «senza ostilità ma senza indulgenza». La tregua anche in Italia ha senso se non si sacrifica il vero. Se non è solo la stampa estera a indagare sulla nostra singolare apatia etica.

Il mondo dell’informazione non è estraneo a tale apatia, incomprensibile all’opinione straniera e da essa biasimata. Il difetto, il più delle volte, è lo sguardo corto: uno sguardo che non collega i fatti, che sempre si fissa sull’ultimissimo evento, che non scava con la memoria né nel passato né nel presente. L’influenza della mafia sulla politica, i cedimenti di quest’ultima, il conflitto d’interesse che consente al privato di manomettere il pubblico, l’impunità reclamata dai massimi capi politici, infine la lunga storia italiana di stragi e corruzioni su cui mai c’è stata chiarezza: c’è un nesso fra queste cose, ma l’ultimo scandalo da noi scaccia il precedente e ogni evento (buono o cattivo) cancella il resto.

Lo scandalo delle ragazze a Palazzo Grazioli cancella la corruzione di Mills, le minorenni di Berlusconi obnubilano la mafia, le dieci domande di Repubblica cancellano innumerevoli altri quesiti. Anche l’opposizione si nutre di amnesia: i successi di Prodi (aiuti allo sviluppo, clima, liberalizzazioni, infrastrutture, accordo vantaggioso per Alitalia) sprofondano nell’oblio, se ne ha vergogna. Non stupisce che perfino fatti secondari siano mal raccontati, come fossero schegge insensate: ad esempio l’assenza dal programma G8 di Carla Sarkozy, giunta all’Aquila il giorno dopo il vertice. I giornali arzigogolano su una persona che ha voluto far l’originale, differenziarsi. Nessuno rammenta l’appello di 13.000 donne italiane - presumibilmente ascoltato da Carla - perché le first ladies non venissero al G8.

L’Italia come tutti i paesi è una tela, non un’accozzaglia caotica di episodi. Se non ricordiamo questo quadro non solo le tregue saranno basate su contro-verità. Si faticherà anche a ricominciare i normali conflitti e il parlare franco, finita la tregua. Sotto gli occhi della stampa mondiale appariremo come i lottatori di Clausewitz: allacciati ininterrottamente l’uno all’altro, senza fare alcun movimento.

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domenica 28 giugno 2009

Trasmissione USA su Berlusconi

Trasmissione americana su Berlusconi, a cura di paxside (in 5 spezzoni tratti da da you tube, con sottotitoli in italiano):

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5

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venerdì 19 giugno 2009

Rischio logoramento che fa riaffiorare voci sulla successione

L’accenno è stato fatto per scansare voci e forse speranze di una crisi a breve del governo. Ma smentendo davanti ai vertici di Fiat e sindacato che Giulio Tremonti e Mario Draghi possano prendere il suo posto a palazzo Chigi, ieri Silvio Berlusconi ha ammesso che se ne parla. Ha confermato implicitamente che la sua leadership sta subendo un lento processo di appannamento; e che sotto traccia qualcuno forse ha ricominciato ad accarezzare il progetto della successione: Magari incoraggiato da qualcuno degli avversari del Cavaliere.

