lunedì 30 marzo 2009

Non ho mai pensato che Dio si potesse usare così disinvoltamente

di Clelia Mori
Mi sto chiedendo se parlare, in questi giorni, di delirio politico religioso è azzardato. Vorrei dire di no, che eccedo e che non è così.
Ma, dentro, qualcosa da tempo mi spinge a pensare che non è possibile interpretare così villanamente il pensiero di Dio. La noncuranza con cui lo maneggiano tutti, la dimestichezza con cui viene interpretato da chiunque abbia un potere mi lascia incredula.
Non ho mai pensato che Dio si potesse usare così disinvoltamente come si fa oggi, con la tranquilla sicurezza con cui politici, politiche e clero se lo dribblano dagli uni agli altri. Eppure pare abbia un filo diretto con loro e, più sono alti in grado, e più Dio gli parla e più li autorizza a fare in Suo nome, irrobustendo l’invisibile filo delle loro disinvolte interpretazioni.
E sempre più queste interpretazioni hanno la pretesa di essere inattaccabili, indiscutibili ed immediatamente eseguibili. Come, non conta. Parte un trip è ed è immediatamente gara e non importa se poi si è razzolato male. Quello che conta, sulla scorta di millenni di esperienza, è nominare.
E il loro Dio è super nominato, più importante di quello delle altre e degli altri e imparagonabile rispetto alla potenza di quello che si portano in tasca, pronto all’uso in ogni momento. Un pret-à-porter. Un portatile. Un lasciapassare per qualsiasi idea.
Né più né meno come una qualunque merce di scambio. Sembra quasi diventato un mezzo per avere denaro e potere se lo usi nel modo giusto, magari anche come un ariete se serve per definire i comportamenti che vuoi che gli altri e le altre abbiano. Se possibile partendo dalle altre che è sempre il lasciapassare migliore su cui radicare i poteri, sperimentato da millenni e ancora valido turandosi naso, occhi e orecchi.
E’ anche un luminoso, simbolico e onnipotente paravento per cercatori di onnipotenze. Un paravento del potere come lo sono pure le donne oggi, anche se loro lo sono in modo molto più umile.
Non è più un nome da maneggiare con cura e rispetto, è piuttosto qualcosa che si può davvero portare in tasca come un rosario, ma non è un rosario. Sembra più una delega in bianco dall’alto che si lascia interpretare al bisogno. Basta nominarLo.
Va bene che Dio è buono e ci ha dato il perdono lasciandoci la libertà di sbagliare e di, eventualmente, pentirci, ma pare che questa possibilità non sia universale, anzi che non sia usabile da tutti e da tutte e che alcuni – molti – e alcune – in numero molto inferiore - la possano usare più disinvoltamente del resto del mondo.
Insomma sembra che Dio privilegi chi può e chi non può molto meno. Non è colpa di nessuno se
a tanti e tante Dio non parla e se per sapere cosa vuole devono ascoltare le interpretazioni di chi ha il filo diretto…

Questo Dio è molto, molto diverso da quello che ho conosciuto da piccola, in campagna.
E’ un Dio che sembra non conoscere il perdono, un Dio castigatore a cui si obbedisce per paura e non perché ci ha abbagliato con la bellezza della sua grazia e della sua bontà e con l’idea dell’uguaglianza perché siamo tutte e tutti figli suoi. Avevo imparato, nella mia chiesina settecentesca in riva a Po, che eravamo uguali ai suoi occhi e che, se aveva preferenze, era per la pecora smarrita che andava a cercare lasciando lì tutto il resto del gregge e che tuonava contro i mercanti nel tempio...
Ma oggi è cambiato. E’ disponibile solo per pochi e per pochissime e per quelle solo se ubbidiscono pedissequamente. Ma può cambiare così radicalmente nella vita di una persona la Sua immagine, la Sua idea, la Sua novella? E’ così mutevole, così esposto ad ogni brezza di onnipotenza umana?
O è chi lo nomina così frequentemente che non sa o non vuole sapere bene di cosa sta parlando? Questo, così abusato oggi, sembra persino nemico delle donne - e non nato da donna -, dei deboli, dei poveri e dei viventi senza particolari poteri, sembra indifferente ai bisogni della vita per esistere con dignità e sembra rinnegare persino la morte che ci ha dato con la vita, quando la vita se n’è già andata e privilegiare con particolare affetto solo quella che non si sa se nascerà, tutto il resto non conta, è delegato ai poteri terreni.
E’ vero, si è fatto uomo a nostra somiglianza per salvarci, ma non vuol dire che solo qualche privilegiato sa cosa Lui vuole perché si è fatto uomo come lui. Si è fatto uomo come tutti noi e parla a tutti noi. Anche se non c’è una Sua forma per dire che il Suo sacrificio riguardava anche le donne, ma questo è un altro problema.
Resta il fatto che Dio non è, non può essere se è morto per noi, il despota con cui viene raffigurato nel testamento biologico in questi giorni in parlamento, ultima Sua umana e scadente rappresentazione di chi usa, così famigliarmente, il filo diretto con Lui.
Delirio non è poi una parola così sbagliata per quello che ci accade, oggi, in Suo nome.

