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martedì 5 ottobre 2010

riedizione: “Post fata resurgo”: una volta le chiamavano Opere Pie ..

di Leonardo Angelini,

già apparso su questo blog il 2 Maggio 2009

In base ad un decreto legge del 2 giugno del 2001, voluto dall’allora ministra Turco, e varato a parlamento chiuso pochi giorni prima dell’avvento del redivivo Berlusconi, le vecchie IPAB furono trasformate in ASP (Aziende di Servizi alle Persone) destinate a diventare – nelle intenzioni della Turco – uno dei fulcri di quel processo di esternalizzazione dei servizi volto a rovesciare i criteri si sussidiarietà, a mettere fuori gioco i vecchi servizi pubblici e a diventare il motore dei nuovi servizi alla persona dell’allora nascente welfare mix.

In base a quella legge – peraltro mai discussa in parlamento - che demandava poi alle regioni la fissazione dei criteri attuativi in base ai quali poi mettere concretamente in piedi nel territorio le varie ASP, negli anni scorsi la Regione Emilia e Romagna ha varato un insieme di norme in base alle quali, entro e non oltre il 30 aprile scorso, le ex IPAB regionali dovevano trasformarsi in ASP, pena l’alienazione da parte dei comuni dei loro patrimoni.

Sono nate così in fretta e furia in Regione, fra il gennaio e l’aprile di quest’anno, 41 ASP, sei delle quali in provincia di Reggio Emilia: l’Opus Civium, l’OSEA, il S. Pietro e Matteo, la Magiera Ansaloni, il Progetto Persona e la Rete. In base alla legge regionale del 2 Marzo del 2003, poi perfezionata a più riprese, tutte queste neo-aziende sono state istituite dai comuni del distretto in cui operavano in precedenza come IPAB.

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Sull'ASP Rete - Ufficio Stampa del Comune, Lunedì 17 Dicembre 2007

Asp - approvazione in cc (17.12.07)

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sabato 12 giugno 2010

L'altra metà del lavoro

di Lia Cigarini, Giordana Masotto, Lorenza Zanuso, da Il Manifesto

La flessibilità imposta dall'economia neoliberista non rappresenta un'opportunità per le donne. Ma il tempo pieno, sempre uguale per tutta la vita, non può più essere considerato un modello a cui adeguare lotte e obiettivi. In questo quadro, chiudersi nell'alternativa fra «più stato» o «più mercato» impedisce di sperimentare nuovi modi di accogliere il conflitto, che di per sé costituisce un passaggio essenziale per cambiare l'organizzazione del lavoro.

L'articolo di Rossana Rossanda (il manifesto, 30 maggio), a commento del nostro Sottosopra - Immagina che il lavoro (testo scaricabile in www.libreriadelledonne.it/Stanze/Lavoro/stanzalavoro.htm), merita alcune precisazioni e ci spinge a riflessioni più generali che ci piacerebbe aprissero sul manifesto un confronto, secondo noi necessario e urgente. Rossanda ci invita: «vogliamo discuterne?». È un invito che abbiamo molto apprezzato e che facciamo nostro.

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martedì 25 maggio 2010

«CE N'EST QUE UN DEBUT», AL CONTRARIO

di Alberto Burgio, da Il Manifesto on line

Il gioco si fa duro. Da giorni la «grande» stampa batte sulla vera novità imposta dalla crisi: il tempo dello stato sociale è scaduto. Fine dell'elemosina. Ha cominciato il Sole 24 ore con Alberto Orioli: il welfare è un «insostenibile, costoso, inefficiente» retaggio del passato. Come il posto fisso. Ha proseguito Il Corriere della Sera con Piero Ostellino (lo stato sociale «divorerà i cittadini» che sinora ha compassionevolmente assistito) e Angelo Panebianco (che, sotto una veste retorica meno grezza, ha sostenuto la stessa tesi: tutto il potere al Libero Mercato).
Una volta tanto dicono la verità, rendendo inevitabili imbarazzate smentite.

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martedì 26 gennaio 2010

Free Student Box - una recensione su "Adolescenza e Psicoanalisi"



Su: Adolescenza e Psicoanalisi, n. 2, novembre 2009, pp. 166 \ 171, la recensione del testo: Free Student Box - Counselling psicologico per studenti, genitori e docenti” a cura di: L. Angelini e D. Bertani, Psiconline Editore, 2009, pp. 328)
Il testo si riferisce alla ormai lunga esperienza di counselling psicologico nelle scuole medie superiori di Reggio E. e provincia che l’anno scorso ha visto ben 16 sportelli aperti per un totale di 1105 accessi (725 studenti, 219 docenti e 161 genitori).
Poiché Adolescenza e Psicoanalisi è la più prestigiosa rivista sull’adolescenza presente in Italia, ci fa piacere comunicare a tutt* voi questo importante attestato.
Dino e Deliana





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Free Student Box - una recensione su "Adolescenza e Psicoanalisi"

Su: Adolescenza e Psicoanalisi, n. 2, novembre 2009, pp. 166 \ 171, la recensione del testo: Free Student Box - Counselling psicologico per studenti, genitori e docenti” a cura di: L. Angelini e D. Bertani, Psiconline Editore, 2009, pp. 328)
Il testo si riferisce alla ormai lunga esperienza di counselling psicologico nelle scuole medie superiori di Reggio E. e provincia che l’anno scorso ha visto ben 16 sportelli aperti per un totale di 1105 accessi (725 studenti, 219 docenti e 161 genitori).
Poiché Adolescenza e Psicoanalisi è la più prestigiosa rivista sull’adolescenza presente in Italia, ci fa piacere comunicare a tutt* voi questo importante attestato.
Dino e Deliana





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mercoledì 2 dicembre 2009

Contro la crisi in quindici mosse

da: Sbilanciamoci! (Importante: in allegato l'intera contromanovra di Sbilanciamoci: Rapporto2010.pdf )