È verosimile che non si tratti né del ministro dell’Economia, né del governatore di Bankitalia; semmai, di questi piani Tremonti e Draghi sono vittime. C’è di più. Proprio per il modo in cui l’offensiva contro il premier sta avvenendo, qualunque possibilità di un delfinato riconosciuto diventa più difficile. Berlusconi non l’ha mai davvero preso in considerazione. Ed il sospetto che qualcuno ci stia lavorando è destinato ad acuire diffidenze e ostilità. Il Pd gli chiede di dare spiegazioni sugli episodi nei quali secondo la magistratura sarebbe coinvolto; oppure di andarsene. Ma il presidente del Consiglio sa di avere dalla sua parte il timore diffuso che una crisi improvvisa e traumatica crei un pericoloso vuoto di potere. Una caduta sull’onda di un’offensiva extrapolitica rischierebbe di lasciare il Paese senza una maggioranza; e con la prospettiva di un commissariamento di fatto dell’esecutivo, slegato dal responso elettorale: un ritorno agli ambigui governi «tecnici» dell’inizio degli Anni 90 del secolo scorso.
Va detto che si tratta di un’eventualità remota. Intanto, il sistema politico non è delegittimato come allora. La difesa a spada tratta da parte del Pdl, e quella «da garante», vagamente padronale, della Lega lasciano capire che per ora il pericolo non esiste. Viene rilanciata la tesi del complotto ordito da pezzi dell’opposizione e della magistratura. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, mostra un larvato scetticismo all’idea dell’«aggressione di un nemico, interno o esterno». Ma i più avvertiti nel centrodestra sanno che non si può prevedere quello che accadrebbe se e quando Berlusconi decidesse o fosse costretto ad un passo indietro.
Sta affiorando un problema, però. Riguarda le incognite ed i contraccolpi provocati dal viavai di un’umanità assai variopinta nelle residenze del premier. Basti pensare alle domande poste a Bruxelles sull’opportunità della candidatura di Mario Mauro alla presidenza dell’Europarlamento, viste le vicende private del capo del governo italiano. Il suo avvocato e consigliere, Niccolò Ghedini, ha già detto e ripetuto che Berlusconi non è ricattabile. Eppure, magari in modo strumentale, dall’opposizione fioccano domande pesanti, che rimandano alla zona grigia creata da queste frequentazioni: perfino per la sicurezza nazionale. Forse sono questi aspetti collaterali a far riflettere ed a preoccupare maggiormente.
Massimo Franco, 19 giugno 2009

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venerdì 22 maggio 2009

Berlusconi si trucca prima dell'intervento alla Confindustria

Questa la fotosequenza pubblicata su Repubblica online che mostra Berlusconi che si trucca prima dell'intervento di ieri alla Confindustria. No comment! (clicca sulla stringa):
http://www.repubblica.it/2006/05/gallerie/politica/silvio-fazzoletto/1.html

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mercoledì 29 aprile 2009

Arrivano i soldi per il terremoto, dai poveri - Terremoto 6

di Bianca Di Giovanni da: L'Unità on line

All’Abruzzo per ora arriverà un miliardo e 100 milioni. L’anno prossimo 539 milioni. Il resto degli 8 miliardi annunciati arriverà tra il 2011 al 2033, con stanziamenti progressivi (330 milioni nel 20011; 468 l’anno dopo, 500 nel 2013) che a un certo punto decrescono, fino a toccare 2,9 milioni di euro tra 20 anni. Come dire: chi vivrà vedrà. Non è l’unica beffa contenuta nel decreto per la ricostruzione, firmato martedì dal presidente della Repubblica