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domenica 29 marzo 2009

Intervista ad Enzo Grappi sulla situazione economica reggiana

Interviste di Reggio Fahrenheit, 1
Intervista ad Enzo Grappi - già Responsabile dell'Osservatorio Economico Provinciale - sull'economia reggiana (a cura di Dino Angelini)

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sabato 28 marzo 2009

Il coraggio di finire - Riattraversare la fine può rivelarsi una educazione sentimentale

Il gruppo del mercoledì: Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Laura Gallucci, Letizia Paolozzi, Isabella Peretti, Bianca Pomeranzi, Bia Sarasini, Rosetta Stella, Stefania Vulterni

Abbiamo cominciato a riunirci il mercoledì, prima della caduta del governo Prodi, quando non era ancora del tutto implosa la politica dei partiti della sinistra. Avvertivamo tutte, al di là delle diverse esperienze e del diverso coinvolgimento in quella vicenda, il bisogno di uno scambio su quello che da tempo ci sembrava evidente: una perdita di senso e di funzione della sinistra, all’interno di una più generale crisi della politica. Una perdita forse irrimediabile. Che si manifestava nella ripetizione di tutti i vizi che l’hanno portata allo schianto elettorale, dalle pratiche asfittiche ed autoreferenziali, all’abuso di parole troppo lise per comunicare e convincere. A questa situazione abbiamo guardato con “attenzione amorevole”.

Aver visto prima il vuoto di pensiero e la distanza dall’esperienza, averne scritto e parlato in testi ed incontri, non ci ha reso più allegre, forse più lucide. Non ci ha evitato, comunque, di girare a vuoto anche noi. Finché ne abbiamo parlato a partire dalle cronache politiche, o perfino dai percorsi di alcune di noi all’interno di questa o quella organizzazione. Discussioni anche interessanti, ma che non ci appassionavano.
Poi è accaduto uno scarto. Siamo ri-partite da quello che stava accadendo ad alcune di noi: l’ invecchiamento, le malattie, la fine di persone care. Abbiamo tutte esperienza del peso e della sofferenza che può suscitare la fine della vita. E abbiamo bisogno di dare parola a questa esperienza. A cosa accade ai corpi nel morire. Forte bisogno, comune, anche se in modi e per motivi diversi. Ci siamo chieste se vi sono modi di accompagnare chi ci è caro, o di essere noi stesse accompagnate, ad “una buona fine”. Forse no. Ma anche se la fine non può essere buona, bisogna assumerla comunque. E’ un modo di riconoscere la finitezza, il limite, l’usura del corpo.
Restano – non è una consolazione ma una eredità – le relazioni. La politica delle donne di questo parla. E’ questo il filo di continuità tra il nostro gruppo e il femminismo. E’ sulla possibilità di mettere le relazioni al centro della politica che vogliamo lavorare, creare incontri e scambi con uomini e donne.

“Questo gruppo, ha scritto una di noi, insieme ad un mio personale percorso di riflessione, mi ha dato più pazienza e più fiducia nello stare in questa sospensione, per recuperare piano, più che il fare compulsivo, uno stare nel presente, con tutti i limiti, ma comunque stare, nel sostenere e partecipare di uno scambio con le altre e con la realtà, che restituisce fiducia a se stesse e dà fiducia al pensare e fare comune, un fare che ha un valore in sé prima che negli obiettivi da raggiungere, che perlomeno, “sopporta” anche il “negativo” inteso in senso fotografico come pellicola ancora da sviluppare”.