La campagna Sbilanciamoci! ha presentato il suo Rapporto sulla Finanziaria 2010. Ecco il capitolo con le proposte.
Fino ad oggi le misure di Tremonti e di Berlusconi sono state dei “pannicelli caldi”. In questi mesi i responsabili del governo si sono attardati prima a sminuire i dati della crisi (affannandosi a sdrammatizzare le analisi degli istituti di ricerca) e poi a spandere inutile ottimismo, invece di affrontare la crisi con iniziative e politiche adeguate alla gravità della situazione.
I diversi provvedimenti varati in questi mesi o sono pure operazioni di marketing o misure molto modeste che non incidono sul corso della crisi.
Sbilanciamoci! propone un intervento equivalente al 1,6% del Pil del 2010 e allo 0,9% del 2011. In tutto 40 miliardi, coperti in parte da nuove entrate e da risparmi sulla spesa pubblica e in parte generati dal necessario indebitamento per far fronte alla crisi
Proponiamo delle misure concrete, immediate, che nello stesso tempo cercano di disegnare un nuovo modello di sviluppo, fondato sulla sostenibilità ambientale, i diritti e la qualità sociale, un nuovo welfare fondato sulla giustizia e l’eguaglianza, politiche di solidarietà e di cooperazione internazionale.
Ci sono alcune priorità di cui tenere conto: arginare l’impoverimento sociale e la perdita di posti di lavoro, difendere il potere d’acquisto delle famiglie, dei lavoratori e dare reddito a disoccupati e a chi – come i pensionati a regimi modesti – si trova fuori dal mercato del lavoro. Si tratta di rilanciare con forza la regia e la forza delle politiche pubbliche capaci di orientale i comportamenti e le proposte dei mercati, riportare l’economia finanziaria al servizio dell’economia reale, innovare le produzioni e i consumi individuali e collettivi sulla base di un nuovo modello di sviluppo, di cui abbiamo sempre più bisogno.
Dobbiamo abbandonare le vecchie strade, mettere fine a privilegi e corporativismi, redistribuire la ricchezza (perché questa è la vera condizione per crearne della nuova) e ridurre le diseguaglianze, ridare speranza a un paese che altrimenti rischia di essere stritolato da una crisi che accentua le debolezze strutturali di un sistema economico e istituzionale da tempo in difficoltà.
Serve un nuovo modello di sviluppo per un’Italia capace di futuro.

5 PRINCIPI DA SEGUIRE PER UN NUOVO MODELLO DI SVILUPPO
La crisi rappresenta nello stesso tempo un grave pericolo, ma anche una opportunità importante per rilanciare l’economia del paese e un nuovo modello di sviluppo legato a politiche di indirizzo e legate a specifici provvedimenti che possono orientare gli investimenti, le produzioni e i consumi in una direzione diversa da quella del passato. Fronteggiare questa crisi con i modelli e le ricette del passato sarebbe sbagliato e miope. Bisogna avere il coraggio di intraprendere nuove strade, lavorando per un nuovo modello di sviluppo fondato sulla sostenibilità ambientale, la qualità sociale, i diritti, un nuovo modo di produrre e di consumare.
Cinque sono a nostro giudizio le direttrici importanti di questo nuovo modello di sviluppo:
un ruolo più incisivo dell’intervento pubblico capace di dare regole vere e rispettate ai mercati finanziari, di disegnare una vera politica industriale, di attivare meccanismi di incentivo e di stimolo dell’economia reale. Si tratta di ridisegnare un sistema in cui il mercato – e gli operatori privati – non siano lasciati senza regole, ma possano agire dentro una cornice in cui prevalga il bene comune, la responsabilità sociale, l’interesse collettivo
il principio della sostenibilità ambientale come fondante l’idea di una green economy che rivoluzioni il modo di produrre i beni, di distribuirli e di consumarli e sia capace di cambiare pensando a nuove forme di produzione di beni immateriali e di beni materiali durevoli. Un sistema economico meno energivoro e legato all’uso di fonti rinnovabili capace di stimolare una mobilità compatibile con la salvaguardia dei territori e delle comunità;
la qualità sociale come tratto distintivo di un’economia che rimette al centro il lavoro e le persone – i loro diritti sociali inalienabili – le relazioni umane e la dimensione comunitaria della produzione e del consumo; la qualità sociale parte dalla dignità del lavoro e dai territori e dalle comunità locali e nello stesso tempo condiziona le attività e i risultati della produzione alla dimensione più alta di un’economia solidale e al servizio del bene comune;
un equilibrio diverso tra consumi collettivi e consumi individuali e tra consumi socialmente ed ecologicamente compatibili e quelli distruttivi per la società e l’ambiente; significa ripensare anche le modalità della distribuzione dei prodotti, la capacità di limitarne l’impatto ambientale e di favorire quelli che producono un più alto tasso di benessere sociale e collettivo;
il principio della cooperazione e la limitazione di quello della competizione. L’assolutizzazione del principio di competizione ha comportato disgregazione e distruttività del sistema economico e delle relazioni umane, mentre quello di cooperazione – a partire dalle relazioni tra Nord e Sud del mondo e in ambito commerciale, monetario, finanziario – può aiutare ad una crescita più armonica e a superare le crisi che stiamo vivendo.

Possono sembrare dei principi “astratti”, ma invece comportano scelte molto concrete: ad esempio investire nei pannelli solari e non nelle centrali nucleari, rottamare i frigoriferi e le caldaie eco – inefficienti e non le automobili, premiare la ricerca e l’innovazione nelle imprese e penalizzare le delocalizzazioni a buon mercato, sostenere lo sviluppo locale e colpire le speculazioni finanziarie transnazionali, finanziare l’aiuto allo sviluppo ridudendo le spese militari, ridare i diritti al lavoro contrastando la precarietà, promuovere le banche locali contrastando la concentrazione oligopolistica della finanza, rispettare gli impegni di Kyoto varando tasse di scopo punitive contro gli inquinatori e le produzioni insostenibili dal punto di vista ambientale, dare più servizi sociali senza avere bisogno della social card, favorire la filiera corta e i prodotti a “chilometri zero” piuttosto che un’agricoltura distruttiva e di bassa qualità.
5 POLITICHE CONCRETE PER FRONTEGGIARE LA CRISI
Uscire da questa crisi si può con una grande capacità di “politica”, cosa che questo Governo dimostra di non possedere. Bisogna utilizzare di più e con più intelligenza la spesa pubblica, facendo pagare ai privilegiati, agli speculatori, ai settori dove è concentrata la ricchezza economica – e non ai lavoratori, alle famiglie, alle imprese – il peso di questa crisi. Servono nel periodo da oggi fino al 2011 almeno 40 miliardi di euro – una gran parte dei quali può essere trovata grazie dalla riduzione delle spese militari, dalla tassazione delle rendite, da una tassa patrimoniale e dalla cancellazione di alcune inutili grandi opere – per fare due operazioni: fronteggiare le conseguenze della crisi economica e finanziaria e rilanciare l’economia sulla base di un nuovo modello di sviluppo. È necessario intervenire in queste direzioni:

