mercoledì 10 giugno 2009

E D'Alema affila le armi - "Questo partito va ricostruito"

di Massimo Giannini, su Repubblica on line
La tregua. Hanno parlato di tregua. "Almeno fino ai ballottaggi non facciamoci male", è la linea di Dario Franceschini. Ma se dal voto europeo esce una crepa nel Pdl, il voto amministrativo tradisce la frana del Pd. Dunque, altro che tregua. È già calata la notte dei lunghi coltelli.

Le tante, troppe anime perse del partito, senza dirselo esplicitamente, affilano le lame. Tra ex Ds ed ex Margherita divampa il fuoco amico: schermaglie dialettiche, che preparano battaglie politiche. Pierluigi Bersani osserva "per carità, ci siamo salvati, ma 'mo non raccontiamoci la balla che le cose vanno bene...". Telefona a un insoddisfatto D'Alema, che rimanda ogni valutazione pubblica al dopo 21 giugno, e stende i quattro punti programmatici per riancorare a sinistra il partito al congresso di ottobre. Enrico Letta aggiunge "abbiamo evitato il disastro, ma certo non possiamo brindare". Si consulta con un insofferente Rutelli, che convoca i suoi "coraggiosi" per il 3 luglio a Roma, e lancia subito un segnale di fumo all'Udc di Casini. Nel frattempo, il redivivo Walter Veltroni si prepara a "dire la sua" tra qualche giorno, mentre il semprevivo Romano Prodi non aspetta e la dice subito: "Ora è urgente un grande dibattito programmatico e ideologico, che fino ad oggi è mancato". E la chiamano tregua. In realtà il gruppo dirigente del Pd è più diviso che mai, e non ha un'exit strategy condivisa. La ventata d'aria nuova incarnata da Debora Serracchiani non basta a convincersi che serve una svolta, un'idea, una scommessa. La nomenklatura è confusa, e indecisa a tutto. "Attenti, così scorrerà del sangue...". A sfoderare le lame, suo malgrado, è proprio Massimo D'Alema. Finora ha taciuto. E vuole tacere fino ai ballottaggi. Ma il risultato delle elezioni non lo conforta. "Stavolta, almeno, evitiamo di fare l'errore dell'altra volta, e per favore, non diciamo che abbiamo vinto...". Il partito, secondo lui, non ha un profilo politico. E paga questo deficit, nelle urne.
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C'è di più. Secondo lui, il Pd paga anche il progressivo smarrimento della sua identità "di sinistra". "In campagna elettorale - confidava qualche giorno fa - la nostra gente non faceva altro che chiedermi: ma dove sono i nostri? Perché dobbiamo votare tutti candidati della ex sinistra democristiana?". Per questo il congresso di ottobre dovrà essere un momento di verità, un confronto a viso aperto, dal quale dovranno uscire una linea, un programma, un leader. Senza accordi sottobanco, senza soluzioni pre-confezionate. Il problema è che il Pd rischia di presentarsi a quell'appuntamento nel caos più totale. Per questo, D'Alema ha una tentazione segreta. Scendere in campo in prima persona. Giocare lui, in campo aperto, la partita. E magari candidarsi neanche alla presidenza (come gli è già accaduto ai tempi dei Ds). Ma direttamente alla segreteria. Un azzardo, che sembra fuori dalla logica e fuori dalla storia. Lui stesso ne è, in buona parte, consapevole. L'ha spiegati ai suoi, in queste lunghe settimane di campagna elettorale, i dubbi che lo tormentano. Almeno due. Il primo è che, dopo averlo già affossato una volta, non può silurare di nuovo Bersani, cui ha dato via libera appena un paio di mesi fa. Il secondo è che per storia e carattere si è ormai fatto tanti, troppi nemici: "Io lo so, nel partito, e non solo nel gruppo dirigente, c'è chi non mi ama. Sono uno che divide, anche se ho passato la vita a cercare di costruire l'unità...". Ma poi, qua e là, la tentazione