La questione politica della fine della vita
Questo ha suscitato in noi un coinvolgimento vivo sulla questione politica della fine della vita. Da mesi presente nelle cronache di giornali e istituzioni sul cosidetto “caso Englaro”. Che abbiamo però sottratto alla complicata e astratta discussione bioetica, su legge o no, su chi decide, su cos’è accanimento terapeutico, cosa terapia, cosa vita, quando si è morti o no, ecc, ecc.
La legge ci sembra un modo solo per coprire un vuoto di senso, e, al contempo, esorcizzare la paura della morte. Tenere in vita Eluana, ad ogni costo, sarebbe stato un modo per negare non tanto la morte, ma la perdita di senso che questi nuovi modi di morire, queste inedite condizioni dei corpi, ci presentano.
Nel corso di due generazioni si è allungata di un paio di decenni la speranza di vita e la scienza promette di allungarla ancora. Le tecniche fecondano e conservano embrioni, combinano e sostituiscano organi, producono la vita vegetativa. Sono nuove possibilità, nuove condizioni dei corpi, nuove forme di biopotere. Alimentate tutte dalla paura della morte, dalla promessa se non di sconfiggerla,almeno di allontanarla.
Ma così si perde la capacità di vivere e dare senso non solo alla morte, ma alla fine. Nella quotidianità, nei cambiamenti dei corpi e nelle relazioni. Delle singole vite, come delle esperienze. Dei corpi, come delle forme di vita collettiva. E’ sempre più difficile saper convivere con la morte. E saper quindi compiere quel mutamento esistenziale che ogni fine, a noi vicina, comporta. E sempre meno accettiamo di fare esperienza del lutto, della necessità di prendere congedo. Di attraversare il dolore che ogni cesura, tanto più se inevitabile, comporta. La morte da esperienza individuale si trasforma così in un rimosso della coscienza collettiva. Lavorare su quel rimosso è una parte essenziale della politica, perché è essenziale per la convivenza.

Sui corpi si esercita da sempre potere.
Il potere ha tante facce. Da quella della sovranità politica, a quella dell’intervento tecnologico, a quella del controllo e disciplinamento , a quella dell’autorità del sapere, religioso o scientifico. Le norme e regole sono sempre più dettagliate ed invasive.Modellano, o pretendono di farlo, non solo scelte e comportamenti, ma emozioni e sentimenti, l’immagine e la carne di cui i corpi sono fatti. Il corpo è oggetto privilegiato della contemporaneità: da tenere sotto controllo, addomesticare, subordinare, sfruttare, mettere a valore nell’organizzazione sociale ed economica; da scandagliare, sezionare, scrutare, definire, regolare nella vita individuale. Il corpo biologico, il corpo-natura è da sempre femminile. Innanzitutto, aborto e procreazione artificiale. Ma anche stupro e violenza sessuale. Il corpo è il banco di prova e misura dell’esercizio di un potere invasivo sulle vite degli altri, di un parossismo ideologico a disporre della vita, trafugando i corpi, violando principi costituzionali e sentenze, crocefiggendo i sentimenti più intimi delle persone in nome della “difesa della vita”. Di nuovo la difesa della vita si afferma contro le vite.
. Gli ottocentomila morti per fame ogni giorno, il milione e mezzo di bambini che muoiono ogni anno di morbillo, quelli uccisi dall’AIDS, quelli che scompaiono durante le lunghe e inumane migrazioni, i morti per le guerre, le vittime per la violenza. Per noi non sono solo numeri, sebbene impressionanti. “Resti”, senza voce e senza volto. Spesso l’affermazione della propria vita è fatta sulla vita altrui. Quella del proprio stile di vita contro gli altri stili di vita.