promuovere adeguate politiche del lavoro e allargare lo spettro di applicazione degli ammortizzatori sociali a tutti i lavoratori delle piccole medie e imprese e ai co.pro/interinali, eccetera sulla base delle regole esistenti per i lavoratori a tempo indeterminato delle grandi imprese (cassa integrazione e copertura fino a 8 mesi all’80% dello stipendio);
promuovere un piano nazionale di “piccole opere” e per l’ambiente (che poi così piccole non sono) ambientali e sociali, attraverso una serie di interventi legati ai lavori pubblici nel campo energetico, della mobilità, del riassetto del territorio. Ecco alcuni obiettivi da realizzare entro il 2011: 500mila impianti fotovoltaici, 500 treni per i pendolari, 20 progetti di mobilità sostenibile (1000 piste ciclabili, 5mila vetture in car sharing, 2000 nuove vetture per il trasporto pubblico locale) nelle grandi città, la messa in sicurezza di almeno 9mila scuole italiane che non rispettano le principali norme in materia (legge 626, eccetera). Questi interventi sostengono le imprese e creano posti di lavoro;
promuovere un allargamento delle politiche di welfare – non con interventi caritatevoli come la social card e i bonus bebè – ma attraverso interventi e servizi sociali mirati, permanenti e continuativi, come l’apertura di 5mila nuovi asili nido, di 1000 strutture di servizio su base territoriale a favore di disabili e anziani non autosufficienti, l’introduzione dei Livelli Minimi di Assistenza già previsti dalla legge 328 del 2000, la promozione del diritto allo studio (borse, alloggi, eccetera); si tratta di politiche che in un’accezione ampia dei welfare comprendono anche le politiche per la cooperazione allo sviluppo, la pace, il servizio civile;
sostenere il sistema delle imprese attraverso politiche di incentivo nel campo dell’innovazione e della ricerca, di sostegno all’accesso al credito, di aiuto (con interventi di defiscalizzazioni o bonus) finalizzato al mantenimento dell’occupazione e alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro precario, alla promozione di patti territoriali per il sostegno al sistema locale delle imprese;
arginare il crescente impoverimento del paese e rilanciare la domanda interna con il sostegno al potere d’acquisto dei lavoratori, delle famiglie e dei disoccupati attraverso – oltre a tutte le politiche di welfare precedentemente elencate – una serie di misure: a) l’introduzione della 14° per i pensionati sotto i mille euro lordi mensili, b) la restituzione del fiscal drag ai lavoratori dipendenti; c) la reintroduzione del Reddito Minimo d’Inserimento (cancellato nella 14ma legislatura) per i disoccupati e per chi non gode di altre forme di ammortizzatori sociali.


5 MODI PER TROVARE LE RISORSE

Dove trovare 40 miliardi per sostenere queste politiche? Da una parte è inevitabile – come hanno fatto altri paesi – ricorrere all’indebitamento pubblico. In una fase di crisi è indispensabile un uso straordinario e incisivo della spesa pubblica per impedire l’impoverimento sociale ed economico, la distruzione di parte del sistema delle imprese e delle attività economiche, favorendo il rilancio della produzione e della domanda interna. Dall’altra, è possibile recuperare risorse attraverso la politica fiscale e con risparmi mirati nella spesa pubblica per quelle politiche e misure che noi riteniamo sbagliate. Il grosso delle risorse può essere trovato in questo modo, ricorrendo solo in minima parte all’indebitamento.
Ecco cinque modi per trovare 40 miliardi contro la crisi.

accentuare la lotta all’evasione fiscale e politiche di giustizia fiscale. È impossibile quantificare gli introiti dalla lotta all’evasione fiscale, ma sicuramente si possono quantificare le risorse che in due anni entrerebbero dalle seguenti misure; a) innalzamento della tassazione delle rendite al 23%; b) aumento dell’imposizione fiscale al 45% per i redditi oltre i 70mila euro e al 49% per i redditi oltre i 200mila euro; c) introduzione o accentuazione di una serie di tasse di scopo (SUV, diritti televisivi sullo sport spettacolo, porto d’armi, pubblicità). In due anni queste misure produrrebbero 8 miliardi di entrate.
introdurre una tassa straordinaria e una tantum per i grandi patrimoni (sopra i 5 milioni di euro, il 10% più ricco della popolazione) che rappresenti una sorta di contributo straordinario in una fase di difficoltà per il paese da quelle categorie sociali che rappresentano la parte più ricca del paese. Si tratta in sostanza di una tassa patrimoniale il cui obiettivo sarebbe la raccolta, con una imposizione minima del 3 per 1000, di un introito di 10miliardi e 500 milioni di euro;
puntare sulla riduzione delle spese militari. Si tratta di una scelta obbligata rispetto a Forze armate sovradimensionate rispetto ai loro compiti costituzionali e agli obblighi internazionali. La sola cancellazione del programma di acquisizione del cacciabombardiere JSF produrrebbe un risparmio in 10 anni di ben 16 miliardi di euro, mentre la riduzione del 20% delle spese militari, sempre in due anni, un risparmio di ben 6 miliardi di euro;
rinunciare al programma delle grandi opere, che in larga misura sono inutili, costosissime e in gran parte sbagliate. Rinunciare al progetto sul ponte sullo Stretto e alle altre grandi opere previste (tra le quali, da non dimenticare, anche se per il momento senza oneri finanziari, le centrali nucleari) comporterebbe un risparmio di 3,5 miliardi in due anni;
intervenire su quella parte della spesa pubblica che potrebbe essere ridotta. Indichiamo due misure che potrebbero essere perseguite: il passaggio nella Pubblica Amministrazione all’open source che porterebbe un risparmio di ben 4 miliardi su due anni (contratti e acquisizioni di licenze) e l’abolizione dei contributi alle scuole private (ben 1 miliardo e 400 milioni in due anni) a favore degli investimenti di queste risorse nel sistema pubblico dell’istruzione.
Per l'intero Rapporto scarica l'Allegato

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mercoledì 14 ottobre 2009

Il caso Luzzara e l'integrazione - Cittadini a scuola

di Matteo Rinaldini (*), da Il manifesto on line

La vicenda dell'inserimento differenziato dei figli di immigrati nelle scuole dell'infanzia di Luzzara sta facendo molto discutere. Questa vicenda ha il pregio di fare emergere alcune questioni antiche, di anticipare scenari futuri e allo stesso tempo di relativizzare alcuni luoghi comuni sugli immigrati e sui processi migratori. Il dibattito è proseguito inasprendosi sempre di più e determinando delle vere e proprie contrapposizioni: da una parte il Comune di Luzzara e l'istituzione scolastica hanno fatto appello alla complessità del problema, stigmatizzando (quasi irridendo) coloro che avevano idee chiare sull'argomento, salvo poi prendere provvedimenti che di complesso non avevano nulla, ma che anzi risultavano essere sorprendentemente semplicistiche; dall'altra parte la Cgil, a cui solo successivamente si è aggiunta Rifondazione Comunista, che hanno denunciato il modo in cui la complessità del problema è stata gestita e hanno accusato il Comune di Luzzara e l'istituzione scolastica di avere messo in atto pratiche discriminatorie che non favoriscono l'integrazione.

