giovedì 30 aprile 2009

Cosa si fa, e cosa non si fa a Reggio per il trasporto pubblico

di Enzo Grappi
L’errore di fissare perentoriamente la data del 16 aprile da parte della nuova formazione politica Sinistra e Verdi per Reggio per chiudere un eventuale accordo elettorale alle amministrative con il Partito Democratico ha esposto questa formazione ad una facile rappresaglia polemica. Bene ha fatto quindi Giuseppe Neroni a riportare l’attenzione sui punti programmatici del confronto, gli unici che dovrebbero essere dirimenti per un accordo.
Fra tanti punti sollevati da Neroni che condivido, vorrei concentrarmi sulla richiesta di politiche per “trasporti alternativi all’auto privata”. Bisogna intendersi bene, perché una frasettina generica sullo sviluppo del trasporto pubblico non si nega in nessun programma elettorale, ma quello che conta non è quello che si dice o si scrive (che allora avremmo dovuto prestare fede ai proclami contro l’urbanizzazione selvaggia contenuti da almeno trent’anni nei PRG) ma solo quello che si fa. E quello che si fa per il trasporto pubblico è molto poco. Una volta sgravata la coscienza con una frase di circostanza, quando si passa all’elenco delle opere in corso, finanziate o programmate sul territorio della provincia, si trovano quasi esclusivamente opere per il trasporto privato: nuove tangenziali, nuova via Emilia, prolungamenti di autostrade, nuova statale 63 …… Solo su questa ultima strada, in un incontro pubblico tenutosi a Castelnuovo Monti, la Provincia ha presentato progetti per 500 milioni di euro! Diconsi 500 milioni, compreso un assurdo traforo sotto il Cerreto da 150 milioni di euro! Non vedo, neanche lontanamente, un analogo impegno per il trasporto pubblico. Non ho mai visto progetti né da 500 né da 50 milioni di euro per avviare ad esempio metropolitane di superficie lungo la via Emilia e per collegare i principali centri della provincia.
Mi si dirà che per il trasporto pubblico è stata realizzata l’alta velocità e sarà realizzata la stazione mediopadana; senza entrare nel merito dell’utilità di questa opera, mi limito a constatare che per ora essa ha portato solo a un peggioramento del servizio per i tanti pendolari che utilizzano i treni regionali o interregionali. (17.4.09)

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mercoledì 29 aprile 2009

Arrivano i soldi per il terremoto, dai poveri - Terremoto 6

di Bianca Di Giovanni da: L'Unità on line

All’Abruzzo per ora arriverà un miliardo e 100 milioni. L’anno prossimo 539 milioni. Il resto degli 8 miliardi annunciati arriverà tra il 2011 al 2033, con stanziamenti progressivi (330 milioni nel 20011; 468 l’anno dopo, 500 nel 2013) che a un certo punto decrescono, fino a toccare 2,9 milioni di euro tra 20 anni. Come dire: chi vivrà vedrà. Non è l’unica beffa contenuta nel decreto per la ricostruzione, firmato martedì dal presidente della Repubblica

Agli stanziamenti, infatti, si provvede con corrispondenti tagli al Fas (fondo aree sottoutilizzate), al bonus famiglia (300 milioni), alla spesa farmaceutica e grazie a nuove entrate garantite da lotterie e slot machines. Insomma, pagano i poveri e il sud. Il ministro Giulio Tremonti si era vantato che non avrebbe messo le mani nelle tasche degli italiani. «Nessuna nuova tassa», aveva declamato rassicurando Confindustria. E visto che c’era ha pensato di mettere le mani nelle tasche (semi-vuote) dei più poveri. C’è un altro combinato disposto, poi, che rischia di trasformare l’operazione Abruzzo in una vera manovra in favore dei «protetti». Presentando le misure, infatti, Tremonti non ha escluso l’eventualità di un’altra sanatoria fiscale: quella sul rientro dei capitali illegalmente esportati. Risorse frutto di riciclaggio, di corruzione e di evasione, «ripulite» con un obolo alleggerito. È destinato ai più bisognosi, ai nuclei in difficoltà, a chi ha un figlio handicappato a carico, o un anziano. Quello strumento (il primo a considerare il reddito familiare, e non del singolo, e per questo contrabbandato come inizio del quoziente familiare tanto caro alle formazioni cattoliche). Era pensato per una platea di 6,45 milioni di famiglie, che potevano aspirare a un contributo tra i 100 e i mille euro, per una spesa complessiva di quasi due miliardi. Come mai sono «avanzati» 300 milioni? Come mai è bastato un miliardo e 700 milioni invece dei due stimati? Ci sono meno poveri del previsto (anche in tempo di crisi) o hanno sbagliato i calcoli all’inizio? La verità, purtroppo, è un’altra, e somiglia molto alle vicende legate alla social card (ancora i poveri). Per ottenere quel bonus, infatti, è stato costruito un percorso con tali e tanti ostacoli, che ottenerlo equivale a vincere un terno al lotto. Nel sito www.nelmerito.it l’economista Franco Osculati lo definisce «lunare». Prima di tutto è a richiesta (non automatico). La domanda è a carico del datore di lavoro che «eroga il beneficio, secondo l’ordine di presentazione delle richieste nei limiti del monte ritenute e contributi nel mese di febbraio 2009. - spiega Osculati - Nel caso i sostituti d’imposta non provvedano, per insufficienza di tale "monte", gli interessati potranno ri–presentare istanza entro giugno all’agenzia delle entrate. In aggiunta, a cura dei sostituti, delle domande dovrà rimanere traccia nei modelli 770, dovrà essere data informazione, entro aprile, all’Agenzia delle entrate e dovrà essere conservata copia per tre anni». Una vera gimcana, che dovrebbe essere ancora in corso. ma siccome del bonus non parla più nessuno, si suppone che le richieste termineranno. Senza domande, scompaiono anche i poveri e le emergenze. Una buona fetta delle risorse da utilizzare subito proviene dai giochi (500 milioni). Anche qui il rischio è che si sfruttino i poveri, di solito dipendenti dal vizio delle scommesse. Il ministero prevede «nuove lotterie ad estrazione istantanea», «ulteriori modalità del gioco del lotto», «l’apertura delle tabaccherie anche nei giorni festivi». Il decreto fa cenno anche all’ipotesi di giochi da attuare nei supermercati. È prevista infatti «l’attivazione di nuovi giochi di sorte legati ai consumi». Ma il grande affare arriverà con le nuove slot machines e con nuove possibilità di poker on line. L’introduzione di macchine di nuova generazione, con il collegamento diretto all’anagrafe, consentirà di incassare per ogni macchinario cambiato una una tantum di 15mila euro: pr attrarre più giocatori, potrebbe abbassarsi la giocata minima a 50 centesimi (oggi è 3 euro) e alzarsi la vincita massima da 10 a 50mila euro.
28 aprile 2009