Dalla fine del corpo alla fine della sinistra

Dal bisogno di nominare la fine dei corpi, abbiamo preso consapevolezza del bisogno, altrettanto forte, di nominare la fine nella politica. Senza produrre analogie o addirittura assimilazioni schematiche. Sarebbe anche questo un modo di mettere un tappo al vuoto di senso. Il rinvio dal corpo alla politica, dal fine vita alla fine di forme della politica è stato repentino. Ci ha fatto capire perché giravamo a vuoto. Senza afferrare il nesso tra la nostra esperienza viva di politica ed il discorso politico e sulla politica. Perché anche noi restavamo incagliate nel “discorso ” pre- costituito che è quello pubblico, dei giornali e delle sedi politiche. Un effluvio di parole che assorda senza riempire il vuoto di senso. Proprio come nel discorso della bioetica, attorno al corpo di Eluana.
Nella politica delle donne abbiamo sempre cercato di tenere insieme politica e vita. Mettendo in luce i nessi non solo sul piano dell’esperienza, ma su quello simbolico. Riattraversare la fine può rivelarsi così una sorta di educazione sentimentale. Un’educazione al dolore, alla rabbia, al coraggio. Sono sentimenti che accomunano l’una e l’altra fine. Dolore e rabbia per l’impotenza che la fine costringe a vivere. Coraggio necessario a riconoscerla, a trarne misura nel fare e nel pensiero.
Di pensiero sulla fine abbiamo bisogno per guardare con dolore e senso di responsabilità, come si fa con il corpo amato, a quel sedimento di idee e di storie della sinistra, che è oggi segnato dalla fine. Per non restare imprigionati/e nella conservazione. E, viceversa, saper metterne a frutto la ricchezza, separandosi da ciò che è finito, compiuto definitivamente.

Se si vuole ricominciare

Non è automatico ricominciare, non sempre è possibile, ma se si ha voglia di ricominciare bisogna congedarsi, per evitare gli ingombri che ci impediscono di vedere e capire il presente (dimensione spaziale) o ci costringono alla rapidità vuota e illusoria della serie fine- nuovi inizi (dimensione temporale). Per noi nominare la fine è un modo per non restare bloccate nella sua morsa, per sottrarsi alla ripetizione, e non affidarsi all’illusione del nuovo inizio (anche questo un rito ripetuto) del fare, guardando sempre avanti, in positivo.
Come se non ci fossero lutti e perdite. Ma anche resistenze, attaccamenti che tolgono libertà, vincolano rispetto all’inedito che la fine porta con sé. E che sgomenta più della perdita
Succede invece che l’incapacità di pensare le cose che finiscono, determina, come abbiamo detto, da un lato l’accanimento terapeutico e dall’altro l’esercizio di potere su una politica sfarinata.
.La crisi della politica mima le crisi del corpo fisico. Conosce l’alternarsi di bulimia e anoressia: eccesso di parole, di concetti, di invenzioni verbali e disseccamento delle radici sociali, delle pratiche comunicative, degli scambi di senso e di riconoscimento. Cupio dissolvi e vocazione suicidaria nella riproposizione all’infinito dei modi e delle logiche che hanno portato al disastro. Accanimento terapeutico diretto a rinverdire simboli e riferimenti ormai in declino, che hanno dato un giorno forza all’impresa e che si spera possano tornare a essere quello che sono stati.
Nel femminismo abbiamo tempestivamente visto e nominato i danni del prometeismo. Di quel peculiare accanimento maschile che li spinge a tenere in vita vegetativa imprese collettive. Le istituzioni, le prassi, i codici di una politica non più viva, non più feconda. Perché non nutre le esperienze, non le cambia, non offre significato.
Gli uomini fanno fatica a prendere le distanze dalle organizzazioni - partiti, gruppi, associazioni- che hanno costruito. Non riescono a separarsene. L’ansia per il declino di un partito si traduce nell’invocare un laeder, così come la laedership dovrebbe supplire alla crisi dell’ autorità patriarcale. Nella realtà i gruppi dirigenti maschili, a sinistra soprattutto, non solo non hanno autorità, ma sono un ostacolo per affrontarla: occupano quella funzione, ma non la incarnano.
. Nell’infinita transizione italiana è tutto un fare e disfare partiti, coalizioni, sistemi elettorali. Un chiudere ed aprire fasi e cicli senza mai fermarsi a prendere atto di ciò che è davvero finito, morto, dentro questo inesausto adoperarsi per dar vita al nuovo. Ed è malamente morto, senza ottenere degna sepoltura, anche a causa di questo accanimento.
Non è forse vero che in tal modo è stata sottratta a molti e molte la perdita? Che non riescono ad assumerne consapevolezza? Di conseguenza non sanno più di cosa patiscono la mancanza, di cosa hanno desiderio o bisogno e di cosa possono invece fare a meno?
Si può accettare il vuoto e l’impotenza. Fa soffrire. Ma questo può essere, una condizione attiva, non solo passiva. Patire è radice di passione. Attiva desiderio. Muove dall’impotenza che avvertiamo verso… un bisogno di dare senso a quel patire, prima ancora che verso qualcosa che lo risolve. (Come se, di nuovo, il movimento fosse solo e sempre da negativo a positivo). Ma non bisogna avere fretta di colmare il vuoto, di azzerare la sofferenza con la rimozione.
Ignorare la fine ci fa perdere l’opportunità di portare con noi ciò che è importante di questa fine e che probabilmente ci sarebbe utile per ricominciare.