Il dibattito è poi progressivamente salito di tono. Prc e Cgil sono stati definiti come «anime belle», «beati loro che hanno la soluzione in tasca», «i signori so-tutto-io", "opportunisti», «ignoranti», «soliti movimentisti», quasi che loro fossero il vero problema per il fatto di avere mostrato un senso civico oggi più unico che raro. D'altro canto al Comune e alla scuola sono giunte da qualche parte critiche di razzismo, di discriminazione razziale, di produttori di un regime di apartheid, ecc... Anche se, oggi più che in passato, per fare arrivare un messaggio c'è bisogno di bucare il muro mediatico attraverso termini d'impatto, continuo a ritenere che il linguaggio sia importante e le parole vadano sempre dosate: "anime-belle" e "ignoranti" utilizzati in questa occasione risultano essere termini gratuitamente offensivi, indicatori del poco apprezzamento che alcuni hanno per chi oggi a sinistra ancora possiede senso critico e ha il coraggio di portare avanti senza compromessi alcuni valori e principi; lo stesso termine complessità dovrebbe essere utilizzato con maggiore rispetto e non dovrebbe essere utilizzato per coprire provvedimenti azzardati o per proteggersi da critiche legittime; allo stesso tempo "apartheid" e "razzismo" sono due termini precisi e al contempo (questi sì) complessi che non dovrebbero essere usati con disinvoltura. L'utilizzo di un linguaggio improprio, tuttavia, non dovrebbe distogliere l'attenzione su ciò che è accaduto a Luzzara, né dovrebbe impedire di prendere una posizione netta su questa vicenda. Inoltre, se è vero che oggi a sinistra c'è più che mai bisogno di una posizione ferma su queste tematiche, non disprezzerei il fatto che qualcuno ha avuto il coraggio di assumerla. L'impressione, invece, è che in molti (anche a sinistra) nel dibattito locale hanno colto l'occasione o per mantenere una equidistanza o per lanciare un generico "abbassate i toni!", evitando di andare al nocciolo della questione. Ma al nocciolo della questione è necessario andare una volta per tutte e per fare ciò c'è bisogno di considerare alcuni aspetti che nel dibattito che si è sviluppato sui media sono stati omessi.
Andiamo per ordine e ricostruiamo schematicamente la vicenda. A Luzzara nasce una sezione della scuola dell'infanzia statale di soli figli di genitori stranieri o di origine straniera. La scuola e il Comune si difendono sostenendo che da anni i genitori italiani hanno cominciato a portare i figli alla scuola privata che è presente nel territorio (quella della parrocchia) e che nella scuola statale sono rimasti talmente pochi figli di genitori italiani e talmente tanti figli di genitori immigrati che risulta impossibile formare due sezioni miste. L'unica soluzione possibile, secondo la scuola e il Comune, sarebbe stata quella di formare una sezione di soli figli di immigrati e un'altra formata al 50% da figli di italiani e al 50% da figli di immigrati. Una ripartizione alternativa (ad esempio il 75% di bambini figli di immigrati per sezione), secondo il Comune e la scuola sarebbe stata controproducente per tutti, in quanto ne avrebbe risentito la qualità dell'insegnamento e il lavoro delle maestre. Alcune famiglie immigrate quando si accorgono di quello che è stato deciso non lo accettano passivamente: i genitori immigrati temono che questa separazione non vada a favore delle possibilità di socializzazione dei loro figli, che comprometta le loro possibilità future di integrazione e decidono di chiedere aiuto alla Cgil, la quale decide di appoggiare la causa delle famiglie immigrate.
Già a questo punto ci sarebbe materiale per fare diverse riflessioni: una prima riguarda il fatto che non sono stati gli immigrati ad essere organizzati e mobilitati dalla Cgil, ma che sono stati gli immigrati a "svegliare" la Cgil; una seconda riguarda proprio il fatto che le famiglie di immigrati si sono rivolte alla Cgil e non a un'altra organizzazione o partito, non a Rifondazione e nemmeno al Pd, nonostante i rappresentanti di quest'ultimo sbandierino come simbolo di vocazione integrazionista l'iscrizione tra le fila del partito di una edicolante indiana; una terza riguarda il fatto che tra le famiglie di immigrati ci sono anche persone che hanno acquisito la cittadinanza italiana (per non parlare dei bambini, molti dei quali sono nati in Italia e che non sono cittadini italiani solo a causa di una legge degna della Svizzera degli anni '50) e di conseguenza verrebbe da chiedersi su quale criterio la distribuzione dei bambini per sezione è stata fatta (etnia, religione, cultura, origine geo-culturale, ecc? Tutte categorie non proprio a-problematiche se adottate da un'autorità pubblica); una quarta è quella sull'opportunità che il criterio della residenza delle famiglie rivesta ancora una importanza esclusiva, per di più su scala microterritoriale, nel meccanismo di distribuzione dei bambini nelle diverse scuole o se invece, in un mondo così cambiato rispetto a quando questo criterio è stato pensato, non sia più opportuno ridimensionarlo.
Ciò che però è riportato solo parzialmente sui giornali e dalle televisioni è come si è arrivati a questa situazione così complessa (perché bisogna ammettere che qualche elemento di complessità in effetti c'è, vista l'alta presenza di immigrati su un territorio così piccolo, l'alta percentuale di bambini con genitori immigrati e il problema che ci si deve porre di come inserirli a scuola).