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domenica 26 aprile 2009

Le piazze rubate del 25 Aprile

di Marco Revelli, da "Il Manifesto" del 25 Aprile 2009


Non c’è, oggi, nulla da festeggiare. Né tantomeno da condividere. Sarebbe ipocrisia non dirlo.
Dobbiamo ammetterlo. Con angoscia. Ma anche con quel po’ di rispetto che merita ancora la verità: il 25 aprile è diventato una “terra di nessuno”. Un luogo della nostra coscienza collettiva vuoto, se ognuno può invitarvi chi gli pare, anche i peggiori nemici della nostra democrazia e i più incalliti disprezzatori della nostra resistenza.
E se ognuno può farvi e dirvi ciò che gli pare: usarlo come tribuna per proclamare l'equivalenza tra i partigiani che combatterono per la libertà e quelli della Repubblica di Salò che si battevano con i tedeschi per soffocarla, come va ripetendo l’attuale ministro della difesa. O per denunciarne – dopo averlo disertato per anni - l’ ”usurpazione” da parte delle sinistre che se ne sarebbero indebitamente appropriate, come l’attuale grottesco e tragico presidente del Consiglio.
O ancora – in apparenza l’atteggiamento più nobile, in realtà il più ambiguo ma anche il più diffuso – per riproporre l’eterna retorica della “memoria condivisa”: quella che in nome di un’ Unità della Nazione spinta fino ai precordi dell’anima, all’interiore sentire, vorrebbe cancellare – anzi “rimuovere”, come accade nelle peggiori patologie psichiche – il fatto, “scandaloso”, che allora, in quel 25 aprile, ma anche nei durissimi decenni che lo precedettero e prepararono, si scontrarono due Italie, segnate da interessi e passioni contrastanti, da valori e disvalori contrapposti. Due modi radicalmente in conflitto tra loro, di considerarsi italiani.
Un’Italia, da una parte, in origine spaventosamente minoritaria, sopravvissuta nei reparti di qualche fabbrica, nei quartieri operai delle grandi città, lungo i percorsi sofferti dell’esilio, nelle carceri e nelle isole del confino (quelle di cui il “premier” parla come di luoghi di vacanza): un’Italia quasi invisibile, fatta di inguaribili eretici, di testardi critici ad ogni costo, anche quando le folle plaudenti sembravano dar loro torto, di gente intenzionata a “non mollare” anche quando il “popolo” stava dalla parte del despota, di “disfattisti” contro la retorica di regime, anche quando le legioni marciavano sulle vie dell’Impero… L’Italia, insomma, dei “pochi pazzi” che, come disse Francesco Ruffini, uno dei pochissimi professori che non giurarono, deve in modo ricorrente rimediare agli errori fatali dei “troppi savi”… E dall’altra parte l’Italia, sempre plaudente dietro qualche padrone, delle folle oceaniche, degli inebriati dal mito della forza e del successo, dei fedeli del culto del capo. L’Italia “vecchissima, e sempre nuova dei furbi e dei servi contenti”, come scrisse Norberto Bobbio: quelli che considerano la critica un peccato contro lo spirito della Nazione, e la discussione un lusso superfluo.
Vinse la prima: il 25 aprile sanziona appunto quella insperata, impossibile vittoria. E vincendo finì per riscattare tutti, permettendo persino, con quella sua sofferta vittoria, all’altra Italia di mascherarsi e di non fare i conti con se stessa. Sicuramente di non pagare, come avrebbe meritato, i propri crimini ed errori. Ma con ciò il dualismo non scomparve: rimase comunque un’Italia che si identificò con la Resistenza, e una che mal la sopportò e l’osteggiò. Una che si sforzò di continuare l’opera di bonifica contro quell’espressione dell’”autobiografia della nazione” che è stato il fascismo, e un’altra che, sotto traccia, in quell’autobiografia ha continuato a riconoscersi. Un’Italia che stava (fino a ieri pubblicamente) con i suoi partigiani, e un’altra che continuava (fino a ieri privatamente, o quasi) a diffidarne, se non addirittura a rimpiangere il proprio impresentabile passato.
Ora quella “seconda Italia” (fino a ieri forzatamente in disparte, per lo meno nel giorno dell’anniversario) ha rialzato la testa. Si è dilatata nello spazio pubblico fino a occuparlo maggioritariamente. E ha rovesciato il rapporto. L’autobiografia della nazione è ritornata al potere. Non solo ha ripreso pubblicamente la parola, ma ha ricominciato a dettare l’ordine del discorso. A rifare il racconto pubblico sul nostro “noi”. Tutto il frusto dibattito di questi giorni sul nuovo significato del 25 aprile si svolge all’insegna di quella domanda di “ricomposizione” delle fratture, che nel fingere di “celebrare” le scelte di allora in realtà le neutralizza e offende. Di più: ne rovescia radicalmente il segno.
Ci sta alle spalle un mese in cui abbiamo assistito a un clamoroso tentativo d’imporre, con la logica dell’emergenza, un clima asfissiante di rifiuto della critica e di esaltazione del culto del capo; in cui il sistema dell’informazione ha raggiunto vette di servilismo imbarazzanti; in cui l’opposizione, ridotta a fantasma, ha balbettato o si è adeguata. Come non vedere quanto l’appello alla “memoria condivisa”, in questo contesto, suoni sostegno a quella stessa domanda di unanimismo che sta dietro ogni logica di regime? Quanto essa risponda a quella sorda domanda di far tacere le differenze e le dissonanze che costituì il vero “male oscuro” delle nostre peggiori vicende nazionali?
Per questo – per tutto questo – per la prima volta, nei sessantaquattro anni che ci separano dall’evento che si dovrebbe festeggiare, le piazze ci appaiono perdute. In esse non ci troviamo più a casa nostra, non tanto e non solo perché i nostri avversari hanno prevalso (questo accadde anche nel 1994, e il 25 aprile in piazza ci fummo, eccome!). Ma perché una delle due Italie, quella che aveva riempite quelle piazze come luoghi di una democrazia faticosamente presidiata, non c’è più. La sua voce si è affievolita, fin quasi al silenzio, per oblio delle proprie radici, incertezza sulle proprie ragioni, pigrizia mentale… Per insipienza degli uomini e fragilità del pensiero. Non andremo al mare, in questo giorno. Questo no. Ma in montagna forse sì, lì idealmente si dovrebbe ritornare, dove l’aria è più fine e favorisce la riflessione e il pensiero. Sul mondo nuovo che stentiamo a capire. E su di noi, che ci siamo smarriti. Ne abbiamo un impellente bisogno.

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giovedì 23 aprile 2009

La squadra dl cuore del premier. Letteronze ed ex attrici a Strasburgo

di Lidia Ravera (da: L'Unità on line)

Leggo sui giornali: «In campo troniste, veline e letteronze, arrivano i volti nuovi di Silvio». Guardo la fotografia a colori che correda il testo: quattro signorine scollacciate con sorrisi standard, pose sexy, carni in mostra, spalle gambe decolté. Sono ex-attrici di «Incantesimo». Ex star del Grande Fratello, letteronze (mi sembra una parolaccia ma forse no, forse invece è una qualifica pregiata e soltanto io non lo so, non mi aggiorno mai abbastanza).

Leggo, l’articolo di Francesco Bei che parla di una «tre giorni di formazione politica» in cui, insieme ad alcune «deputate collaudate», le giovanotte vengono iniziate ai misteri della politica. Saranno alcune di loro, pare, a rappresentare il nostro Paese al Parlamento europeo, proposte dal partito di maggioranza in quanto «volti giovani, facce nuove». Lo scopo sarebbe di «dare un’immagine rinnovata del Pdl in Europa». Parole di Berlusconi.Leggo, guardo. Provo a buttarla a ridere, come s’è fatto tante volte, tutte le volte che abbiamo commentato, in pubblico,in privato, la weltanschaung del Presidente del Consiglio: uomini potenti e competitivi, con molti soldi e senza troppi principi a intralciare il meccanismo dell’accumulazione più donne di complemento, ornamentali da esibire, sexy da possedere, giovani da comprare. Donne come oggetti effimeri (quando i requisiti estetici richiesti appassiscono vengono defenestrate) di corteggiamenti narcistici: più te ne ronzano attorno più sei «arrivato». Donne come yacht, come ville miliardarie, come Ferrari Testa Rossa, status symbol di una classe dirigente che non ama i libri, non capisce l’arte, non conosce la musica, ma la F…sì, quella la onora sempre. Lei, la «sacra sineddoche» (una parte per il tutto), che, unita alla squadra del cuore, popola l’immaginario e il tempo libero di quella nuova borghesia raccogliticcia e senza storia che governa l’Italia. Provo a convincermi che devo buttarla a ridere, che non è grave, questa ennesima «carica delle soubrettes». Mi dico: ma dai, non ti sei fatta due risate il 26 aprile del 2007, quando B. alla cerimonia per la consegna dei Telegatti disse alla signorina Yespica «con te andrei dovunque» ( si discettava, mi pare, di ritirarsi in isole deserte) e, nel giro di pochi indimenticabili minuti, sentenziò «la Carfagna...guardatela, se non fossi già sposato me la sposerei»? Hai riso no? E adesso perché non ridi più, ti è peggiorato il carattere? Che sarà mai se qualche Elena Russo, Evelina Manna o Camilla Ferranti sono state raccomandate, sostenute o imposte da B. e dai suoi... non lo sai che da alcuni millenni le donne possiedono soltanto quella forma (transitoria) di potere lì, il potere della bella ragazza, capace di frullare l’ormone testicolare maschile e promettergli soddisfazione in cambio di solidi vantaggi? Lo so, ma il problema non è la chimica dell’accoppiamento, o il libero mercato del desiderio. Il problema è che B., invece di sposarsela, la signorina Carfagna l’ha fatta Ministro. Il problema è che , cito da intercettazione telefonica, nello spingere il prodotto Manna Evelina, ha detto: «io sto cercando di avere la maggioranza in senato e …questa Evelina Manna può essere…perché mi è stata richiesta da qualcuno con cui sto trattando». Il problema è che, noi, noi donne, vecchie o giovani, belle o brutte, colte o ignoranti, intelligenti o oche, tristi o giulive siamo stanche di essere valorizzate soltanto come merce di scambio, di esistere soltanto in quanto corpi da calendario, di vederci passare avanti, secondo un copione che pare inevitabile, quelle che ci stanno, quelle che lo fanno, quelle che hanno le misure giuste e l’ opportuna avidità, o presunzione o cinismo o disprezzo per le istituzioni. Possibile che non ne esista una, una sola, fra le giovanotte di coscia lunga, brave a ballare e a cantare, che, alla proposta di un posto in qualche Parlamento europeo o mondiale, dica, per una volta: «No, grazie»? Alla lunga è avvilente. È avvilente non che le liste elettorali del centro destra pullulino di belle figliole, ma che, costoro, siano state, compattamente, rimorchiate nel retropalco del Gran Varietà televisivo.Anche Debora Serracchiani è giovane e ha un bel musetto,ma si è messa in luce facendo politica, ha convinto con le sue parole, ha avuto il coraggio di attaccare la dirigenza del Pd, ha in testa un progetto, vuole che questo progetto si affermi. Si rinnova così, l’immagine di un partito. Accettando le critiche, valorizzando le intelligenze femminili, spesso più concrete e meno coinvolte negli opportunismi del potere. Non si rinnova l’immagine di un partito ingaggiando un tot di figuranti di bell’aspetto, come se al Parlamento Europeo dovesse andare in scena una commedia. E il Pdl fosse una compagnia di giro e Silvio Berlusconi l’impresario. O il capocomico.