Agli stanziamenti, infatti, si provvede con corrispondenti tagli al Fas (fondo aree sottoutilizzate), al bonus famiglia (300 milioni), alla spesa farmaceutica e grazie a nuove entrate garantite da lotterie e slot machines. Insomma, pagano i poveri e il sud. Il ministro Giulio Tremonti si era vantato che non avrebbe messo le mani nelle tasche degli italiani. «Nessuna nuova tassa», aveva declamato rassicurando Confindustria. E visto che c’era ha pensato di mettere le mani nelle tasche (semi-vuote) dei più poveri. C’è un altro combinato disposto, poi, che rischia di trasformare l’operazione Abruzzo in una vera manovra in favore dei «protetti». Presentando le misure, infatti, Tremonti non ha escluso l’eventualità di un’altra sanatoria fiscale: quella sul rientro dei capitali illegalmente esportati. Risorse frutto di riciclaggio, di corruzione e di evasione, «ripulite» con un obolo alleggerito. È destinato ai più bisognosi, ai nuclei in difficoltà, a chi ha un figlio handicappato a carico, o un anziano. Quello strumento (il primo a considerare il reddito familiare, e non del singolo, e per questo contrabbandato come inizio del quoziente familiare tanto caro alle formazioni cattoliche). Era pensato per una platea di 6,45 milioni di famiglie, che potevano aspirare a un contributo tra i 100 e i mille euro, per una spesa complessiva di quasi due miliardi. Come mai sono «avanzati» 300 milioni? Come mai è bastato un miliardo e 700 milioni invece dei due stimati? Ci sono meno poveri del previsto (anche in tempo di crisi) o hanno sbagliato i calcoli all’inizio? La verità, purtroppo, è un’altra, e somiglia molto alle vicende legate alla social card (ancora i poveri). Per ottenere quel bonus, infatti, è stato costruito un percorso con tali e tanti ostacoli, che ottenerlo equivale a vincere un terno al lotto. Nel sito www.nelmerito.it l’economista Franco Osculati lo definisce «lunare». Prima di tutto è a richiesta (non automatico). La domanda è a carico del datore di lavoro che «eroga il beneficio, secondo l’ordine di presentazione delle richieste nei limiti del monte ritenute e contributi nel mese di febbraio 2009. - spiega Osculati - Nel caso i sostituti d’imposta non provvedano, per insufficienza di tale "monte", gli interessati potranno ri–presentare istanza entro giugno all’agenzia delle entrate. In aggiunta, a cura dei sostituti, delle domande dovrà rimanere traccia nei modelli 770, dovrà essere data informazione, entro aprile, all’Agenzia delle entrate e dovrà essere conservata copia per tre anni». Una vera gimcana, che dovrebbe essere ancora in corso. ma siccome del bonus non parla più nessuno, si suppone che le richieste termineranno. Senza domande, scompaiono anche i poveri e le emergenze. Una buona fetta delle risorse da utilizzare subito proviene dai giochi (500 milioni). Anche qui il rischio è che si sfruttino i poveri, di solito dipendenti dal vizio delle scommesse. Il ministero prevede «nuove lotterie ad estrazione istantanea», «ulteriori modalità del gioco del lotto», «l’apertura delle tabaccherie anche nei giorni festivi». Il decreto fa cenno anche all’ipotesi di giochi da attuare nei supermercati. È prevista infatti «l’attivazione di nuovi giochi di sorte legati ai consumi». Ma il grande affare arriverà con le nuove slot machines e con nuove possibilità di poker on line. L’introduzione di macchine di nuova generazione, con il collegamento diretto all’anagrafe, consentirà di incassare per ogni macchinario cambiato una una tantum di 15mila euro: pr attrarre più giocatori, potrebbe abbassarsi la giocata minima a 50 centesimi (oggi è 3 euro) e alzarsi la vincita massima da 10 a 50mila euro.
28 aprile 2009

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martedì 21 aprile 2009

La dittatura della parola. Intervista di Valentino Parlato ad Antonio Tabucchi - Terremoto 5

a cura di Valentino Parlato (da: Il Manifesto del 18.4.09)
Antonio Tabucchi è un vecchio amico del manifesto, lo raggiungiamo in Portogallo, che è una sua seconda (o prima) patria e gli chiediamo di scrivere un commento a ciò che accade in Italia. Tabucchi non è di buon umore e rifiuta in assoluto di scrivere per i giornali, anche per il manifesto, ma parla.

Volevamo chiederti un articolo sulla situazione italiana...Sulla situazione della stampa e della censura in atto, vuoi dire?
Sì, della censura in atto, con quello che è successo con Annozero io ti risponderei così. Alcuni anni fa - nel 2002 - scrissi un articolo che per altro è stato poi ristampato nel mio libro «L'oca al passo, notizie dal buio che stiamo attraversando», per Feltrinelli. Il titolo dell'articolo è «Il silenzio è d'oro», e comincia così: «Ci sono varie forme di dittatura in Italia è in atto una dittatura della parola».Cosa vuol dire dittatura della parola? Che non ci fanno parlare?