Proviamo allora a sintetizzare brevemente le questioni omesse. È spesso ricordato sui giornali che l'alto numero di bambini figli di immigrati nella scuola statale è determinato dalla fuga, in atto da diversi anni, dei genitori italiani verso la scuola privata del parroco. Questo dato incontestabile pone evidentemente un problema: ci si deve, infatti, interrogare sui motivi che portano i genitori italiani a separare i loro figli dai figli degli immigrati, a fargli vedere solo una parte di mondo e a precludergli la possibilità di crescere con i bambini che vivono oggi e vivranno da adulti nello stesso territorio. Prima o poi questo problema di separatezza, che appunto non riguarda solo i figli degli immigrati ma anche quelli degli italiani, lo si deve affrontare, se mai proprio attraverso il coinvolgimento delle famiglie e la dimensione di Luzzara, non essendo quella di New York, dovrebbe favorire questo confronto. Detto questo, però, nessuno ricorda che la scuola del parroco è finanziata anche dallo stesso Comune di Luzzara e questo sposta l'attenzione su un altro aspetto del problema. Il Comune di Luzzara, alla pari di molti altri Comuni della provincia, durante gli anni '80 ha rinunciato alle scuole dell'infanzia comunali e ha deciso di distribuire i finanziamenti annuali alle scuole già stanziate sul territorio, sia a quelle statali che a quelle private (e cioè quella del parroco). Il motivo di questa scelta bisognerebbe chiederlo agli amministratori di allora, ma è facile immaginare che due fattori come il declino delle nascite di quel periodo e la non convenienza a breve termine dell'apertura di una scuola dell'infanzia abbiano pesato molto nel prendere questa decisione. Le conseguenze delle scelte operate allora oggi si vedono tutte e sempre oggi ne emergono le contraddizioni. Oggi a Luzzara non ci sono scuole comunali e i fondi sono distribuiti tra la scuola statale e quella privata. È sempre bene ricordare che i fondi e i finanziamenti a cui ci stiamo riferendo sono quelli dei cittadini residenti a Luzzara (che siano italiani o indiani o pakistani o marocchini). Ora, il Comune di Luzzara, o meglio i cittadini di Luzzara (tutti), finanziano entrambe le scuole, ma i figli dei cittadini di origine straniera sono di fatto obbligati a iscrivere i propri figli nelle scuole statali (e non per una questione di costi, perché a Luzzara la scuola della parrocchia costa meno di quella statale). Il motivo è che le scuole statali sono dotate di un regolamento che permette di avere un tetto alto riguardo il numero di bambini stranieri da inserire nelle sezioni, mentre la scuola della parrocchia ha la facoltà di stabilire in autonomia il proprio regolamento e il proprio tetto di inserimenti e nel caso della scuola della parrocchia di Luzzara il tetto sembra essere stato stabilito a 5 bambini! Cosa succede quindi? Succede che le famiglie immigrate quest'anno, una volta saputo che i loro figli avrebbero rischiato di essere messi in una classe separata rispetto a quella dei bambini italiani, hanno chiesto di inserire i propri figli nella scuola della parrocchia, mandando in tilt tutti i teorici del conflitto tra culture e dello scontro tra civiltà, ma si sono sentiti dire che nella scuola della parrocchia c'era posto solo per un bambino straniero perché se ne erano iscritti già 4 (ora sembra che il numero sia arrivato ad 8, facendo un'eccezione). Se si tiene presente questo aspetto la complessità della vicenda di Luzzara assume tratti diversi. Molti degli elementi di complessità, infatti, sono riconducibili al contesto in cui si trovano collocati gli immigrati e non tanto a questi ultimi, alle politiche di breve respiro e non solo ai progetti di stabilizzazione a lunga permanenza degli immigrati, agli scarsi investimenti verso un settore strategico come quello dell'istruzione (di qualsiasi grado) e non solo all'alta presenza di minori immigrati (o con genitori immigrati) in età scolare. A fronte di tutto ciò, risulta sorprendente il fatto che il Comune di Luzzara non abbia detto nulla, né abbia avanzato alcuna richiesta di modifica del regolamento della scuola della parrocchia pur contribuendo a finanziare quest'ultima. In questo caso non si tratta di avere dubbi riguardo la legittimità del finanziamento del Comune alla scuola parrocchiale. Siamo, infatti, ad un livello più avanzato. Il problema in questo caso è che se un cittadino (italiano, indiano o pakistano), attraverso il Comune, finanzia una scuola privata dovrebbe avere voce in capitolo almeno sulle regole in vigore nella scuola e soprattutto non può accettare che siano in vigore regole che tendono ad escluderlo. Se il Comune invece di avere reazioni scomposte con coloro che nutrono legittimi dubbi sui supposti aspetti virtuosi di questa operazione di separazione dei bambini cominciasse a contrattare l'applicazione di uguali regolamenti nelle scuole statali e private del territorio, probabilmente alcuni problemi si risolverebbero. Ovviamente per fare questo è necessario rimettere in discussione assetti che fino ad ora si era abitati a considerare acquisiti.
La situazione che si è verificata a Luzzara non va sottovalutata soprattutto perché la complessità della situazione non coincide con la sua eccezionalità, dal momento che quello che si sta verificando in quello specifico territorio ha tutto l'aspetto di essere un fenomeno di avanguardia, un caso avanzato ed emblematico di quello che gradualmente diventerà una situazione estesa a livelli che non riguardano solo la provincia in questo caso interessata. Nessuno si illuda infatti: l'attuale crisi economica non avrà effetti molto significativi sul volume dei flussi reali di migranti in entrata nel nostro paese, né tanto meno ne avrà sulla presenza degli immigrati già residenti sul nostro territorio. Forse questa che ci si presenta può essere una occasione da cogliere al volo per evitare di avere problemi più grossi e più estesi in futuro. Perché una cosa è certa: con l'immigrazione niente rimane come prima.
* Università di Modena e Reggio Emilia