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mercoledì 22 aprile 2009

La Resistenza non ha colore

Silvio Berlusconi, accogliendo l'invito del segretario pd Franceschini, parteciperà per la prima volta al 25 aprile. È una decisione che va giudicata positivamente perché in essa oltre che a un diritto si riconosce il dovere del presidente del Consiglio di celebrare assieme a tutti gli italiani la festa della Liberazione e i valori della Resistenza, dell'antifascismo e della Costituzione. Ma quando aggiunge che lo farà perché di questa festa non se ne appropri soltanto la sinistra il premier rivela di essere ancora lontano da una autentica maturità democratica e storica. Più fallace di lui si dimostra il ministro della Difesa Ignazio La Russa.
La Russa, uno dei neofascisti sdoganati da Berlusconi, dichiara che "i partigiani rossi meritano rispetto ma non possono essere celebrati come portatori di libertà", cioè fra i fondatori della democrazia italiana. È difficile capire su cosa si basi l'affermazione di La Russa dato che il Partito comunista italiano che organizzò e diresse i partigiani rossi, meglio noti come garibaldini, fece parte e parte decisiva dell'Assemblea costituente da cui è nata la Repubblica democratica. Che i comunisti italiani abbiano scelto la democrazia invece che la dittatura potrà sembrare ai loro avversari una scelta opportunistica, obbligata dai rapporti di forza in Europa e nel mondo ma si prenda atto anche da chi avrebbe preferito un esito diverso che essa ci fu e fu per i comunisti italiani vincolante. Gli storici non hanno ancora fornito la prova di chi fu la responsabilità di questa scelta: se fu decisa da Stalin o dalla Internazionale comunista di cui l'italiano Palmiro Togliatti era un autorevole dirigente, ma l'accettazione da parte comunista della divisione del mondo in due sfere di influenza fu un dato di fatto accettato sin dagli anni della guerra di Spagna, riconfermato nell'incontro fra i vincitori della guerra contro la Germania nazista e rispettato anche dopo l'invasione sovietica dell'Ungheria.
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Fosse interprete del pensiero politico di Stalin o convinto della necessità di convivere con le grandi democrazie occidentali Togliatti, arrivato in Spagna durante la guerra civile, dettò i tredici punti di una costituzione che sarebbe entrata in vigore a guerra finita di chiara impostazione democratica: autonomie regionali, rispetto della proprietà e della iniziativa privata e dei diritti civili, libertà di coscienza e di fede religiosa, assistenza alla piccola proprietà, riforma agraria per la creazione di una democrazia rurale, rispetto delle proprietà straniere non compromesse con il nazismo, ingresso della Spagna nella Società delle nazioni. Naturalmente già allora gli avversari dei comunisti dissero che era una scelta tattica in attesa della rivoluzione, ma una scelta vincolante come si dimostrò in Grecia quando i partigiani rossi di Markos e il loro tentativo di impadronirsi del potere furono abbandonati alla più dura sconfitta. Che la scelta democratica fosse valida nella Repubblica fu chiaro quando tutte le fiammate rivoluzionarie della base comunista, dall'occupazione della prefettura di Milano a quella del monte Amiata dopo l'attentato a Togliatti, furono spente dalla polizia diretta da Scelba senza reazione del partito. Possiamo dire che le affermazioni di La Russa sull'inaffidabilità democratica dei partigiani rossi sono un processo alle intenzioni smentito dal rispetto alla Costituzione dei comunisti italiani, che al contrario dei neofascisti alla Borghese o delle trame nere, non hanno mai progettato colpi di Stato e si sono schierati con decisione contro il terrorismo delle Br. Ma c'è un'altra ragione, anche essa storica, per dissentire dalla dichiarazione di La Russa ed è quella di considerare il movimento partigiano garibaldino come un tutt'uno con il partito comunista e il partito comunista come la stessa cosa di una dittatura stalinista. Procedere per generalizzazioni arbitrarie è un cattivo modo di fare la storia e anche la politica. Chi ha conosciuto il movimento partigiano nella sua improvvisazione e varietà estrema sa bene che diventare un partigiano rosso non era sempre una scelta politica, ideologica, che si andava nelle brigate Garibaldi per molte ragioni non politiche, perché erano fra le prime formatesi o le più vicine, le prime che si incontravano fuggendo dalle città occupate dai nazifascisti magari per raggiungere dei conoscenti, degli amici. Si pensi solo al comando garibaldino piemontese, che si forma in valle Po con gli ufficiali di cavalleria della scuola di Pinerolo che seguono Napoleone Colajanni, nome partigiano Barbato, perché loro amico non perché comunista, o gli altri che in Val Sesia vanno con Cino Moscatelli perché è uno della valle come loro non perché è comunista. Così come noi delle bande di Giustizia e Libertà nel Cuneese che non avevamo mai sentito parlare del partito di azione e del suo riformismo liberal-socialista, ma che eravamo compagni di alpinismo di Duccio Galimberti o Detto Dalmastro. Nella guerra partigiana prima veniva la sopravvivenza, la ricerca delle armi e del cibo, poi sul finire arrivò anche la politica, ma le ragioni di lealtà e di amicizia restarono dominanti per cui egregio ministro La Russa mi creda ma per uno che è stato partigiano le differenze di cui parla non ci sono state. Per venti mesi, per tutti, la ragione di combattere era la libertà.

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martedì 21 aprile 2009

La dittatura della parola. Intervista di Valentino Parlato ad Antonio Tabucchi - Terremoto 5

a cura di Valentino Parlato (da: Il Manifesto del 18.4.09)
Antonio Tabucchi è un vecchio amico del manifesto, lo raggiungiamo in Portogallo, che è una sua seconda (o prima) patria e gli chiediamo di scrivere un commento a ciò che accade in Italia. Tabucchi non è di buon umore e rifiuta in assoluto di scrivere per i giornali, anche per il manifesto, ma parla.

Volevamo chiederti un articolo sulla situazione italiana...Sulla situazione della stampa e della censura in atto, vuoi dire?
Sì, della censura in atto, con quello che è successo con Annozero io ti risponderei così. Alcuni anni fa - nel 2002 - scrissi un articolo che per altro è stato poi ristampato nel mio libro «L'oca al passo, notizie dal buio che stiamo attraversando», per Feltrinelli. Il titolo dell'articolo è «Il silenzio è d'oro», e comincia così: «Ci sono varie forme di dittatura in Italia è in atto una dittatura della parola».Cosa vuol dire dittatura della parola? Che non ci fanno parlare?