riemerge. Ci sono segnali inequivocabili. La sua campagna elettorale è stata massacrante come nessun'altra, nella sua carriera politica. Otto, dieci comizi al giorno. Battendo ogni angolo d'Italia, dalla Puglia al Veneto. Con un'attenzione al centro Italia, alle ex zone rosse. In un solo giorno, per esempio, Montefalco, Perugia, Foligno, Terni, Livorno, Cecina, Grosseto. In un solo weekend, Bagnaia, Marina di Camerota, Battipaglia, Avellino. Perché questo tour de force, in solitaria? Con tutta evidenza, D'Alema ha trasformato la campagna elettorale in un suo sondaggio personale, per capire quanto consenso riscuote ancora tra quello che fu il "popolo della sinistra". In questo senso, il test lo ha confortato. Piazze piene. "A Piombino - raccontava qualche giorno fa - dopo un comizio un operaio mi ha preso per la giacca, e a brutto muso mi ha urlato: Massimo, 'sto partito l'è un casino, stavolta se ti tiri indietro te ci tiriamo indietro tutti...". A Orvieto mi ha illustrato invece la metafora di Telamonio Aiace. A domanda diretta: a ottobre si candida leader del Pd? Lui ha risposto vago, allusivo, col solito ghigno: "Mah... Tutti mi attaccano, tutti mi accusano di qualcosa, ma io sono in campo. Io sono come quel personaggio minore dell'Iliade, Aiace Telamonio. Ha presente? Il cugino di Achille, quello che combatteva un passo dietro agli eroi. Ma guarda caso, era quello che gli achei chiamavano sempre, all'ultimo momento, quando tutto era perduto e c'era da salvare le navi bruciate dai troiani...". Ma le urne del centrosinistra si riempirebbero mai, con il ritorno in pista di D'Alema-Telamonio, posto che qualche acheo abbia davvero l'ardire di richiamarlo a difendere le navi del Pd? Anche lui riconosce l'azzardo. Ma c'è uno schema, dietro quell'azzardo, che un minimo di logica, sia pure negativa, ce l'ha tutta. Un Pd con l'impronta dalemiana sconta, per il Partito democratico, il peggiore degli scenari. Cioè la diaspora dei centristi, la fuoriuscita di una costola ex democristiana dal Pd: Letta, Rutelli, Fioroni, Follini e tutti gli altri teodem in circolazione. A quel punto, si produrrebbe un chiarimento definitivo, e una "divisione del lavoro" tra le due forze. Il Partito democratico, in questo schema, prenderebbe atto di essere diventato quella Lega degli Appennini" vagheggiata da Tremonti: cioè una replica geopolitica riformista del vecchio Pci, che presiederebbe l'area sinistra in chiave socialdemocratica, e punterebbe a riassorbire ampi strati di elettorato della sinistra radicale di Vendola e di Rifondazione. La nuova formazione centrista, invece, dovrebbe mettere in piedi una "Cosa Bianca", con l'obiettivo di trovare un accordo con l'Udc, per impedire che Casini sia risucchiato, prima o poi inevitabilmente, nel nuovo "abbraccio mortale" con il Cavaliere. In questo modo, rinascerebbe il centro-sinistra con il trattino. Non più l'Unione prodiana, ma qualcosa di ancora più largo, che riaprirebbe i giochi politici e potrebbe tornare a contendere la maggioranza al centrodestra. Pura fantapolitica? È probabile. Ma anche di questo si parla, nel tintinnar di sciabole che prelude all'ennesima, sanguinosa resa dei conti del Pd. "Sfasciare il Pd per salvare il centrosinistra", è la formula paradossale riassunta da Follini. Ma le incognite sono infinite. D'Alema ci pensa. Franceschini è preoccupato. Veltroni medita. Prodi incombe. Fassino aspira. Rutelli scalpita. Viene in mente Arthur Koestler, in "Schiuma della terra": "Passeri cinguettano sui fili telegrafici, mentre il filo trasmette telegrammi con l'ordine di uccidere tutti i passeri".

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