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mercoledì 30 settembre 2009

Europa, la sinistra smarrita

di Paolo Flores d'Arcais, da il Fatto Quotidiano, 29 settembre 2009, apparso anche su Micromega
Il Partito socialdemocratico tedesco ha subito domenica un vero e proprio tracollo. Commentatori e politici fingono di interrogarsi sul “perché?”, e allargano pensosamente l’orizzonte al declino dei partiti di “sinistra” in atto da tempo nell’intera Europa. Fingono, perché mai spiegazione fu più lapalissiana e sotto gli occhi di tutti. La “sinistra” perde in Europa, puntualmente e sistematicamente, perché da tempo ha smesso di essere di sinistra. Da tempo ha smesso di fare della eguaglianza la sua bandiera, la sua bussola, la sua strategia. E dire che la realtà economica e sociale non fa che offrire alimento ad una battaglia sempre più sacrosanta e doverosa per ogni persona minimamente civile: una generazione fa la distanza, nella stessa azienda, fra il reddito di un operaio e quello del super-manager poteva essere di 1:30, 1:40 (una enormità). Oggi tocca tranquillamente la cifra, esorbitante e mostruosa, di uno a trecento o quattrocento. Ma ci sono casi non rari in cui viene superato il rapporto uno a mille.

La sinistra, intesa come socialdemocrazia, si sta avvitando in un declino rapido e galoppante perché è sempre più indistinguibile dalla destra, questa è l’ovvia verità. E dovendo scegliere tra due destre, una dichiarata coerente e orgogliosa dei suoi “valori”, l’altra titubante e ipocrita, che qui lo dice e qui lo nega, l’elettore reazionario o il mitico “moderato” che sogna un futuro di privilegio, sceglierà ovviamente la prima, mentre l’elettore democratico finirà per restare a casa – dopo due o tre “ultime volte” in cui ha volenterosamente votato tappandosi il naso. Eppure i commenti di tutti i dirigenti del Partito democratico ai risultati delle elezioni tedesche non fanno che ripetere la giaculatoria d’ordinanza: attenti a non ascoltare le sirene estremiste (sarebbe Lafontaine!), non dobbiamo rinunciare alla “cultura di governo”, l’unica anzi che alla lunga ci farà vincere (“nel lungo periodo saremo tutti morti” ammoniva il grande Keynes. Anche lui estremista, evidentemente).

Giaculatoria masochista, con la quale la “sinistra” non vincerà mai più, ma giaculatoria obbligata, perché ammanta di nobiltà (“cultura di governo”) la realtà mediocre e spesso sordida di una nomenklatura (nazionale e locale) totalmente succube dell’establishment e pronta a difenderne gli interessi, garantirne i privilegi e financo soddisfarne i capricci – e soprattutto le illegalità - anziché riequilibrare radicalmente redditi e potere a vantaggio dei meno abbienti.
Perché non è affatto vero che in Europa la sinistra sia sconfitta, e non è stato vero neppure in Germania domenica scorsa. I voti di Spd, Die Linke, Verdi e “Pirati” equivalgono e forse superano la somma dei suffragi cristiano-democratici e liberali. L’elettorato per un’alternativa alla signora Merkel ci sarebbe, insomma. E in Francia è bastato che Dany Cohn-Bendit inventasse un nuovo e credibile partito ecologista per ottenere alle europee un risultato equivalente a quello del declinante Partito socialista.

Perché dunque i partiti socialdemocratici perseverano nella politica diabolica che li sta portando all’estinzione, anziché mettersi a disposizione delle istanze di “giustizia e libertà” che percorrono massicciamente le società civili della vecchia Europa? Perché non colgono l’occasione di una crisi drammatica, colpevolmente prodotta dai padroni della finanza e governi complici, per guidare le masse nell’imporre all’avidità sfrenata e inefficiente delle classi dirigenti un sacrosanto redde rationem?

Perché hanno smesso da tempo di “rappresentare” forze popolari, e istanze di critica ai privilegi (sempre più smisurati) e all’establishment. Perché di quell’establishment sono parte integrante, benché subalterna, perché aspirano solo a partecipare alla torta di quei privilegi, anziché a sostituirvi un agape più fraterno. Perché sono casta, partitocrazia autoreferenziale, e di conseguenza strutturalmente incapaci di indicare nei nemici dell’eguaglianza i propri nemici. Ma senza indicarli, senza proporre misure che colpiscano i finanzieri della speculazione, e gli imprenditori che “delocalizzano” (cioè licenziano in patria per iper-sfruttare con profitti iperbolici nei paesi più poveri), e il dilagare dell’intreccio corruttivo-politico-criminale (le mafie ormai impazzano, dagli Urali alla penisola iberica), senza rilanciare il welfare tassando i più ricchi, la socialdemocrazia non solo non fa più politica ma è ormai morta.

Si tratta di seppellirla al più presto nella consapevolezza degli elettori, perché lo zombie di quella che fu una sinistra è oggi l’ostacolo maggiore alla nascita di nuove organizzazioni di “giustizia e libertà”.
Tentare di riformare le socialdemocrazie è una perdita di tempo. Cercare di “superarle” in una sintesi con pulsioni e illusioni “centriste” è ancora peggio, una dissipazione di energie democratiche e di passione civile. Le lezione ripetuta e convergente che da anni viene dalle urne elettorali in Europa dice invece che è maturo il momento per dare al bricolage politico dei movimenti di opinione una forma organizzativa, autonoma dai partiti, capace di non riprodurne i difetti e le derive di omologazione. Tanto più in Italia, dove sponde ecologiste o alla “die Linke” sono state cancellate definitivamente dalla corriva nullità dei gruppi dirigenti.

(29 settembre 2009)

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martedì 14 luglio 2009

La solitudine delle famiglie italiane

di Daniela Del Boca e Alessandro Rosina 10.07.2009 da "lavoce.info"
I dati confermano che nel nostro paese il peso dell'assistenza alla popolazione che invecchia ricade quasi del tutto sulla famiglia. O meglio, sulle donne e in particolare sulle figlie adulte. Che sempre più ricorrono ai servizi delle immigrate. Ora le nuove norme sull'immigrazione sono un'ulteriore conferma che lo Stato italiano è poco attento ai veri problemi delle famiglie. Non solo le abbandona sostanzialmente a se stesse Ma rende anche più difficile e complicato il ricorso alle risposte che, con difficoltà, tentano di darsi da sole. Per esempio, tramite le cosiddette "badanti".



Più che altrove le famiglie italiane sono sole: sono meno aiutate dalle politiche sociali, e quindi più sovraccariche di responsabilità nei confronti dei propri membri più deboli, e spesso sono anche maggiormente indotte a fare un passo indietro rispetto a importanti scelte di vita. È, del resto, un dato di fatto ampiamente riconosciuto che siamo uno dei paesi avanzati con sistema di welfare più obsoleto, meno in grado cioè di proteggere dai rischi e di promuovere scelte virtuose nella popolazione. Non a caso ci troviamo con occupazione giovanile tra le più basse e una delle peggiori combinazioni nell’area Ocse tra fecondità e partecipazione femminile al mercato del lavoro.

LAVORO FEMMINILE COME RISPOSTA ALL’INVECCHIAMENTO

La persistente denatalità dell’ultimo quarto di secolo ci ha fatti diventare uno dei paesi al mondo con maggior invecchiamento. Siamo però anche meno attrezzati a rispondere alle sfide che tale processo pone, proprio per la fragilità del nostro sistema di welfare e la bassa occupazione di giovani e donne. Svezia e Francia, ad esempio, hanno livelli di longevità simili ai nostri. Il cruciale rapporto tra anziani inattivi su occupati è però notevolmente peggiore nel nostro paese: uno su due, contro una media Unione Europea a 15 del 38 per cento. La causa è la nostra più bassa fecondità, che rende più pesante il numeratore, unita alla minor partecipazione femminile al mercato del lavoro, che rende meno corposo il denominatore.
Questo significa che le famiglie italiane, già tradizionalmente sole, si trovano con un crescente aumento della domanda di cura e assistenza dei propri membri anziani non autosufficienti. E che la spesa per protezione sociale, già ora molto squilibrata, è destinata a essere ancor più sbilanciata verso pensioni e sanità.
È ampiamente riconosciuto che una delle risposte principali all’invecchiamento della popolazione passa attraverso l’aumento dell’occupazione femminile, indispensabile per rendere più sostenibile il sistema delle finanze pubbliche da un lato, e più solido il benessere economico delle famiglie, dall’altro.
Ma proprio la combinazione tra accentuato invecchiamento e gravi carenze del sistema di welfare pubblico rischiano di comprimere la partecipazione femminile al mercato del lavoro. (1)

