domenica 25 luglio 2010

Università deformata

di Marco Bascetta, da Il Manifesto on line

Non è colpa di von Humboldt, padre dell'Università moderna europea, e nemmeno del Sessantotto, padre e madre di ogni vizio e dissolutezza. La miserabile Università italiana che miserabilmente si intende riformare per l'ennesima volta ha una paternità assolutamente certa: i cosiddetti liberisti di sinistra. Da dove proviene, se non da loro, il moltiplicarsi insensato dei corsi di laurea, il fiorire di pseudodiscipline come l' "etica aziendale" o la "consulenza filosofica"? La proliferazione di master e specializzazioni psichedeliche a costi esorbitanti? Il sistema creditizio che ha trasformato il corso degli studi in uno spezzatino insipido e indigesto, in una competizione autistica tra futuri sottoccupati?

 Il sistema delle lauree brevi, destinato a produrre competenze tanto precarie quanto le occupazioni nelle quali (solo in teoria) sarebbero state impiegate?
E adesso i responsabili di questo disastro, ormai conclamato, i riformatori, i modernizzatori, i cantori della libera impresa, ci vengono a dire: «non vorrete conservare questa porcheria? Come dare torto a Tremonti e Gelmini che vogliono tagliare il costo esorbitante di questo baraccone, eliminare sprechi e inefficienze?». Di memoria breve, seppur di consulenza lunga, i liberisti di sinistra, hanno già dimenticato quando l'Università La Sapienza di Roma si fregiava, attraverso costose campagne pubblicitarie, del discutibile titolo di "fabbrica del sapere" e gli atenei si rincorrevano nell' inventare specchietti per le allodole e insegnamenti modaioli con lo scopo di attirare il maggior numero di studenti da formare nel tempo più breve e con la minor spesa possibile, mettendo in scena un ridicolo criterio di produttività.
Hanno rapidamente rimosso le favole sul coinvolgimento delle aziende e delle realtà produttive territoriali che accompagnavano il diffondersi capillare delle sedi universitarie fin nelle più remote provincie, andando incontro a un destino certo di miseria nera e di insignificanza culturale. Non ricordano più, i nostri riformatori, gli insulsi corsi di studio che avrebbero dovuto assecondare la mitica domanda delle imprese, riuscendo a soddisfare tutt'al più nepotismi e clientele.
Ciò che dovrebbe essere chiaro a chiunque non sia accecato dall'ideologia è che l'Università italiana non è stata devastata da un'assenza di riforme, ma da una sovrabbondanza di cattive riforme a cui quella della ministra Gelmini, ora approdata in Senato, va ad aggiungersi, veicolando inoltre l'invereconda pretesa che il taglio delle risorse possa essere più purificatore del loro migliore impiego, in un improbabile circolo virtuoso tra merito e risparmio. Non avendo idea alcuna della funzione dell'Università di massa nel nostro tempo, o meglio condividendo quella propugnata, con gli esiti che abbiamo visto, dai liberisti di sinistra, incapace di rubricare, secondo una diversa logica, la spesa e l'investimento, l'opposizione di sinistra si troverà a scegliere, ancora una volta, tra complicità e impotenza.
Del resto, la regola aurea, fin dai tempi di Zecchino e Berlinguer, ribadita ancora ieri da Mariastella Gelmini, è sempre la stessa: «il compito della riforma è il riavvicinamento dell'Università al mercato del lavoro». Obiettivo mancato per più di un trentennio nel vano inseguimento di una visione mitologica del sistema delle imprese e della sua presunta vocazione all'innovazione. Il mercato del lavoro italiano, capriccioso e gretto, è una fotografia del presente, forse addirittura una nostalgia del passato, di certo non una proiezione sul futuro. Anche se, nella precarizzazione del lavoro, nel taglio delle risorse, nel rafforzamento delle gerarchie, il riavvicinamento è certamente arrivato a buon punto. E se fosse invece il mercato del lavoro a doversi adeguare all'università, ai suggerimenti della ricerca e della sperimentazione, al livello culturale della nostra società, dei suoi bisogni e delle sue potenzialità? Per un liberista di sinistra si tratta di una bestemmia. Come voler imporre un artifizio alla legge di natura.

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