Continuo... «Perché la parola è d'oro e la possiede una sola persona un uomo politico che è contemporaneamente capo di un governo e il padrone di quasi tutti i media che tarsportano la parola». Quindi questa è una dittatura della parola nel senso, che quel signore lì' può dire quello che gli pare, voi no, voi non potete. Perché non scrivo un articolo? Perché l'ho già scritto tanto tempo fa, non sono un giornalista
Repetita juvant
No, io non sono un giornalista e la cosa riguarda voi giornalisti.
Ma noi giornalisti, per esempio «il manifesto», continua a scrivere e a pubblicare contro Berlusconi
Ma non è contro Berlusconi quello che dovete fare. Questo succede alla Rai, perciò io se mai vi dico cosa potreste fare voi giornalisti, perché quelli che lavorno in Rai sono giornalisti, mi pare. Io mi ricordo che quando Berlusconi fece l'editto bulgaro non ci fu nessun giornalista che entrò dentro la Rai e si sedette per terra. Lasciarono licenziare Santoro, Biagi e Luttazzi tranquillamente. Perché non ci siete andati dentro la Rai e vi siete seduti tutti dentro? Forse non li licenziavano. Il problema è vostro perché, ripeto, io non sono un giornalista.
Il problema è anche tuo in quanto cittadino italiano
...Io sono uno scrittore, scrivo i libri e i miei libri per ora non li censura nessuno, ho smesso di scrivere sui giornali perché i vostri giornali, tutti quanti, sono sotto controllo.
Il nostro giornale non è sotto controllo, il manifesto non è sotto controllo.
Va bene, ma restiamo ai fatti. Io credo che se la cosiddetta commissione di vigilanza della Rai non ha gli estremi per una denuncia di diffamazione nei confronti della trasmissione di Santoro il mio consiglio, quello che vi posso dire, è che la Federazione della Stampa denunci alla magistratura la commissione di vigilanza Rai. Denunciate. Il motivo ve lo trovano gli avvocati. Portate tutta quella gente di fronte a un tribunale. Secondo suggerimento. Fate chiedere alla Federazione della stampa italiana un'udienza urgente alla Commissione europea. Si convoca apposta per un fatto del genere, e portate le vostre prove: la registrazione del programma e i vostri testimoni. La cosiddetta Commissione di vigilanza, venga a spiegare perché in Italia c'è la censura. Fra l'altro - aggiungo - date la possibilità della Commissione europea di esprimersi su un argomento finalmente importante, questo consentirà alle istituzioni europee di avere un po' più di credibilità. Perché avrete notato che la credibilità delle istituzioni europee non è mai stata così bassa. Si prevede un assenteismo enorme alle prossime elezioni e, secondo il sondaggio dell'Eurobarometro, il 51% di europei non crede più nelle istituzioni. Con una certa ragione, perché questi burocrati sembra abbiano dimenticato i principi dei padri fondatori, mi riferisco ad Altiero Spinelli, a De Gasperi e Adenauer. Ecco, date anche la possibilità di fare un gesto nobile, di occuparsi di qualcosa di importante.
Insomma il tuo suggerimento è di portare la questione in Europa.
Uscire dall'Italia, se non portate fuori dall'Italia autarchica questo problema nessuno se ne occuperà.
Nel contempo però, come giornale - e io parlo del «manifesto», giornale indipendente - dobbiamo continuare a scrivere.
Va bene, ma nel frattempo potreste anche - e questo mi sembra sia un fatto democratico se non c'è violenza - organizzare un bel sit-in alla Rai. Tutti i giornalisti che vogliono venire, la Federazione della stampa, i direttori di giornali, tutti i giornali che non sono di Berlusconi, chiamate anche il nuovo direttore del Corriere che ha fatto un bel discorso teorico. Venendo potrà dire qualcosa su chi ha accusato il programma di Santoro di «abuso di libertà». Ripeto, costui è liberissimo di dire ciò che vuole, ma bisognerebbe fargli notare che la frase «abuso di libertà» potrebbe essere considerata a sua volta un abuso di libertà se venisse un altro regime e che questo è pericoloso anche per le sciocchezze in libertà che dice. Inoltre - perché c'è molta ignoranza in giro - non farebbe male ricordare alle persone che in uno dei suoi proclami Francisco Franco quando fece il golpe di stato militare disse che l'esercito non poteva più tollerare l'abuso che la repubblica spagnola faceva della democrazia. E quando la democrazia abusa va ricondotta all'ordine. Bene, benissimo. Io credo che se voi fate un sit-in alla Rai e invitate le televisioni straniere secondo me la faccenda inizia a uscire un po' fuori dalla piccola Italia autarchica e l'Europa forse comincia veramente a preoccuparsi della situazione. Questo è quello che io consiglio di fare. Voglio aggiungere che la loro strategia è intimidire. Ne approfitto per farti sapere - così lo sanno anche gli italiani - che in questo momento io mi debbo occupare di un processo per difendermi in tribunale dal senatore Schifani, che mi ha mandato una comunicazione giudiziaria chiedendo un risarcimento per danni alla sua immagine di 1 milione e 200 o trecentomila euro; il 7 di maggio al tribunale di Pisa. Però il senatore Schifani non ha citato in giudizio anche il giornale su cui l'ho scritto, che è l'Unità, perché così colpisce un individuo, debole, e lo intimidisce, isolato come sono io perché sono un libero pensatore e per lui è più facile. Non coinvolge politicamente la faccenda. Anzi, approfitto per dirti che voi giornalisti - ammesso che la cosa interessi - potreste venire ad assistere al dibattimento.

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lunedì 20 aprile 2009

L'aborto e la responsabilità. Le donne, la legge, il contrattacco maschile

L'aborto e la responsabilità. Le donne, la legge, il contrattacco maschile
Incontro con Cecilia D'Elia e Marco Deriu,
Donne a Sinistra e Reggio Fahrenheit, Reggio E. 18.4.09



Il resto lo nascondi qui :)

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domenica 19 aprile 2009

Sinistra radicale e welfare locale

Leonardo Angelini e Deliana Bertani (*) (inviato al Manifesto)
Nell'afasica discussione che accompagna il processo di disgregazione e riaggregazione della sinistra radicale italiana, in vista delle elezioni di giugno, manca un qualsiasi cenno al welfare locale. In questo modo un argomento che dovrebbe essere centrale nel rinnovo delle amministrazioni locali sostanzialmente non viene neanche affrontato. Eppure in questi anni la sinistra radicale in buona parte d’Italia ha partecipato al governo degli enti locali, e quindi al governo del welfare locale insieme agli altri partiti del centrosinistra, e ha svolto una politica di contrasto più o meno efficace laddove il governo locale è stato nelle mani del centrodestra.

Viene da chiedersi: come mai questa amnesia in un momento di grave crisi economica in cui, dopo la vittoria del centrodestra a livello centrale, il welfare locale è destinato a rimanere, purtroppo per anni, uno dei pochi ammortizzatori sociali nelle mani del centrosinistra in tutti quei luoghi in cui vincerà le amministrative? Molte sono le ragioni di questa inverosimile dimenticanza. Fra le più immediatamente rilevabili, come abbiamo letto anche sul Manifesto: la chiusura autistica della sinistra radicale dopo la sconfitta dell’anno scorso; il suo distacco dai luoghi reali di vita e di lavoro; il formarsi al proprio interno di una “castetta” che mira solo ad autoriprodursi, etc. - A nostro avviso però vi è una causa più profonda, che non è riconducibile a ciò che è accaduto appena ieri, ma che affonda le sue radici nella storica assenza di una seria riflessione a sinistra sul significato del welfare locale e, più in generale, del decentramento e del governo locale del territorio. La qual cosa è tanto più grave in quanto è proprio su questi piani che le altre forze del centrosinistra hanno costruito, a partire dalla crisi delle prima repubblica, i muri portanti delle loro alleanza a livello locale.
La sinistra radicale, cioè, a nostro avviso, non ha compreso che il blocco sociale che si è andato formando intorno a Prodi e alle forze moderate del centrosinistra trova uno dei suoi elementi di coesione in un’ampia azione volta a ridisegnare il welfare locale in base ai processi di aziendalizzazione, di tickettazione dei servizi, di riallocazione di fette sempre più consistenti degli stessi nel privato, di marginalizzazione e di svuotamento dei servizi pubblici. Ciò ha prodotto la scomparsa di quello che in molte zone in cui governava la sinistra veniva chiamato welfare dei servizi, in contrapposizione al democristiano welfare dei sussidi; la scomparsa, cioè, di un modello di welfare universalistico e gratuito che ha funzionato per oltre vent’anni come un efficacissimo ammortizzatore sociale, in grado di contribuire non poco allo sviluppo delle regioni rosse in base alla erogazione di un salario indiretto che giungeva ai meno abbienti, a sostegno del loro tenore di vita.
Sicuramente l’ancoraggio all’euro ad opera del centrosinistra ha permesso di uscire dalla voragine in cui era finita l’Italia da bere del periodo craxiano, ma lo ha fatto con una feroce politica di attacco ai diritti ed al tenore di vita dei lavoratori che ha aperto il varco alle ancora più feroci operazioni che sul piano centrale ha poi fatto il centrodestra. Ma non considerare che, a fianco a questa partita, c’è anche quella che si va giocando a livello locale, a nostro avviso è un segno di miopia che impedisce di mettere a fuoco alcuni aspetti importanti del processo: la perdita delle funzioni redistributive del welfare, la formazione del consenso e l’agglomerazione delle nuove classi dirigenti a livello locale.
Sul piano della perdita delle funzioni redistributive va detto che ormai i processi di aziendalizzazione e di esternalizzazione hanno finito con il mettere in piedi ed implementare un meccanismo perverso che toglie ai poveri ed ai lavoratori dipendenti, spesso costretti a pagare più volte per le stesse prestazioni, e favorisce i ricchi e gli evasori che possono fruire dei vantaggi del welfare sottraendosi, in maniera più o meno vistosa, al contributo per l'accantonamento delle risorse occorrente per tenerlo in piedi. Per non parlare dei processi di dismissione che scaricano sulle famiglie e sulle donne il peso della cura.
Intorno all’aziendalizzazione ed alla riallocazione al privato delle risorse per il welfare, poi, si sta giocando una partita costosissima, importantissima e spesso sporchissima (come, vox clamans in deserto, denuncia Report), che vede ogni gruppo di potere locale scomporsi e ricomporsi per espandere il proprio ambito di influenza per assumere, attraverso quella strada, il controllo delle città. L’elemento centrale che favorisce l’espansione a dismisura di questi fenomeni è rappresentato dal sempre più ampio e discrezionale potere assegnato, in base a leggi che anche il centrosinistra ha voluto, ai sindaci ed ai governatori sul piano delle dismissioni, delle assunzioni, degli appalti, eccetera. A partire da questa base si determinano due processi paralleli che si alimentano l’un con l’altro e che sono alla base del nuovo potere locale: la trasformazione del welfare in un affare e la formazione di clientele all’interno delle quali le varie componenti locali del PD e del centrodestra (per non parlare dei camaleonti di Comunione & Liberazione) pescano la loro nuova base e i loro “quadri”. Si tratta in ultima istanza di una fucina di clientele pigre e asservite che, attraverso lo strumento della precarizzazione del lavoro, si riverbera sui giovani spingendo i più deboli e più ricattabili fra essi all'asservimento all'interno delle clientele, e i più fieri ed autonomi all’allontanamento dalla politica, sempre più vissuta come un luogo in cui prevalgono loschi interessi di bottega. I più attivi in quest'opera di ridefinizione e corruzione del welfare sono gli ex-democristiani che, per di più, tendono ad imporre nei settori sensibili (consultori, ospedali, asili, scuole dell'infanzia, etc.), a fianco e dentro le trasformazioni cui accennavamo prima, le loro logiche clericali.
Torniamo a chiederci ed a chiedere ai compagni della sinistra radicale, che pure in molte amministrazioni sono in maggioranza e quindi al corrente di quanto detto qui sopra: che cosa avete fatto negli anni scorsi per contrastare questo fenomeno? perché non usare la forza residua di cui disponiamo sul piano del consenso per proporre in maniera trasparente al resto del centro sinistra alcune proposte, dopo averle individuate e discusse con i nostri sindacalisti, con i nostri economisti, con i nostri sociologi, ed innanzitutto con la nostra base?