LE BADANTI COME RISPOSTA ALLE CARENZE DEL SISTEMA DI WELFARE

L’indagine Galca, Gender Analyses and Long Term Care Assistance, realizzata nell’ambito di un progetto promosso dalla Commissione europea e coordinato dalla Fondazione Giacomo Brodolini, ha confrontato Italia, Danimarca e Irlanda, analizzando costi, strutture e responsabilità familiari. Nei primi due paesi, più del 90 per cento degli anziani viene assistito a domicilio o in appartamenti attrezzati, mentre l’Irlanda registra una quota di assistiti in “istituti” – case di riposo o residenze sanitarie – superiore al 20 per cento. Quando l’assistenza è a domicilio, però, in Italia è quasi esclusivamente un familiare, prevalentemente donna, che si fa carico degli anziani, mentre in Danimarca è il servizio pubblico.
I dati confermano come nel nostro paese il peso dell’assistenza alla popolazione che invecchia ricada quasi per intero sulla famiglia, o meglio sulle donne, e in particolare sulla generazione delle figlie adulte. Queste ultime si avvalgono sempre più dei servizi delle immigrate. In Italia troviamo infatti il maggior numero di lavoratori stranieri impegnati in quelli che statisticamente vengono chiamati “servizi alle famiglie”: il 10,8 per cento del totale, contro l’1,2 per cento del Regno Unito e l’1,9 per cento degli Stati Uniti.
Secondo stime prudenti, le sole badanti (escluse le colf) sono complessivamente 700mila, delle quali almeno 300mila senza permesso di soggiorno. Va detto che larga parte degli stranieri che lavorano nel nostro paese, a causa dei vincoli della legge vigente, entra comunque in Italia in modo irregolare. La successiva regolarizzazione per chi trova un impiego presso una famiglia non è però né semplice e né scontata. Una condizione che rimane quindi problematica e instabile, a svantaggio di tutti. Molte famiglie si trovano da un lato con un problema apparentemente risolto, ovvero con una persona che svolge l’attività di cura necessaria, ma dall’altro con un nuovo problema, ovvero la lunga e complicata procedura per sanare la situazione di irregolarità della colf o badante attraverso la lotteria del decreto flussi che fissa quote limitate. Ora, il Ddl sicurezza rende le cose, se possibile, ancora più dolorose e complicate con la norma che punisce a titolo di reato l’ingresso e il soggiorno illegale degli stranieri.
A perderci sarà la parte più virtuosa dell’immigrazione, le famiglie italiane con maggior necessità di assistenza, ma anche il sistema paese nel suo complesso. Supponiamo infatti che i cittadini italiani decidano di osservare rigorosamente la nuova legge. In tal caso, crollerebbe il sistema di welfare informale e precipiterebbe ulteriormente l’occupazione femminile. Un disastro, tanto più in una fase di recessione come l’attuale.
Una delle tante conferme che lo Stato italiano è poco attento ai veri problemi delle famiglie: non solo le abbandona sostanzialmente a se stesse e tarda a mettere in campo quelle riforme strutturali al sistema di welfare che consentirebbero al paese di crescere di più e ai singoli di vivere meglio, ma rende anche più difficile e complicato il ricorso alle risposte che le famiglie tentano, con difficoltà, di darsi da sole.

(1)Per una analisi approfondita vedi Daniela del Boca e Alessandro Rosina Famiglie Sole Il Mulino 2009.


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mercoledì 8 luglio 2009

Cittadinanza e mutualismo

di Pino Ferraris, da: UNA CITTÀ
Terzo settore, terzo sistema, non profit, economia civile… sono innumerevoli i tentativi di costruire e di definire il grande contenitore nel quale riversare pratiche e attori sociali, che sfuggono ai chiari e consolidati criteri di classificazione dei sistemi di azione: l’agire amministrativo pubblico e l’azione privata di mercato.