Continuo... «Perché la parola è d'oro e la possiede una sola persona un uomo politico che è contemporaneamente capo di un governo e il padrone di quasi tutti i media che tarsportano la parola». Quindi questa è una dittatura della parola nel senso, che quel signore lì' può dire quello che gli pare, voi no, voi non potete. Perché non scrivo un articolo? Perché l'ho già scritto tanto tempo fa, non sono un giornalista
Repetita juvant
No, io non sono un giornalista e la cosa riguarda voi giornalisti.
Ma noi giornalisti, per esempio «il manifesto», continua a scrivere e a pubblicare contro Berlusconi
Ma non è contro Berlusconi quello che dovete fare. Questo succede alla Rai, perciò io se mai vi dico cosa potreste fare voi giornalisti, perché quelli che lavorno in Rai sono giornalisti, mi pare. Io mi ricordo che quando Berlusconi fece l'editto bulgaro non ci fu nessun giornalista che entrò dentro la Rai e si sedette per terra. Lasciarono licenziare Santoro, Biagi e Luttazzi tranquillamente. Perché non ci siete andati dentro la Rai e vi siete seduti tutti dentro? Forse non li licenziavano. Il problema è vostro perché, ripeto, io non sono un giornalista.
Il problema è anche tuo in quanto cittadino italiano
...Io sono uno scrittore, scrivo i libri e i miei libri per ora non li censura nessuno, ho smesso di scrivere sui giornali perché i vostri giornali, tutti quanti, sono sotto controllo.
Il nostro giornale non è sotto controllo, il manifesto non è sotto controllo.
Va bene, ma restiamo ai fatti. Io credo che se la cosiddetta commissione di vigilanza della Rai non ha gli estremi per una denuncia di diffamazione nei confronti della trasmissione di Santoro il mio consiglio, quello che vi posso dire, è che la Federazione della Stampa denunci alla magistratura la commissione di vigilanza Rai. Denunciate. Il motivo ve lo trovano gli avvocati. Portate tutta quella gente di fronte a un tribunale. Secondo suggerimento. Fate chiedere alla Federazione della stampa italiana un'udienza urgente alla Commissione europea. Si convoca apposta per un fatto del genere, e portate le vostre prove: la registrazione del programma e i vostri testimoni. La cosiddetta Commissione di vigilanza, venga a spiegare perché in Italia c'è la censura. Fra l'altro - aggiungo - date la possibilità della Commissione europea di esprimersi su un argomento finalmente importante, questo consentirà alle istituzioni europee di avere un po' più di credibilità. Perché avrete notato che la credibilità delle istituzioni europee non è mai stata così bassa. Si prevede un assenteismo enorme alle prossime elezioni e, secondo il sondaggio dell'Eurobarometro, il 51% di europei non crede più nelle istituzioni. Con una certa ragione, perché questi burocrati sembra abbiano dimenticato i principi dei padri fondatori, mi riferisco ad Altiero Spinelli, a De Gasperi e Adenauer. Ecco, date anche la possibilità di fare un gesto nobile, di occuparsi di qualcosa di importante.
Insomma il tuo suggerimento è di portare la questione in Europa.
Uscire dall'Italia, se non portate fuori dall'Italia autarchica questo problema nessuno se ne occuperà.
Nel contempo però, come giornale - e io parlo del «manifesto», giornale indipendente - dobbiamo continuare a scrivere.
Va bene, ma nel frattempo potreste anche - e questo mi sembra sia un fatto democratico se non c'è violenza - organizzare un bel sit-in alla Rai. Tutti i giornalisti che vogliono venire, la Federazione della stampa, i direttori di giornali, tutti i giornali che non sono di Berlusconi, chiamate anche il nuovo direttore del Corriere che ha fatto un bel discorso teorico. Venendo potrà dire qualcosa su chi ha accusato il programma di Santoro di «abuso di libertà». Ripeto, costui è liberissimo di dire ciò che vuole, ma bisognerebbe fargli notare che la frase «abuso di libertà» potrebbe essere considerata a sua volta un abuso di libertà se venisse un altro regime e che questo è pericoloso anche per le sciocchezze in libertà che dice. Inoltre - perché c'è molta ignoranza in giro - non farebbe male ricordare alle persone che in uno dei suoi proclami Francisco Franco quando fece il golpe di stato militare disse che l'esercito non poteva più tollerare l'abuso che la repubblica spagnola faceva della democrazia. E quando la democrazia abusa va ricondotta all'ordine. Bene, benissimo. Io credo che se voi fate un sit-in alla Rai e invitate le televisioni straniere secondo me la faccenda inizia a uscire un po' fuori dalla piccola Italia autarchica e l'Europa forse comincia veramente a preoccuparsi della situazione. Questo è quello che io consiglio di fare. Voglio aggiungere che la loro strategia è intimidire. Ne approfitto per farti sapere - così lo sanno anche gli italiani - che in questo momento io mi debbo occupare di un processo per difendermi in tribunale dal senatore Schifani, che mi ha mandato una comunicazione giudiziaria chiedendo un risarcimento per danni alla sua immagine di 1 milione e 200 o trecentomila euro; il 7 di maggio al tribunale di Pisa. Però il senatore Schifani non ha citato in giudizio anche il giornale su cui l'ho scritto, che è l'Unità, perché così colpisce un individuo, debole, e lo intimidisce, isolato come sono io perché sono un libero pensatore e per lui è più facile. Non coinvolge politicamente la faccenda. Anzi, approfitto per dirti che voi giornalisti - ammesso che la cosa interessi - potreste venire ad assistere al dibattimento.