(*)psicologi nei servizi pubblici, Reggio Emilia

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venerdì 17 aprile 2009

Da "rebubblica online: "In campo i partiti del cemento.. " - Terremoto 4

La torta della ricostruzione: grandi costruttori contro piccole imprese. E Berlusconi ha già scelto il commissario: il governatore Chiodi
In campo i partiti del cemento - "E' iniziata la guerra degli appalti"
dal nostro inviato CARLO BONINI
da: http://www.repubblica.it/2009/04/sezioni/cronaca/sisma-aquila-7/guerra-appalti/guerra-appalti.html

L'AQUILA - Le macerie sono ancora a terra, ma la partita della ricostruzione è già cominciata. I "cartelli del cemento" fibrillano. Cominciano a volare i primi stracci. Del resto, i dodici miliardi di euro (24 mila miliardi di lire) che il Paese si prepara a pompare nel cuore infartuato dell'Abruzzo annunciano una stagione di appalti che orienterà il consenso e riscriverà la geografia e le gerarchie imprenditoriali e politiche della regione. E quel fiume di denari sollecita una domanda semplice e antica: a chi andranno?

Indiscrezioni vogliono che Palazzo Chigi si prepari a riproporre il "modello molisano". Del governatore che si fa Tesoriere e dominus del "dopo". Che dunque il presidente del Consiglio sia deciso a nominare il presidente della regione Gianni Chiodi (eletto con il Pdl il 15 dicembre scorso) Commissario straordinario alla ricostruzione. E la mossa non è neutra. Quei 12 miliardi di euro hanno messo a rumore un angolo d'Italia cresciuto con il mattone e il cemento. Dagli anni in cui committente era la Cassa per il Mezzogiorno e unico padrino la Dc di Gaspari (nel chietino) e Natali (nell'aquilano).
Consegnarli a Chiodi, significa molto. Evoca altrettanto. L'Abruzzo vive di edilizia (5 mila imprese, 1100 soltanto nella provincia dell'Aquila) e con la fine della Dc, il "partito del cemento" ha imparato a navigare a vista, coltivando sapientemente rapporti bipartisan. Di cui fa fede un dato. Era di 1 miliardo e 200 milioni di euro il fatturato del comparto costruzioni nel 1995. Tredici anni dopo, ha raggiunto e superato il miliardo e 600 milioni. Del "partito" non esiste una cupola, perché i colossi si riducono ai gruppi "Toto" e "Di Vincenzo" (il terzo, "Irti", è fallito). Comandano i piccoli, in una logica territoriale rigida, ma oggi, proprio per questo, indifesa dagli appetiti di grandi imprese del centro-nord, forti con le banche, ascoltate dalla committenza politica. Non stupisce dunque che i costruttori abruzzesi dicano oggi che Chiodi Commissario straordinario alla ricostruzione sia "la garanzia che i soldi della ricostruzione resteranno tutti in Abruzzo". Che quel reticolo di cinquemila imprese che è la spina dorsale dell'economia della regione non sarà privato della fetta principale della torta.
Consapevole dell'investitura, Chiodi non perde tempo. Assume la difesa delle imprese edili con toni risentiti. E mentre la magistratura sequestra l'ospedale san Salvatore, il Tribunale, il cumulo di macerie di quella che una volta era stata la Casa dello Studente, e altri 9 edifici, decide che è venuto il momento di fare rumore. "In questi giorni - dice - abbiamo dovuto combattere anche contro la denigrazione e la diffamazione: dalle polemiche su presunte strutture fatiscenti, fatte di cartapesta o con sabbia di mare, alle insinuazioni sulla mano delle mafie sugli appalti. Non posso e non voglio consentire che oltre al danno, l'Abruzzo subisca anche la beffa di un'immagine negativa, che poi pesi sulla ripresa e la ricostruzione".
Paolo Buzzetti, presidente dell'Associazione nazionale costruttori edili (Ance), fa esercizio di realismo. Si spende, certo, ma almeno pone delle condizioni. Lasciando l'Aquila, dice: "Ho raccolto il timore dei nostri associati di essere tagliati fuori dalla ricostruzione e sono dunque d'accordo sulla necessità di un coinvolgimento forte delle imprese locali. Detto questo, però, la ricostruzione deve essere l'occasione per avviare un ciclo virtuoso. Di qualità. In cui, tanto per dirne una, siano protagoniste quelle imprese che vantano storie produttive e comportamenti virtuosi e non un semplice pezzo di carta senza alcun significato come è ormai un certificato antimafia". Suonano come parole accorte. Nel rapporto sulle ecomafie del 2008 redatto dalla Lega Ambiente, l'Abruzzo si è guadagnato l'undicesimo posto nella classifica delle "illegalità nel ciclo del cemento". Duecentoquaranta le infrazioni accertate, 289 le persone denunciate, 51 i sequestri di materiali e cantieri. Ne sa qualcosa Leopoldo Rossini, ingegnere sismico, tra i principali consulenti delle Procure della repubblica abruzzesi. Dice: "Ho sostenuto e ripeto che, a partire dall'edilizia privata, i costruttori di questa regione, con qualche lodevole eccezione, hanno dimostrato superficialità, ignoranza e sottovalutazione. La filiera progettazione, esecuzione dei lavori, controllo e collaudo non ha mai prodotto un'edilizia antisismica di qualità". È abruzzese anche l'ingegner Rossini. Come il governatore Chiodi.

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giovedì 16 aprile 2009

Censura a Vauro - Terremoto 3

questo il sito di Vauro con l'archivio delle sue vignette: http://www.vauro.net/index.html
«Quando la maggioranza sostiene di aver sempre ragione e la minoranza non osa reagire, allora è in pericolo la democrazia». (Umberto Eco)
"Il governo non censuri la stampa, affinchè la stampa sia libera di censurare il governo" (Corte Suprema degli USA, 1972)