La democrazia a rischio
Democrazia è una parola a rischio. Per la sua intrinseca ambivalenza. Come sistema politico ha fatto spazio alle differenze, alla pluralità delle esperienze e dei punti di vista. Come forma del potere politico si è costituita come luogo terzo rispetto alle differenti posizioni, ai partiti, ai conflitti, alle soggettività. Nessuno, né individuo né gruppo può coincidere con il potere democratico, identificarsi con esso, incarnarne l’autorità, il punto di vista. Sta qui un vero e proprio ribaltamento: dal doppio corpo del re al vuoto di corpi, di soggetti incarnati. Dall’autorità del sovrano che è “sopra la legge” (come tale garantisce l’ordine, non solo sociale, mondano, ma simbolico, trascendente) al potere e alle funzioni dei governanti. Che possono essere arbitrari e autoritari ma non per questo sono meno provvisori. Anche per i governati, noi singoli e singole la democrazia è parola ambivalente. A rischio. Per un verso abbiamo potere su noi stessi, è la libertà individuale, garantita come diritti. Per altro verso ognuno deve vedersela da sé, sta per conto suo, ha i fatti suoi. La democrazia insomma, come luogo terzo rende più difficile mettere al centro della politica e della vita le relazioni. Questo produce un ricorso ossessivo alla legge. Ci si appella alla legge per paura delle relazioni, come se la legge potesse colmare il vuoto di legami, l’assenza di una dimensione condivisa nell’ esistenza e nel pensiero.
Vorremmo ripensare la democrazia, non come luogo terzo, non come potere neutro del decisore, ma come convivenza tra differenti, spazio di relazioni e mediazioni, del loro intrecciarsi con l’agire collettivo
Spesso nei gruppi politici si verifica uno slittamento dalla politica dell’esperienza ( con i suoi bisogni, con i corpi, le condizioni di dipendenza, i desideri, le aspirazioni, i legami e le relazioni) alla politica dell’immaginario ( soluzioni tecnologiche, norme, rituali organizzativi, delega alle istituzioni e ai laeder, appello alla legge).
Questo accade quando non vi è consapevolezza che anche le istituzioni umane, tutto ciò che è costruito è contingente, finito. La sinistra ha affrontato il suo declino come se fosse, per natura, necessaria, insostituibile. Hanno preso il sopravvento la rimozione e l’ attaccamento. L’una o l’altro, o meglio miscele, diverse, tra i due. Attaccamento come ripetizione, inconsapevole per lo più, del passato, rappresentazione mitica di ciò che è stato, suo ritorno parodistico, diffuso affidarsi ai meccanismi e ai dispositivi sperimentati. Soprattutto c’è stato un uso del sentimento affettivo diffuso, del senso comune e della tradizione. Rimozione come rito dell’innovazione, ricorso al lifting piuttosto che costruzione di un altro ordine di senso e di esperienza.