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lunedì 13 aprile 2009

Tolleranza zero sull'informazione - terremoto 1

di Norma Rangeri
da: Il Manifesto dell'11.4.09 -pag. 1
Nella diretta sui funerali, Silvio Berlusconi si stacca dalla fila delle autorità e va tra i parenti per abbracciarli e confortarli. Le telecamere sono per lui, uomo commosso e affranto. Le alte cariche dello stato sfumano in secondo piano. Si chiude così una settimana televisiva che, insieme a tanti morti in carne e ossa, ha seppellito, sotto il conflitto di interessi, anche l'informazione. Le armate berlusconiane ora attaccano Annozero, definiscono «vergognoso oltraggio» la denuncia, promettono tolleranza zero per i superstiti di un giornalismo che illuminando il malpaese mette in pericolo l'immagine perfetta di lacrime e new-town, di dolore e case per tutti.
«L'emergenza sicurezza è proteggere chi studia, non mandare i figli a scuola o all'università come se andassero ogni giorno in guerra. Per poter seppellire i morti vogliamo sapere cosa è accaduto: un paese civile deve dare una risposta». Lo dice la sorella di un ragazzo morto sotto il cemento della casa dello studente. Avrà vent'anni parla con gli occhi asciutti, esprime, con lucida rabbia, quello che i telegiornali hanno accuratamente evitato di sottolineare, occupati a lodare i soccorsi e la fattiva presenza di Berlusconi.Suona persino eccentrico ascoltare queste voci in un programma televisivo, diventano come eccezioni alla regola. Che «prima dei ponti e del 20 per cento di cubatura in più, si pensi a questo», che «non ci sono tende, non ci sono bagni, né acqua», o che un uomo di scienza come Boschi confermi : «la pianificazione non c'era, Bertolaso è stato veloce ma quando è arrivato non ha trovato l'organizzazione». Tutto rischia di finire nel partito del solito Santoro, segnando una distorsione, un pregiudizio difficile da scardinare.Queste voci hanno nutrito l'appuntamento di Annozero, mettendo al centro la mancanza di esercitazioni di emergenza in Abruzzo (prima della catastrofe), l'entità dei tagli alle casse della protezione civile (documentati dai capitolati dell'ultima legge finanziaria), l'esistenza di un problema culturale e di risorse (soldi), i legami con il mondo degli affari illeciti. Fatti del resto denunciati in bella evidenza da addetti ai lavori e rilanciati da alcuni giornali. Ma non dalla televisione, anzi respinti dal piccolo schermo (telegiornali in testa) come corpi estranei a un discorso basato sul doppio binario del dolore e della rassicurazione: le due materie di educazione civica in cui la tv si è specializzata negli ultimi anni.Così quando l'altra sera il malpaese è diventato (come era in parte già accaduto a Ballarò) l'oggetto delle due ore di Annozero, la destra ha urlato all'oltraggio, definendo «vergognoso», per bocca di Giordano (direttore del giornale di famiglia) e del sottosegretario Crosetto (centrodestra), questo modo di vedere le cose. Come se obiettare equivalesse a bestemmiare, e informare significasse deturpare la performance del presidente del consiglio e, per assonanza, del pompiere. Alla serata in tv è seguita una violenta reazione dei giornali della destra berlusconiana, che estende al giornalismo critico la tolleranza zero. Finisce così nel cono d'ombra (non ci vuole molto) l'opposizione, e pure il Quirinale, declassando la notizia della visita (e le parole severe del presidente Napolitano) a titoli di fondo pagina.