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martedì 14 aprile 2009

La ricostruzione a rischio clan - Terremoto 2

© 2009 by Roberto Saviano - Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency
L'AQUILA - "Non permetteremo che ci siano speculazioni, scrivilo. Dillo forte che qui non devono neanche pensarci di riempirci di cemento. Qui decideremo noi come ricostruire la nostra terra...". Al campo rugby mi dicono queste parole. Me le dicono sul muso. Naso vicino al naso, mi arriva l'alito. Le pronuncia un signore che poi mi abbraccia forte e mi ringrazia per essere lì. Ma la sua paura non è finita con il sisma.
La maledizione del terremoto non è soltanto quel minuto in cui la terra ha tremato, ma ciò che accadrà dopo. Gli interi quartieri da abbattere, i borghi da restaurare, gli alberghi da ricostruire, i soldi che arriveranno e rischieranno non solo di rimarginare le ferite, ma di avvelenare l'anima. La paura per gli abruzzesi è quella di vedersi spacciare come aiuto una speculazione senza limiti nata dalla ricostruzione. Qui in Abruzzo mi è tornata alla mente la storia di un abruzzese illustre, Benedetto Croce, nato proprio a Pescasseroli che ebbe tutta la famiglia distrutta in un terremoto. "Eravamo a tavola per la cena io la mamma, mia sorella ed il babbo che si accingeva a prendere posto. Ad un tratto come alleggerito, vidi mio padre ondeggiare e subito in un baleno sprofondare nel pavimento stranamente apertosi, mia sorella schizzare in alto verso il tetto. Terrorizzato cercai con lo sguardo mia madre che raggiunsi sul balcone dove insieme precipitammo e io svenni". Benedetto Croce rimase sepolto fino al collo nelle pietre. Per molte ore il padre gli parlava, prima di spegnersi. Si racconta che il padre gli ripeteva una sola e continua raccomandazione "offri centomila lire a chi ti salva". Gli abruzzesi sono stati salvati da un lavoro senza sosta che nega ogni luogo comune sull'italianità pigra o sull'indifferenza al dolore. Ma il prezzo da pagare per questa regione potrebbe essere altissimo, ben oltre le centomila lire del povero padre di Benedetto Croce. Il terrore di ciò che è accaduto all'Irpinia quasi trent'anni fa, gli sprechi, la corruzione, il monopolio politico e criminale della ricostruzione, non riesce a mitigare l'ansia di chi sa cosa è il cemento, cosa portano i soldi arrivati non per lo sviluppo ma per l'emergenza. Ciò che è tragedia per questa popolazione per qualcuno invece diviene occasione, miniera senza fondo, paradiso del profitto. Progettisti, geometri, ingegneri e architetti stanno per invadere l'Abruzzo attraverso uno strumento che sembra innocuo ma è proprio da lì che parte l'invasione di cemento: le schede di rilevazione dei danni patiti dalle case. In questi giorni saranno distribuite agli uffici tecnici comunali di tutti i capoluoghi d'Abruzzo. Centinaia di schede per migliaia di ispezioni. Chi avrà in mano quel foglio avrà la certezza di avere incarichi remunerati benissimo e alimentati da un sistema incredibile.
"Più il danno si fa grave in pratica, più guadagni", mi dice Antonello Caporale. Arrivo in Abruzzo con lui, è un giornalista che ha vissuto il terremoto dell'Irpinia, e la rabbia da terremotato non te la togli facilmente. Per comprendere ciò che rischia l'Abruzzo si deve partire proprio da lì, dal sisma di 29 anni fa, da un paese vicino Eboli. "Ad Auletta - dice il vicesindaco Carmine Cocozza - stiamo ancora liquidando le parcelle del terremoto. Ogni centomila euro di contributo statale l'onorario tecnico globale è di venticinquemila". Ad Auletta quest'anno il governo ha ripartito ancora somme per il completamento delle opere post sisma: 80 milioni di euro in tutto. "Il mio comune ne ha ricevuti due milioni e mezzo. Serviranno a realizzare le ultime case, a finanziare quel che è rimasto da fare". Difficile immaginare che dopo 29 anni ancora arrivino soldi per la ristrutturazione ma è ciò che spetta ai tecnici: il 25 per cento del contributo. Ci si arriva calcolando le tabelle professionali, naturalmente tutto è fatto a norma di legge. Costi di progettazione, di direzione lavori, oneri per la sicurezza, per il collaudatore. Si sale e si sale. Le visite sono innumerevoli. Il tecnico dichiara e timbra. Il comune provvede solo a saldare. Il rischio della ricostruzione è proprio questo. Aumenta la perizia del danno, aumentano i soldi, gli appalti generano subappalti e ciclo del cemento, movimento terre, ruspe, e costruzioni attireranno l'avanguardia delle costruzioni in subappalto in Italia: i clan. Le famiglie di camorra, di mafia e di 'ndrangheta qui ci sono sempre state. E non solo perché nelle carceri abruzzesi c'è il gotha dei capi della camorra imprenditrice. Il rischio è proprio che le organizzazioni arrivino a spartirsi in tempo di crisi i grandi affari italiani. Ad esempio: alla 'ndrangheta l'Expo di Milano, e alla camorra la ricostruzione in subappalto d'Abruzzo. L'unica cosa da fare è la creazione di una commissione in grado di controllare la ricostruzione. Il presidente della Provincia Stefania Pezzopane e il sindaco de L'Aquila Massimo Cialente sono chiari: "Noi vogliamo essere controllati, vogliamo che ci siano commissioni di controllo...". Qui i rischi di infiltrazioni criminali sono molti. Da anni i clan di camorra costruiscono e investono. E per un bizzarro paradosso del destino proprio l'edificio dove è rinchiusa la maggior parte di boss investitori nel settore del cemento, ossia il carcere de L'Aquila (circa 80 in regime di 416 bis) è risultato il più intatto. Il più resistente. I dati dimostrano che la presenza dell'invasione di camorra nel corso degli anni è enorme. Nel 2006 si scoprì che l'agguato al boss Vitale era stato deciso a tavolino a Villa Rosa di Martinsicuro, in Abruzzo. Il 10 settembre scorso Diego Leon Montoya Sanchez, il narcotrafficante inserito tra i dieci most wanted dell'Fbi aveva una base in Abruzzo. Nicola Del Villano, cassiere di una consorteria criminal-imprenditoriale degli Zagaria di Casapesenna era riuscito in più occasioni a sfuggire alla cattura e il suo rifugio era stato localizzato nel Parco nazionale d'Abruzzo, da dove si muoveva, liberamente. Gianluca Bidognetti si trovava qui in Abruzzo quando la madre decise di pentirsi. L'Abruzzo è divenuto anche uno snodo per il traffico dei rifiuti, scelto dai clan per la scarsa densità abitativa di molte zone e la disponibilità di cave dismesse. L'inchiesta Ebano fatta dai carabinieri dimostrò che alla fine degli anni '90 vennero smaltite circa 60.000 tonnellate di rifiuti solidi urbani provenienti dalla Lombardia. Finiva tutto in terre abbandonate e cave dismesse in Abruzzo. Dietro tutto questo, ovviamente i clan di camorra. Sino ad oggi L'Aquila non ha avuto grandi infiltrazioni. Proprio perché mancava la possibilità di grandi affari. Ma ora si apre una miniera per le imprese. La solidarietà per ora fa argine ad ogni tipo di pericolo. Al campo del Paganica Rugby mi mostrano i pacchi arrivati da tutte le squadre di rugby d'Italia e i letti allestiti da rugbisti e volontari. Qui il rugby è lo sport principale, anzi lo sport sacro. Ed è infatti la palla ovale che alcuni ragazzi si lanciano in passaggi ai lati delle tende, che mi passa sulla testa appena entro. Ed è dal rugby che in questo campo sono arrivati molti aiuti. La resistenza di queste persone è la malta che unisce volontari e cittadini. È quando ti rimane solo la vita e nient'altro che comprendi il privilegio di ogni respiro. Questo è quello che cercano di raccontarmi i sopravvissuti. Il silenzio de L'Aquila spaventa. La città evacuata a ora di pranzo è immobile. Non capita mai di vedere una città così. Pericolante, piena di polvere. L'Aquila in queste ore è sola. I primi piani delle case quasi tutti hanno almeno una parte esplosa. Avevo un'idea del tutto diversa di questo terremoto. Credevo avesse preso soltanto il borgo storico, o le frazioni più antiche. Non è così. Tutto è stato attraversato dalla scossa. Dovevo venire qui. E il motivo me lo ricordano subito: "Te lo sei ricordato che sei un aquilano..." mi dicono. L'Aquila fu una delle prime città anni fa a darmi la cittadinanza onoraria. E qui se lo ricordano e me lo ricordano, come un dovere: presidiare quello che sta accadendo, raccontarlo. Tenere memoria. Mi fermo davanti alla Casa dello studente. In questo terremoto sono morti giovani e anziani. Quelli che a letto si sono visti crollare il soffitto addosso o sprofondare nel vuoto e quelli che hanno cercato di scappare per le scale, l'ossatura più fragile del corpo d'un palazzo. I vigili del fuoco mi fanno entrare ad Onna. Sono fortunato, mi riconoscono, e mi abbracciano. Sono sporchi di polvere e soprattutto fango. Non amano che si ficchino i giornalisti dappertutto : "Poi li devo andare a pescare che magari cade un soffitto e rimangono incastrati" mi dice un ingegnere romano Gianluca che mi fa un regalo che avrebbe fatto impazzire qualsiasi bambino, un elmetto rosso fuoco dei Vigili. Onna non esiste più. Il termine macerie è troppo usato. È come se non significasse più nulla. Mi segno sulla moleskine gli oggetti che vedo. Un lavabo finito a terra, un libro fotocopiato, un passeggino, ma soprattutto lampadari, lampadari, lampadari. In verità è quello che non vedi mai fuori da una casa. E invece qui vedi ovunque lampadari. I più fragili, gli oggetti che per primi hanno dato spesso inutilmente l'allarme del terremoto. È una vita ferma e crollata. Mi portano davanti la casa dove è morta una bambina. I vigili del fuoco sanno ogni cosa. "Questa casa vedi, era bella, sembrava ben fatta, invece era costruita su fondamente vecchie". Si è fatto poco per controllare... La dignità estrema di queste persone me la raccontano i vigili del fuoco: "Nessuno ci chiede niente. È come se per loro bastasse essere rimasti in vita. Un vecchietto mi ha detto: mi puoi chiudere le finestre sennò entra la polvere. Io sono andato ho chiuso le finestre ma alla casa mancano tetto e due pareti. Qui alcuni non hanno ancora capito cosa è stato il terremoto". Franco Arminio uno dei poeti più importanti di questo paese, il migliore che abbia mai raccontato il terremoto e ciò che ha generato scrive in una sua poesia: "Venticinque anni dopo il terremoto dei morti sarà rimasto poco. Dei vivi ancora meno". Siamo ancora in tempo perché in Abruzzo questo non accada. Non permettere che la speculazione vinca come sempre successo in passato è davvero l'unico omaggio vero, concreto, ai caduti di questo terremoto, uccisi non dalla terra che trema ma dal cemento.