Il coraggio di finire

Non vediamo modo di ricominciare se non si ha il coraggio di finire. Di nuovo c’è un nesso con la questione del fine vita. Con il modo in cui è stata malamente rappresentata nella vicenda Englaro.
In questi anni le donne hanno chiuso diverse esperienze, diversi gruppi, associazioni. Da Emily ad A/Matrix, a Balena. Prima era avvenuto con lo scioglimento dell’Udi, con la chisura di “Reti”, con l’esaurirsi del “centro Virginia Woolf”. Sono quelle che conosciamo più da vicino. Gli uomini invece se chiudono un esperienza, fanno finire un partito o un gruppo e per rifarlo. Magari per moltiplicarlo, dividendosi in due o tre sotto-gruppi. Forse perché il significato della parola “fine” si intreccia troppo con quello di “fallimento”. Forse perché hanno paura di invecchiare – anche noi, ma diversamente da loro – e provano a mantenersi giovani, ripetendo il rito del nuovo inizio. Come nella vita, cambiano partner.
Noi vorremo comunicare con loro, su cosa vuol dire avere coraggio di finire. Mantenendo vive, ed allargando, le relazioni che abbiamo.
.

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martedì 24 marzo 2009

2 petizioni per Peppino Englaro



Queste le due petizioni:


1. A Peppino Englaro, con riconoscenza. A cura di Altavoce:
http://www.petizioni.info/modules.php?name=News&file=article&sid=81&mode=&order=0&thold=0

2. Cittadinanza onoraria di Parma e Reggio a Beppino Englaro. A cura di "Iniziativa Laica" e "Libera cittadinanza:
http://www.liberacittadinanza.it/petizioni/parma-e-reggio-cittadinanza-onoraria-per-peppino
ti preghiamo di firmarle entrambe!

ciao.
Carmen, Deliana e Dino

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venerdì 13 marzo 2009

Razzismo di Stato

di Annamaria Rivera
“il Manifesto”, 13 marzo 2009, p. 1
La “preferenza nazionale” era uno slogan del Front National francese in voga negli anni ’80. Ma il Front National è un partito di estrema destra che mai è stato accolto in un governo. Che oggi siano due ministri della Repubblica italiana –prima Bossi, oggi il più compassato Sacconi- a proporre la preferenza nazionale, rispettivamente sulla casa e sui lavori stagionali, è cosa che fa rabbrividire.
Non solo ci conferma ciò che temiamo: l’uscita a destra dalla crisi. Ma ci prospetta che la torsione reazionaria sarà perseguita attivamente e incoraggiata. Il disegno è chiaro e riecheggia le fasi più cupe della storia del Novecento. Già oggi ne è in atto un dispositivo fondamentale, quello che mira a dirottare l’incertezza del futuro e il disagio popolari verso i più deboli fra i deboli: i rom e i migranti più precari. La costruzione dell’”emergenza-stupri”, con il corollario forcaiolo di innocenti mostrificati e additati tramite i media al pubblico ludibrio, a questo serve: ad aizzare il “razzismo dei piccoli bianchi”, così che coloro che vedono minacciati i propri scarsi privilegi possano sfogare frustrazione e rabbia su coloro che sono socialmente più vicini ma un po’ più in basso.
La gestione autoritaria e razzista della crisi economica esige uno stato di eccezione permanente. E questo colpisce non solo stranieri e minoranze, ma gli stessi cittadini italiani maggioritari. Il pacchetto-sicurezza contiene misure persecutorie contro gli “estranei” ed anche norme miranti a reprimere il dissenso, il conflitto sociale, la libertà di espressione. Fino a conferire al ministro dell’Interno la facoltà di sciogliere gruppi “eversivi” e di oscurare siti telematici che invitino “a disobbedire alle leggi”. In questa strategia, il circolo vizioso del razzismo di Stato- razzismo mediatico-xenofobia popolare occupa un posto centrale: si reprime il dissenso e il conflitto sociale e nel contempo, con l’aiuto decisivo dei media, si additano capri espiatori verso i quali è possibile indirizzare la protesta di ceti popolari colpiti dalla crisi economica. I capri espiatori a loro volta sono resi più vulnerabili ed attaccabili dagli effetti della crisi, dalla privazione della casa e del lavoro, ma soprattutto da norme persecutorie che mirano ad umiliarli, emarginarli, de-umanizzarli, negando loro diritti umani elementari: il diritto alla salute e alla famiglia, il diritto di mandare del denaro a casa e perfino di riconoscere i propri figli…
Ci sono modi e modi per uscire da una crisi che, certo, è globale ma si riflette in modo particolarmente pesante su paesi, come l’Italia, devastati da politiche neoliberiste e dalla debolezza e incoerenza dei sistemi di protezione sociale. Obama cerca d’indicare l’uscita della solidarietà e della coesione sociale, dell’incremento dei diritti dei più deboli, della difesa delle minoranze. La destra che ci governa e i poteri che rappresenta additano la strada della “cattiveria” e del razzismo, sperando così che rancori e conflitti orizzontali permettano loro di restare in sella. E’ accaduto più volte nel corso della storia. Ma il fatto che sia uno schema classico non ci rassicura affatto.