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domenica 12 aprile 2009

Non occorre il fascismo. In altri termini, perché imporre il dominio se si esercita l’egemonia?

di Rossana Rossanda
da: Il manifesto, 31 marzo 2009
Non credo che il fascismo sia alle porte. Se le parole hanno un senso, ed è buon uso lasciarglielo, fascismo è quel che abbiamo conosciuto dal 1922 al '43: partito unico che si fa stato, fine delle elezioni e della divisione dei poteri, fine dei sindacati, illegittimità del conflitto di lavoro, fine della libertà di associazione e stampa, razzismo e singolarmente antisemitismo. Un regime del genere è oggi impensabile in Europa. Nell'evocarne golosamente due aspetti, poteri allargati del premier senza il contropotere d'un parlamento e di una magistratura indipendente, Berlusconi ha fatto una gaffe.
Che ne abbia profittato Fini è ovvio. E che lo faccia con l'intenzione di succedergli, tanto più che il Cavaliere non lascia spazio ai suoi, eccezion fatta per Letta, come eminenza grigia capace di tirarlo silenziosamente fuori dai guai, con stile opposto a quello che il boss coltiva per catturare la «gente». E che gli funziona, gli italiani avendo un'antica tendenza a farsi, da popolo, plebe; oggi non più stracciona, ma piccolo e medio borghese, egoista e sorda. Questa massa sarebbe anche disposta a benedire, come i suoi nonni liberali, un fascismo tale e quale, ma Fini, che è più intelligente, ha capito che non solo sarebbe fuori tempo, ma non è necessario a un muscoloso dominio di classe. Per indebolire partiti e sindacati basta una democrazia elettiva disinnescata da idee forti, un'opinione coltivata con libero zelo dai media all'antipolitica, al decisionismo, ai privilegi e al razzismo; l'antisemitismo, dopo la Shoah e in presenza di Israele, non usa più. Per il resto basta una democrazia presidenziale, tendenzialmente bipolare, tendenzialmente d'opinione, spontaneamente non partecipata con contropoteri più che legittimati ma ridimensionabili in situazioni definite consensualmente di emergenza. Di che altro ha avuto bisogno Bush? Di che ha bisogno Sarkozy, cui de Gaulle ha già fornito nel 1958 quel che Berlusconi vorrebbe, e sta spossessando la magistratura dalla decisione di impostare o archiviare i processi? La democrazia elettiva ha permesso Bevan e Thatcher, Bush e Obama. Può oscillare fra apertura sociale pacifista e repressione sociale bellicista. Senza strappi istituzionali. Dipende dal carattere del presidente. Fini ha una larga possibilità di farsi strada come più presentabile leader di destra, e Berlusconi ieri lo ha capito. Assisteremo al duello. Almeno finché non si presenterà uno scenario diverso. Oggi non c'è una opposizione capace di imporlo. Non quella moderata, mandata al tappeto da Veltroni e difficilmente resuscitabile dal volonteroso Franceschini e dai suoi modesti secondi ufficiali. Non quella detta radicale, che tutto si propone tranne dare una rappresentatività e qualche ragionevole speranza al blocco sociale dei salariati, dei precari, delle donne più coscienti di sé, dei cattolici non ratzingeriani, dei movimenti. Neppure ora che dentro tutta l'Europa monta la collera dei buttati fuori dal lavoro e dal sostentamento, di una intera generazione di giovani senza prospettiva; una massa che potrà sommarsi o, in mancanza di qualsiasi riferimento, scontrarsi con una immigrazione sicuramente crescente. Mai la sinistra è stata così vergognosamente assente, mai ha così abbandonato la protesta alla sconfitta o a rivolte riducibili a questione di ordine pubblico. Mai davanti a un sistema sociale incastrato nemmeno dalle sue contraddizioni ma dai più sfacciati e, a quanto pare, incontrollabili imbrogli. A tanto siamo a venti anni dal liberatorio 1989.