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lunedì 13 aprile 2009

Tolleranza zero sull'informazione - terremoto 1

di Norma Rangeri
da: Il Manifesto dell'11.4.09 -pag. 1
Nella diretta sui funerali, Silvio Berlusconi si stacca dalla fila delle autorità e va tra i parenti per abbracciarli e confortarli. Le telecamere sono per lui, uomo commosso e affranto. Le alte cariche dello stato sfumano in secondo piano. Si chiude così una settimana televisiva che, insieme a tanti morti in carne e ossa, ha seppellito, sotto il conflitto di interessi, anche l'informazione. Le armate berlusconiane ora attaccano Annozero, definiscono «vergognoso oltraggio» la denuncia, promettono tolleranza zero per i superstiti di un giornalismo che illuminando il malpaese mette in pericolo l'immagine perfetta di lacrime e new-town, di dolore e case per tutti.
«L'emergenza sicurezza è proteggere chi studia, non mandare i figli a scuola o all'università come se andassero ogni giorno in guerra. Per poter seppellire i morti vogliamo sapere cosa è accaduto: un paese civile deve dare una risposta». Lo dice la sorella di un ragazzo morto sotto il cemento della casa dello studente. Avrà vent'anni parla con gli occhi asciutti, esprime, con lucida rabbia, quello che i telegiornali hanno accuratamente evitato di sottolineare, occupati a lodare i soccorsi e la fattiva presenza di Berlusconi.Suona persino eccentrico ascoltare queste voci in un programma televisivo, diventano come eccezioni alla regola. Che «prima dei ponti e del 20 per cento di cubatura in più, si pensi a questo», che «non ci sono tende, non ci sono bagni, né acqua», o che un uomo di scienza come Boschi confermi : «la pianificazione non c'era, Bertolaso è stato veloce ma quando è arrivato non ha trovato l'organizzazione». Tutto rischia di finire nel partito del solito Santoro, segnando una distorsione, un pregiudizio difficile da scardinare.Queste voci hanno nutrito l'appuntamento di Annozero, mettendo al centro la mancanza di esercitazioni di emergenza in Abruzzo (prima della catastrofe), l'entità dei tagli alle casse della protezione civile (documentati dai capitolati dell'ultima legge finanziaria), l'esistenza di un problema culturale e di risorse (soldi), i legami con il mondo degli affari illeciti. Fatti del resto denunciati in bella evidenza da addetti ai lavori e rilanciati da alcuni giornali. Ma non dalla televisione, anzi respinti dal piccolo schermo (telegiornali in testa) come corpi estranei a un discorso basato sul doppio binario del dolore e della rassicurazione: le due materie di educazione civica in cui la tv si è specializzata negli ultimi anni.Così quando l'altra sera il malpaese è diventato (come era in parte già accaduto a Ballarò) l'oggetto delle due ore di Annozero, la destra ha urlato all'oltraggio, definendo «vergognoso», per bocca di Giordano (direttore del giornale di famiglia) e del sottosegretario Crosetto (centrodestra), questo modo di vedere le cose. Come se obiettare equivalesse a bestemmiare, e informare significasse deturpare la performance del presidente del consiglio e, per assonanza, del pompiere. Alla serata in tv è seguita una violenta reazione dei giornali della destra berlusconiana, che estende al giornalismo critico la tolleranza zero. Finisce così nel cono d'ombra (non ci vuole molto) l'opposizione, e pure il Quirinale, declassando la notizia della visita (e le parole severe del presidente Napolitano) a titoli di fondo pagina.

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domenica 12 aprile 2009

Non occorre il fascismo. In altri termini, perché imporre il dominio se si esercita l’egemonia?

di Rossana Rossanda
da: Il manifesto, 31 marzo 2009
Non credo che il fascismo sia alle porte. Se le parole hanno un senso, ed è buon uso lasciarglielo, fascismo è quel che abbiamo conosciuto dal 1922 al '43: partito unico che si fa stato, fine delle elezioni e della divisione dei poteri, fine dei sindacati, illegittimità del conflitto di lavoro, fine della libertà di associazione e stampa, razzismo e singolarmente antisemitismo. Un regime del genere è oggi impensabile in Europa. Nell'evocarne golosamente due aspetti, poteri allargati del premier senza il contropotere d'un parlamento e di una magistratura indipendente, Berlusconi ha fatto una gaffe.
Che ne abbia profittato Fini è ovvio. E che lo faccia con l'intenzione di succedergli, tanto più che il Cavaliere non lascia spazio ai suoi, eccezion fatta per Letta, come eminenza grigia capace di tirarlo silenziosamente fuori dai guai, con stile opposto a quello che il boss coltiva per catturare la «gente». E che gli funziona, gli italiani avendo un'antica tendenza a farsi, da popolo, plebe; oggi non più stracciona, ma piccolo e medio borghese, egoista e sorda. Questa massa sarebbe anche disposta a benedire, come i suoi nonni liberali, un fascismo tale e quale, ma Fini, che è più intelligente, ha capito che non solo sarebbe fuori tempo, ma non è necessario a un muscoloso dominio di classe. Per indebolire partiti e sindacati basta una democrazia elettiva disinnescata da idee forti, un'opinione coltivata con libero zelo dai media all'antipolitica, al decisionismo, ai privilegi e al razzismo; l'antisemitismo, dopo la Shoah e in presenza di Israele, non usa più. Per il resto basta una democrazia presidenziale, tendenzialmente bipolare, tendenzialmente d'opinione, spontaneamente non partecipata con contropoteri più che legittimati ma ridimensionabili in situazioni definite consensualmente di emergenza. Di che altro ha avuto bisogno Bush? Di che ha bisogno Sarkozy, cui de Gaulle ha già fornito nel 1958 quel che Berlusconi vorrebbe, e sta spossessando la magistratura dalla decisione di impostare o archiviare i processi? La democrazia elettiva ha permesso Bevan e Thatcher, Bush e Obama. Può oscillare fra apertura sociale pacifista e repressione sociale bellicista. Senza strappi istituzionali. Dipende dal carattere del presidente. Fini ha una larga possibilità di farsi strada come più presentabile leader di destra, e Berlusconi ieri lo ha capito. Assisteremo al duello. Almeno finché non si presenterà uno scenario diverso. Oggi non c'è una opposizione capace di imporlo. Non quella moderata, mandata al tappeto da Veltroni e difficilmente resuscitabile dal volonteroso Franceschini e dai suoi modesti secondi ufficiali. Non quella detta radicale, che tutto si propone tranne dare una rappresentatività e qualche ragionevole speranza al blocco sociale dei salariati, dei precari, delle donne più coscienti di sé, dei cattolici non ratzingeriani, dei movimenti. Neppure ora che dentro tutta l'Europa monta la collera dei buttati fuori dal lavoro e dal sostentamento, di una intera generazione di giovani senza prospettiva; una massa che potrà sommarsi o, in mancanza di qualsiasi riferimento, scontrarsi con una immigrazione sicuramente crescente. Mai la sinistra è stata così vergognosamente assente, mai ha così abbandonato la protesta alla sconfitta o a rivolte riducibili a questione di ordine pubblico. Mai davanti a un sistema sociale incastrato nemmeno dalle sue contraddizioni ma dai più sfacciati e, a quanto pare, incontrollabili imbrogli. A tanto siamo a venti anni dal liberatorio 1989.

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venerdì 10 aprile 2009

L'aborto e la responsabilità.

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martedì 7 aprile 2009

Forze moderate del PD reggiano

di Gianfranco Riccò
Il Partito democratico di Reggio Emilia sta scivolando su di una questione politica importante, il moderatismo che non riconosce il valore dei contrasti sociali creati nello sviluppo della società materiale, ma che risolve tutto nella promessa di fare l’interesse generale e il bene di tutti. Fatto sta che sono alcuni ex comunisti del PCI a spingere per tale prospettiva.