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domenica 8 marzo 2009

“Emergenza - stupri e ronde: la radice maschilista è la stessa”

di Annamaria Rivera
(apparso stamattina su: “Liberazione”- La questione maschile, p.II)
A dubitare fin dall’inizio della narrazione pubblica dello “stupro della Caffarella” siamo stati in pochi. Con l’eccezione di qualcuno - EveryOne, per esempio, ha avuto il coraggio di smentirla in un dossier dettagliato - quasi tutti la hanno data per scontata, perfino quotidiani decisamente di sinistra: a nessun giornalista è venuto in mente di fare non dico una controinchiesta (non siamo mica negli anni ’70!) ma almeno una vera, onesta indagine giornalistica. Al massimo si è cercato di correggere l’amalgama indecente romeni-rom-stupratori dando la parola agli “zingari buoni”, che avrebbero permesso la cattura di uno dei due accusati. Correzione che non ha migliorato la versione dominante, se mai le ha aggiunto quel tocco di paternalismo peloso che le mancava.
Non parliamo poi del malcostume d’ignorare il principio della presunzione d’innocenza, specie quando si tratta degli “altri”: sembra che anche a sinistra si cominci a pensare che rispettarlo è un lusso che non possiamo più permetterci. Il che la dice lunga non solo sullo scadimento del mestiere ma anche sull’egemonia culturale della destra.
L’”emergenza-stupri”, lo sappiamo bene, è solo l’avatar più recente del vizio di orchestrare campagne propagandistiche di stampo forcaiolo e razzista, in cui a variare sono solo i capri espiatori: figure “aliene” che mutano secondo criteri statistici –la componente immigrata più numerosa- o biecamente strumentali -la categoria di “altri” più antipatica e/o più utile a spacciare l’urgenza di misure liberticide e persecutorie. Non è un fenomeno nuovo: la tendenza a ridurre l’attualità politica ai fatti di cronaca nera -selezionati, gerarchizzati, drammatizzati dai mass media secondo l’aria politica del momento- si manifesta dacché esiste uno spazio pubblico che esige qualche coinvolgimento dei cittadini, spesso in realtà ridotti a semplici elettori. E non è nuovo, anzi è antico come i linciaggi il tema del “diverso” che insidia le nostre donne. Vetusto è anche quello che attribuisce agli “altri” l’attitudine naturale ad opprimere, schiavizzare, far violenza alle donne: per limitarci all’Italia, un tempo era prerogativa dei terroni, più di recente degli “islamici”. Non è nuovissima neppure la moda di prendere a pretesto crimini contro le donne, purché commessi da estranei, per compiacere o sollecitare gli umori collettivi più malsani: il “consiglio di guerra” convocato dal governo di centrosinistra dopo l’omicidio Reggiani ha fatto scuola. Più stravagante è che ad allarmarsi e starnazzare per l’”emergenza-stupri” sia chi ha reintrodotto nello spazio pubblico il celodurismo, rinverdendo così lo stile mussoliniano. Si sa, parlando dell’Altro si parla di se stessi. Che a gridare contro lo stupratore alieno sia la Lega nord, il partito che ha reso linguaggio politico l’esibizione genitale -così prossima alle fantasie e agli atti di stupro- rivela quali siano le pulsioni che si agitano nel ventre maschilista, razzista e fascistoide del nostro infelice paese. E’ da quel ventre misogino che nasce l’idea delle ronde, apparentata con la violenza sessuale dalla medesima attitudine proprietaria nei confronti dei corpi femminili. Del resto, la complicità del mondo maschile maggioritario con gli stupratori, quelli veri, è mostrata dall’atteggiamento abituale allorché il violentatore è italiano: se ha consumato il suo crimine all’interno delle mura domestiche prevarrà l’indifferenza; se lo ha fatto in un luogo pubblico, si dirà che è stato colto da un raptus o che, povero ragazzo, era sotto l’effetto di droga o alcol. In realtà, lo stupro è endemico ai più vari sistemi sociali che valorizzano la cultura del potere, della sopraffazione, della violenza. Il più delle volte avviene nel chiuso delle relazioni di prossimità: in Italia, come a livello mondiale, la maggior parte delle violenze sessuali è esercitata da parte di persone che conoscono la vittima. E’ trasversale alle classi, agli ambienti sociali, alle culture, alle appartenenze religiose, alle nazionalità, ma comune a un solo genere: quello maschile. Per decenni il movimento femminista italiano ha cercato di richiamare l’attenzione dei poteri pubblici sullo scandalo di questa violenza endemica e del sistema che la favorisce: un sistema di relazioni di potere talmente squilibrati in sfavore delle donne che anno dopo anno, come abbiamo riferito più volte, i rapporti del World Economic Forum collocano l’Italia sempre più in basso nella scala della parità uomo-donna, al di sotto di alcuni paesi del terzo mondo. Mentre le donne conquistano margini crescenti di libertà e autonomia, poco mutano i meccanismi della discriminazione di fatto. Anzi, è proprio la conquista di quei margini, in assenza di una rappresentazione pubblica condivisa dell’eguale diritto, dignità, valore del genere femminile, che spinge una parte del mondo maschile, traversato dalla crisi della virilità tradizionale, verso la frustrazione, il rancore, la paura, il desiderio di punire le donne. C’è un ritorno –lo avete notato?- del vecchio vizio di umiliare l’autorevolezza femminile. Come negli anni prima del femminismo, accade che dei maschi provino a importi il silenzio o a screditare la tua parola come illegittima o aggressiva. In fondo, sessismo e razzismo hanno la stessa matrice: il desiderio di annullare l’altro-da-sé che non si sa riconoscere come parte del proprio sé.

