venerdì 20 novembre 2009

Il PD e la politica al tempo della crisi

di Alfredo Reichlin, da L'Unità on line

Ho la convinzione che le cose siano ormai tali che gran parte delle dispute che ci hanno finora diviso dovrebbero essere alle nostre spalle. Cito i fatti maggiori solo di sfuggita. A 150 anni da Porta Pia l’unità del Paese è in discussione. Non è poco. Non ci sarà una rottura ma è già in atto una scissione silenziosa.

Occorre quindi che entri in campo una forza capace di ridefinire un nuovo compromesso volto a tenere insieme una delle regioni più ricche del pianeta e regioni povere, di antica nobiltà ma inquinate dal malaffare. Si può affrontare questa sfida senza un partito che per il suo stesso modo di essere rappresenta una rete, una presenza, una cultura nazionale?
Aggiungo una crisi dell’ordine costituzionale che da spazio a eventuali disegni cesaristi. Forse non ci saranno. Ma intanto già oggi è in atto qualcosa di molto grave. Lo Stato di fatto si sta sfarinando in un insieme di consorterie (partiti regionali e poteri più o meno oscuri). È quello che sta avvenendo. I grandi poteri si sono messi in proprio al punto che l’attuale ordine costituzionale con al centro il Parlamento non riesce più a mediare e governarli. Lo stesso Berlusconi ha perso, mi pare, il potere di coalizione.
Tutto chiede quindi che scenda in campo una forza autonoma capace, non solo di fare analisi, da- re interviste e parlare nel pollaio televisivo, ma di ridare una ossatura alla democrazia italiana.
Penso quindi che sia davvero alle nostre spalle un vecchio dibattito correntizio e politologico (centro, sinistra, trattino, non trattino). Torna quella semplice verità secondo la quale l’identità di un partito non si inventa, non discende da una ideologia bensì dalla sua funzione reale. Dall’esse- re necessario non a sé ma al Paese. Un partito non è l’idea di sé. È
uno strumento. Di che cosa? Io non credo che siamo innocenti. Ci siamo occupati poco degli italiani e troppo dei nostri problemi interni (chi comanda). Non è solo colpa della destra se è così cambiato il modo di essere degli italiani: la scissione silenziosa di una larga parte del Nord, l’illegalità diffusa, la paura del diverso, le nuove povertà accanto alla formazione di ricchezze e di stilli di vita quali dopo l’età feudale, e con l’avvento
dei diritti dell’uomo e del cittadino non si erano più visti. In Italia ci sono ormai cinque milioni di emi- grati. Una nuova razza di schiavi. Aggiungo una sorta di “tabula rasa” per ciò che riguarda la consapevolezza della propria storia, e quindi dei valori a cui attingere. Sembra che gli italiani siano alla ricerca di nuovo vincolo fondativo. Chi glielo dà? Noi? La destra e una certa Chiesa ci stanno provando. È chiaro quindi qual sia il nostro compito: essere l’espressione di una nuova “idea nazionale”. Il modello socialdemocratico non c’entra niente. Il partito si chiama “democratico” non solo perché i gruppi al suo interno si confrontano ricorrendo al voto ma perché costruisce una nuova unità del popolo italiano. Il che non è una banalità. Perché la forza della destra consiste proprio in questo: la divisione, la rissa, la lotta di tutti contro tutti e quindi l’impotenza, l’impossibilità di cambiare. Per cui l’opposizione può proporre i programmi più belli ma in questa lotta di tutti contro tutti nessun disegno di me- dio periodo è realizzabile.
Peccato che Rutelli non si sia ac corto che le vecchie dispute tra Stato e mercato, destra-sinistra non dicono nulla. È assolutamente vero che anche il tempo di quello che è stato chiamato lo Stato dei partiti è finito. Non si può più governare solo in nome di un blocco sociale. Non solo, ma governare significa dettare regole e arbitrare una crescente complessità e varietà di poteri (non solo economici). Il che comporta l’uso di agenzie e di strumenti di conoscenza che i partiti non hanno. Ma sarebbe fallimentare l’idea che basti mettere al posto dei vecchi partiti uno strumento essenzialmente di propaganda dove non conta la militanza organizzata.
Non credo che parli in me il rimpianto per il Pci. Parla piuttosto il bisogno di una struttura diversa dove sia possibile elaborare un progetto politico collettivo e un sistema di idee condivise. Non bastano il consenso elettorale e i “Capi” carismatici. So benissimo che non si possono rifare i vecchi partiti, ma c’è poco da fare: un organismo che sia fattore di guida anche morale della comunità è oggi più che mai necessario. Parlo di uno strumento capace di mobilitare forze, intelligenze e passioni e quindi radicato nella società e nella storia del Paese.
In mancanza di ciò dobbiamo sapere quale prezzo si paga. È molto grande. È la rinuncia a prendere decisioni autonome. Ci condanniamo a ballare una musica scritta e suonata da altri. Chiedo a Bersani: la concretezza va bene; ma, nel partito che tu immagini, dove si possono pensare e discutere le possibili alternative?
Per concludere, io penso che siamo di fronte a un vero e proprio problema di “rifondazione” della politica. Con l’obiettivo di ridare alla politica stessa il valore di strumento che organizza la libertà degli uomini e che quindi consente ad essi di decidere del proprio destino. Io penso che bisognerebbe parlare così alla nostra gente. Di che cosa abbiamo paura? Di apparire troppo radicali? Ma la radicalità non sta in noi, bensì nei problemi reali intorno a noi. Basta vedere con quale disinvoltura una ristretta oligarchia ha rapinato le ricchezze del mondo. Oppure come la scienza ha spostato il confine tra la morte e la vita. È su cose come queste che si ridefiniscono le ragioni di un grande partito democratico. Si invoca retoricamente il “nuovo” ma il nuovo è questo. È riprendere finalmente il proprio posto nel cuore del conflitto e delle contraddizioni del Paese.


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