Il moderatismo rappresentato dalla UDC di Casini occupa il centro della geometria politica nazionale, ha trovato l’interesse non solo di Antonella Spaggiari ma anche di alcuni dirigenti ex DS, ora del PD reggiano, che hanno spinto per costruire con quel partito una intesa. Siamo informati da tempo che Tarcisio Zobbi, dirigente dell’UDC, sosterrà Antonella a candidata sindaco di Reggio, ma Zobbi aggiunge oggi altro ancora, il PD gli ha offerto dei posti da vicesindaco e assessore nel Comune di Quattro Castella, Scandiano e Villa Minozzo. In Provincia a lui personalmente è stato proposto di fare l’assessore. Insomma l’UDC candida Antonella contro Delrio del PD a Reggio, nello stesso tempo il PD ha chiesto all’UDC di allearsi in Provincia, a Scandiano, Quattro Castella e Villa Minozzo. Sembra uno zabaglione impazzito!

Non si devono ridurre queste cose ad iniziativa tattica, tutt’altro, esse nascono dalla ricerca di una alleanza che tagli fuori le forze di sinistra, una alleanza che immagino fondata sul comune sentire tra chi la propone e l’UDC, se non della laicità almeno sulla rappresentanza del ceto medio e di quello della borghesia produttiva, del commercio e delle professioni. Sembra compiersi così la parabola politica di chi proviene dal partito che un tempo si definiva della classe operaia, il PCI, e dopo aver attraversato la lunga transizione italiana, si invola nel trasformismo ottocentesco, come dell’ottocento sono le pretese di superare il ruolo dei contratti nazionali di lavoro, d’altra parte, venti anni fa, per Giulio Fantuzzi era più importante l’azionariato piuttosto che i lavoratori. Però nonostante tutto è rimasta intatta la pretesa di prendere ancora una volta i voti del popolo di sinistra.

La questione si presenta oggi col clamore dell’esplosione innescata dalla candidatura di Antonella Spaggiari ed i suoi fedelissimi aiutanti impegnati nelle cariche della Fondazione Manodori. Non si può ignorare che questa scelta è una proiezione logica della politica che in tempi recenti ha trovato sostegno nel segretario PD Giulio Fantuzzi e in Sonia Masini Presidente della Provincia ed una parte dei dirigenti ex DS. Probabilmente la pensano allo stesso modo anche i candidati sindaci del PD a Quattro Castella, Scandiano e Villa Minozzo, sempre che siano stati informati. Leggendo poi quanto detto recentemente da Franco Corradini si ha la conferma di questo indirizzo. Egli afferma che un punto dolente per il PD è il rapporto con il centro, o meglio ancora con le opinioni dell’elettorato moderato. Oggi, nel PD reggiano, c’è anche chi sostiene che il partito si deve presentare senza alleati, poi si vedrà. Costoro sembrano prevedere, se non desiderare, il ballottaggio del candidato Delrio che a quel punto dovrebbe per forza trattare con Antonella Spaggiari.

Il terremoto provocato da Antonella Spaggiari è forte dentro al PD perché mette allo scoperto il moderatismo di una parte della classe dirigente del partito che proviene dai DS, il paradosso è che siano uniti con quella parte di cattolici provenienti dalla DC e che a suo tempo si separarono dalla corrente che impersonava il moderatismo del quale Casini è oggi l’espressione più evidente.

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lunedì 6 aprile 2009

Sulla manifestazione del 4 Aprile, sulla CISL reggiana e su Franceschini

di Dino Angelini (apparso sui giornali locali stamattina 6.4)

Leggo su Repubblica online di oggi 4 Aprile:
"Voglio dire alla Cgil che è importante stare in piazza ma mai contro gli altri sindacati". E' questo l'appello lanciato dal segretario del Pd, Dario Franceschini. "Adesso - ha aggiunto - serve una stagione di unità, serve accantonare le divisioni, serve mettersi tutti insieme per difendere i diritti delle persone".
E d’altro canto ho letto nei giorni scorsi una lettera agli amministratori locali di Reggio Emilia da parte dell’Ufficio Stampa della CISL locale che recita:
Dopo anni di rivendicazione dell’autonomia del sindacato dalla politica, ci ritroviamo ancora a ricordare che la politica deve essere lasciata fuori da un confronto che è tutto sindacale e che si inserisce nella spaccatura tra le confederazioni intervenuta dopo l’intesa sulla riforma del modello contrattuale”. E ancora: “Noi, agli amministratori, non abbiamo nulla da chiedere se non di valutare con piena oggettività le scelte che sono in campo. Allo stesso tempo vorremmo rammentare, però, nel rispetto dei reciproci e diversi ruoli, che le istituzioni e gli amministratori pubblici, nell’esercizio del proprio mandato rappresentano tutta la comunità e non solo una parte di essa. Seguendo questo ragionamento, siamo certi che nei nostri amministratori non prevarrà una logica di schieramento e di parte, ma la responsabilità che è propria di chi rappresenta un’intera comunità”.
Mi pare che entrambe le dichiarazioni siano sostanzialmente ipocrite.
Franceschini auspica un ritorno ad una stagione di unità, e fa questa dichiarazione nel momento in cui aderisce (all’ultimo minuto ed a titolo individuale) ad una manifestazione della sola CGIL, che ha convocato i 2.700.000 per opporsi al governo ed alla riforma del modello contrattuale firmata dagli altri due sindacati (e la CISL reggiana, a conferma della profondità delle divisioni tuttora esistenti con la CGIL, parla di “spaccatura tra le confederazioni intervenuta dopo l’intesa sulla riforma del modello contrattuale”!!). Per cui va bene l’ecumenismo di Franceschini che ci vuole tutti fratelli, ma nella fattispecie il segretario del PD dovrebbe spiegarci a quale ecumene si riferisce: a quella che ha brigato per firmare il patto - e cioè governo, confindustria e compagnia bella – oppure a quella che è scesa in piazza oggi?
La CISL reggiana parla giustamente di spaccatura tra le confederazioni, ma omette di dire che gli altri due sindacati, dopo la firma di quel modello di riforma, non hanno voluto fare, come invece chiedeva la CGIL, un referendum per verificare se i lavoratori italiani erano o no d’accordo con quel modello: vale a dire un referendum per capire se CISL e UIL rappresentano la comunità dei lavoratori o solo una parte minoritaria di essa. E omette soprattutto di ricordare che nelle settimane precedenti la firma di quell’intesa proprio coloro che oggi si appellano alla indipendenza del sindacato dalla politica hanno continuato a brigare per settimane con i politici di maggioranza, lasciando fuori dall’uscio il più grande sindacato italiano. Lo hanno fatto forse perché Epifani non può essere invitato a cena da lorsignori (e con lorsignori) perché non è un gentleman, o per preparare una politicissima polpetta avvelenata nel tentativo di far fuori la CGIL? È troppo facile, cara CISL, rivendicare l’autonomia del sindacato dalla politica solo quando fa comodo.
Ricordo infine che ipocrisia significa “simulazione di virtù allo scopo di ingannare”: vedo una simulazione di virtù in entrambi i casi. E mi pare che l’inganno, nel caso di Franceschini, sia nel tentare di blandire la base più a sinistra del suo elettorato: quella – per capirci - destinata poi sempre a fare i famosi sacrifici. Nel caso della CISL reggiana nel rivolgersi sotto elezioni agli amministratori per ricordare loro che i filo-CGIL non saranno ben visti in questa tornata elettorale. I cislini reggiani fanno politica! Altro che! In difesa, almeno a Reggio, della parte cattolica e moderata del PD.

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sabato 4 aprile 2009

Video della diretta dal Circo Massimo

ringraziamo rassegna sindacale per averci consentito ieri la diretta, e proponiamo - sempre da Rassegna Sindacale - un video passato in queste ore su youtube:





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venerdì 3 aprile 2009

Oh si, la storia ci cambierà... - intervista con due parroci emiliani

Una chiesa ormai pura istituzione, incapace di profezia, aggrappata a leggi fatte da lei stessa, senza fondamento teologico, come il celibato o il modo di nominare i vescovi, con seminari faraonici del tutto deserti, i monasteri in vendita, la quasi totalità dei preti di interi continenti che ha la donna, con parroci disperati a correr di chiesa in chiesa a dar l’Eucarestia o a dover star dietro a sacramenti senza ormai alcun senso e inventati a suo tempo per fare il numero sette... Intervista a Chino Piraccini e Guido D’Altri
Chino Piraccini, già vicerettore del seminario regionale di Bologna, sposato, vive a Cesena. Guido D’Altri, già parroco a Ravenna, sposato, vive a Ravenna.
Leggi l'intervista, uscita sul bel sito web: Una città (peraltro da noi linkato qui a fianco)

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mercoledì 1 aprile 2009

Il silenzio e le parole

Luciana ci ricorda: IL SILENZIO E LE PAROLE
giovedì 9 aprile 2009, alle ore 21, al teatro Cavallerizza - reggio emilia
per saperne di più cliccate su: Il silenzio e le parole

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