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mercoledì 11 febbraio 2009

A leggere, da donna femminista, i quotidiani

di Clelia Mori
A leggere, da donna femminista, i quotidiani ci si trova davanti ad un’immensa confusione su vita, morte, nascita, amore,maternità, parto, sessualità, corpo maschile, corpo femminile, famiglia, sesso, relazione tra i sessi, potere generante, potere governativo, potere religioso, singol*, comunità, assassinio, accanimento terapeutico, tecnologica e medicina. Una confusione che riguarda da vicino la nostra vita di tutti i giorni. Ma a farla non siamo noi che alcuni punti fermi li abbiamo, ma i politici, chi ci governa in modo virtuale chiusi in strani palazzi.
Ne hanno fatto un frullato esplosivo per la democrazia che ha navigato sott’acqua, almeno dal ’68, ed è venuto alla luce in un conflitto di poteri : governativi, religiosi, individuali.

In conflitto ci sono la capacità di autodeterminarsi e il desiderio dei governanti e degli ecclesiastici di non lasciarlo fare perché da tempo immemorabile gli compete definire le libertà delle donne e degli uomini, in questo ordine. E non mi va di parlare di potere al neutro, voglio dare un corpo al potere per riconoscerlo e per non renderlo trascendentale. Ma per farlo devo dire che è un corpo per lo più maschile se non voglio assumermi come donna la responsabilità della confusione. E non la posso assumere per spirito bipartisan, mentirei perché lì noi donne non decidiamo niente. E non me lo si può chiedere neppure con la scusa che ci sono anche donne nel governo e alle Camere. Sappiamo benissimo le contorsioni che devono fare per arrivarci e starci e la rinuncia ad un sentire femminile che gli viene richiesta…
E tutta questa confusione tra vita reale e vita virtuale è costruita da vecchi uomini che incarnano il potere. Uno di loro invasato dalla “mascolinità”, mai stato donna e madre e ignorante della bellezza e della difficoltà della procreazione, si permette di dire ad una signora in coma da 17 anni che potrebbe partorire, trovando il plauso dei ministri della chiesa, anche loro mai stati madri e neppure padri, ma con la pretesa che Dio gli si affidi per esistere nei nostri cuori.
La motivazione che adducono sta nell’ assoluta convinzione dell’ incapacità delle donne e degli uomini a decidere per sé e nell’avocazione delle loro decisioni ai due poteri.
Sembra che l’autonomia individuale renda vana quella del potere che non trova più motivazioni per esistere se non riesce a invadere ogni nostra intima piega, anzi, soprattutto quelle. Sembra una questione di controllo per sopravvivere e probabilmente è così, vista la foga disperata con cui assurdamente si muovono, ma è anche una delle poche cose che si preoccupano veramente di controllare.
Fino a che punto gli uomini di potere possono controllare la vita delle singole persone?
A dar retta ai potenti sembra che il loro maggior interessa riguardi la vita appena concepita, anche se magari non nasce, e il coma pluri decennale. L’altra vita non conta. Può ridere, piangere, avere fame, morire a centinaia da piccol* sotto le bombe che per loro non ci scalda come per la famiglia Englaro. Le persone non possono trovare la propria forza nei loro affetti e nelle loro relazioni. Il governo in accordo con la gerarchie religiose non lo permette. I governi sembra non amino i loro cittadini e le loro cittadine, le seconde meno dei primi, amano molto il potere come fine e forse per questo non possono amare i corpi in carne e ossa. Possono usarli o farli usare, comandarli, obbligarli, sanzionarli, spremerli ma amarli con materno e paterno senso di affetto, non compete a questi uomini. E chi lo sa se sanno, anche nella loro vita privata, cosa vuol dire amare? Probabilmente anche se l’hanno detto non hanno mai saputo cosa significasse o semplicemente non sono in grado di sentirlo. Bisogna avere sensibilità per amare, sapersi assumere delle responsabilità, anche quando ti mettono contro al mondo, anche quando costa l’offesa e il dileggio e sei da solo ad andare avanti. Loro no. Si muovono solo in branco e seguono chi urla di più.