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sabato 7 marzo 2009

Ho riflettuto sulla proposta di portare la richiesta di un’ onorificenza civile per Englaro al prefetto e i dubbi crescevano

di Donatella Chiossi
Ho riflettuto sulla proposta di portare la richiesta di un’ onorificenza civile per Englaro al prefetto e i dubbi crescevano:
per prima cosa non riuscivo a collegare Stato - Englaro - medaglia.
Vedo la sala con notabili che in modo formale gli consegnano…. Che cosa?
Dopo la trasmissione di Fazio sono sempre più convinta che per questo uomo sarebbe un dispetto, no, anzi, un atto ipocrita, poi dopo l’accusa di omicidio volontario per quale scopo far dare un’onorificenza dalle stesse persone che lo hanno condannato sin dal primo momento?
Oppure è un’iniziativa di provocazione, allora io penso sia una perdita di tempo.
Mi piacerebbe trasformarla in positivo.
Englaro ha dichiarato che lo scopo della sua vita è impedire altri casi come quello di Eluana, perché non creare la nostra onorificenza scrivendogli una lettera
con tante firme, lavorando in questo modo per fare conoscere il testamento biologico e allargare il consenso?
Aiutandolo nella sua /nostra battaglia?
Potremmo poi anche in primavera chiedergli di venire a Reggio per un incontro?
Donatella

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martedì 3 marzo 2009

il 7 Marzo: Pubblica lettura: “Donne protagoniste contro la violenza” - a cura di: Reggio Fahrenheit - Nondasola - Amnesty International - Emergency

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Ai confini della vita - La nascita e la morte nella legislazione italiana attuale, prospettive

Ai confini della vita - La nascita e la morte nella legislazione italiana attuale, prospettive
Tavola rotonda
relatori:
Prof. IGNAZIO MARINO
Dott. VELESTINA TINELLI
Coordinatore: Prof. ALBERTO MELLONI
Venerdì 6 marzo ore 15,30
Aula Magna Università Modena e Reggio Emilia
Via Allegri 9 R.E.




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