Ma da lunedì sera sono più libera. Libera dal branco e dal potere. La famiglia Englaro ha liberato il mio corpo e la mia testa, con l’augurio che mi faccio che se ne vadano insieme, ma se così non fosse, loro hanno liberato con Eluana, i pezzi del mio corpo e li hanno riuniti. Con loro sono entrata in uno spazio che mi appartiene, che contiene anche le mie emozioni e dà loro dignità di scelta ai miei occhi e a quelli del mondo. Libera di vivere e morire per me, non per lo Stato, in mezzo a persone libere come me. La verità della morte di Eluana ci ha liberato dal falso vivere e dal falso morire. E dall’invasione della tecnica. Ci ha messo in uno spazio libero pieno degli affetti che nella vita ci siamo costruiti e tra questi non c’è il potere. Ci ha indicato due modi di essere padri. Uno, governativo, religioso e dittatoriale - non avrei mai voluto un padre così - e uno che può essere un esempio per tutti i giovani uomini che vogliono diventare padri. Papà Englaro ha liberato, mostrato nello spazio pubblico che aveva bisogno di esempi non virtuali, un modello di uomo e di padre, di amore, di vita, di morte e di responsabilità. Ha dato dignità ad un maschio in crisi di parole e di identità maschile.
L’autodeterminazione è stata seminata dalla donne con la loro riflessione sulla maternità da diversi decenni è a lei si torna sempre nella sofferenza, anche se la misoginia dei governanti ha sempre nascosto sotto il tappeto questo tema esplosivo per i loro poteri.
Dalla 194 alla legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita e alle varie nuove norme di attuazione delle due leggi, da quella più vecchia alla più giovane, è stata una continua ricerca per non riconoscere la libertà dell’autodeterminazione femminile, che, essendo un tema sollevato soprattutto dalle donne, sembrava si potesse tranquillamente eludere, privilegiando l’istinto di conservazione del potere.
Ma la vicenda Englaro ha portato allo scoperto il conflitto tra autodeterminazione e l’impossibilità a vederla esercitata dal potere, per come oggi il potere stesso si autointerpreta.
Un’interpretazione che non lega la sua sopravvivenza al cammino del tempo ma alla sua immobilità, convinta che controllando ogni virgola di libertà possa conservarsi senza modificarsi.
Il rifiuto maschile a mettere in relazione la gestione pubblica del potere e la libertà femminile è diventato esplosivo per la democrazia stessa quando l’autodeterminazione di un padre, per amore della libertà della figlia, ha preteso per lei la fine pubblica dell’uso della tecnologia per prolungare artificialmente la non vita e la realizzazione della verità della morte. Non della loro apparenza.
Marcando uno scacco agli accordi tra poteri.
L’inadeguatezza dei nostri governanti e dei ministri di culto è implosa per il germe che le donne vi avevano instillato a partire dai pensieri sul loro differente e concreto potere generativo nella confusione che quello astratto degli uomini ha costruito.
Un confuso potere virtuale, che non sa più cosa rappresenta oltre al desiderio di sopraffazione del singolo sul suo simile. La cattiveria è il motto attuale di governo, ma speriamo che il problema della libertà e dell’autodeterminazione, ormai esploso tra gli uomini, non venga cancellato da una relazione malsana tra poteri che volutamente dimentica ancora una volta l’origine da cui è nata. Diversi sottolineano che Eluana e con lei l’autodeterminazione e la libertà individuale, aggiungo io, è già nello sfondo di questa vecchia e sempre nuova lotta maschile.
Le dimenticanze, se ce le concediamo per misoginia governativa, e non solo il sonno generano mostri, ma Beppino Englaro ci ha insegnato da uomo come si fa a non dimenticare e a non fingere un accordo col branco.

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