Dentro questo generico recipiente si affastellano dati statistici: numero sterminato di organizzazioni non profit, cifre che quantificano la presenza dell’impegno volontario e del lavoro dipendente, comparazioni internazionali. La precisione matematica in questo caso fallisce: i risultati statistici sono discordanti, contraddittori, controversi.L’almanacco delle buone pratiche di cittadinanza con le sue numerose e lunghe interviste che raccontano esperienze di intervento sociale su scuola e immigrazione, disagio mentale e cura del dolore, contratti di quartiere e difesa di beni comuni, ecc., cambia il punto di vista, muta angolazione. Qui prevale l’approccio “soggettivo” che racconta le motivazioni, le capacità e i limiti degli attori sociali, narra i percorsi e le forme del mettersi insieme, fa emergere le interazioni concrete con l’ambiente e con i soggetti, le difficoltà incontrate, le risorse e le competenze attivate, i modi e i livelli di incontro con la pubblica amministrazione.Sono sondaggi puntiformi che scendono in profondità all’interno di segmenti parziali, interrogano la qualità del frammento.Mi pare inedito l’apporto “qualitativo” di conoscenza che proviene da un agire sociale che si racconta.Non è affatto esaustivo questo approccio, ma proprio perché è troppo trascurato lo ritengo molto prezioso. Mi limito ad estrarre dal corposo materiale delle 400 pagine dell’Almanacco due spunti che utilizzo per sviluppare argomentazioni di carattere più vasto che voglio collocare ad introduzione di questo mio intervento.Prendo avvio dalla bella intervista ai membri di una cooperativa di tutoraggio di ragazzi in gravi difficoltà in un quartiere degradato di Napoli. L’associazione ha un nome misterioso “Il tappeto di Iqbal”. L’intervistato spiega che quel nome richiama la vicenda di un piccolo schiavo pachistano ucciso a dodici anni dalla mafia dei tappeti quando ha cercato di organizzare la resistenza alla disumana condizione sua e dei suoi compagni. Il collegamento simbolico tra quell’esperienza così lontana nello spazio e l’azione di sottrazione di ragazzi napoletani alla servitù del circuito camorristico evidenzia una rilevante circolazione globale di informazione ed identificazione all’interno di pratiche sociali e valori condivisi: impegni sociali molecolari molto diffusi ma anche fittamente interconnessi.Le buone pratiche di cittadinanza non nascono dal buon cuore ma dall’interazione tra la risposta a bisogni “locali” e il coinvolgimento nella costellazione di ideali e di esperienze comunicati dalla diffusione dei nuovi movimenti sociali. Senza Seattle e Porto Alegre e senza internet si rischia di capire molto poco delle forme della sociabililità contemporanea.La seconda occasione di riflessione l’estraggo dalla ricca intervista a due animatori dell’associazione friulana “Vicini di casa”. Gli intervistati anche questa volta prendono il discorso da lontano, ma da lontano nel tempo: “In Friuli ogni paese aveva la sua latteria sociale cooperativa, erede della vecchia esperienza cooperativa cattolica e socialista di fine 800 e inizi 900…”. I tempi nuovi hanno travolto quell’esperienza rurale che però ha lasciato un’eredità di tradizioni culturali e di strutture materiali. Si è deciso di rilanciare quel patrimonio antico per affrontare un problema nuovissimo: offrire agli immigrati una possibilità di civile inserimento abitativo. Ora l’associazione gestisce l’affitto di 1500 famiglie di immigrati.Perché il nome “Vicini di casa”? Gran parte dei lavoratori friulani erano muratori migranti e costruivano da sé la propria casa al paese con il mutuo sostegno tra vicini di casa. Anche in questo caso la buona pratica attiva nel presente non nasce nel vuoto, ma si alimenta nel sedimento storico della cultura sociale: la attualizza e la rilancia.Per rielaborare l’antico mutuo appoggio tra i vicini di casa del villaggio friulano nel sostegno solidale ai nuovi “vicini” che sono cingalesi, kossovari e curdi, occorre che sia intervenuta un’evoluzione innovativa all’interno dei valori del passato. Vorrei far presente con forza questa doppia riduzione di distanza: da una parte l’apertura verso uno spazio di cittadinanza “globale”, dall’altra la riattivazione nel tempo presente di ciò che resta vivo nelle radici del passato “locale”. Qui vedo l’originalità e la forza delle forme emergenti della sociabilità.Il “primo mondo” occidentale è ormai da tempo uscito dal “glorioso trentennio”. Allora un processo di crescita economica lineare aveva ridimensionato la portata dei dilemmi sociali: tecniche specialistiche e amministrative di correzione distributiva e di adattamento culturale apparivano sufficienti a garantire stabilità di consenso e di coesione.E’ lenta la percezione dell’insorgere anche all’interno dell’Occidente (non solo nel “resto del mondo”) di una nuova questione sociale che esige straordinaria mobilitazione di cultura, grande capacità di invenzione politica e istituzionale, attivismo creativo nella tessitura della trama associativa e dei legami sociali.E’ difficile l’impresa analitica di ricostruzione dei molteplici e complessi profili dell’attuale crisi sociale. Non aiuta l’economicismo a dipanare il groviglio di tensioni inter-culturali, di deprivazioni relative, di insicurezze ecologiche, di rischi di mobilità sociale discendente, di perdite di identità che si avvitano intorno ai sussulti dell’economia e ai traumi tecnologici.Tuttavia mi pare indubbio che l’epicentro del terremoto sociale si colloca nel colossale processo di destabilizzazione di quel lavoro salariato che era diventato il grande integratore delle nostre società attraverso lo stabile rapporto con l’impresa, mediante l’affermazione di identità collettive sindacalmente e politicamente rappresentate e con un riconoscimento della propria centralità concretizzato nelle tutele dello Stato sociale. Ci troviamo di fronte ad un apparente paradosso. Gli ambiti di lavoro, che sono violentemente ed estesamente colpiti da insicurezze e disoccupazione, da nuove costrizioni e disagi, da svalutazione economica e sociale, non ci appaiono in questo momento come i luoghi della resistenza più significativa, come i contesti delle esperienze sociali e politiche più radicali e innovative. E’ invece all’interno degli ambiti di vita, all’interno dei processi di riproduzione sociale che le onde lunghe e ruvide degli sconvolgimenti del lavoro sembrano esprimere insorgenze di risposta, di auto-difesa, manifestare fermento critico e propositivo.Parlo di paradosso “apparente”, ricordando che nel tempo delle drammatiche fratture prodotte dal primo industrialismo il mutuo soccorso nelle condizioni di esistenza ha preceduto la resistenza sul lavoro. Allora la costruzione di aggregazioni della solidarietà negli ambiti di vita fu premessa e presupposto delle lotte del lavoro.Nei primi decenni del secolo scorso il sindacalista francese Victor Renard aveva teorizzato e proposto il “sindacalismo a base multipla”, in sostanza un sindacalismo che fosse in grado di utilizzare la solidarietà mutualistica negli ambiti di vita come leva per rafforzare la coesione rivendicativa nei luoghi di lavoro. Oggi che il lavoro è vulnerato, precarizzato e disperso non si possono pensare forme di associazionismo mutualistico come itinerario verso la ricostruzione di una capacità di coalizione e di rivendicazione nel lavoro?Il sindacato dovrebbe apprendere a “fare società”, non limitarsi ad aprire sportelli di servizio.Un vecchio lavorista come il sottoscritto, che ha sempre visto i rapporti di produzione come lo spazio primario e privilegiato del conflitto sociale e dell’autonomia dei lavoratori, trova difficoltà a mutare il punto di osservazione, a concentrare attenzione positiva sui cosiddetti processi di riproduzione sociale. Non è facile per me osservare e valorizzare le dinamiche sociali che sembrano provenire dal lato “maledetto” del consumo.Consumismo di mercato e sudditanza allo Stato paterno li ho sempre visti come i momenti della passivizzazione, della dipendenza e dell’integrazione sociali.Era difficile, nei tempi d’oro del “miracolo” consumista e delle conquiste welfariste, scorgere la presenza di resistenze, di aree di autonomia nella vita quotidiana all’interno di una società sempre più pesantemente colonizzata dall’offerta di mercato e dall’interventismo di Stato. Eppure persone, famiglie e comunità mai sono state completamente inerti, passive “destinatarie” dei beni delle attività di impresa e dei servizi delle amministrazioni. Le fatiche e le capacità di processare e di adattare i beni e i servizi dell’offerta all’uso per se stessi hanno sempre generato un’area di attività, un corpo di saperi taciti, implacabilmente relegati nel cono d’ombra degli affari domestici e dell’arrangiarsi informale .Certamente la “rivoluzione silenziosa” delle donne ha costituito la leva principale nel portare alla luce, nel dare valore sociale alla segregata ed oscurata “economia domestica”. La rilevanza sociale e politica del lato attivo, competente e propositivo della “domanda”, ha avuto accelerazioni soprattutto dentro la crisi del welfare che precipitava sia come ridimensionamento di prestazioni, sia come modalità burocratiche e clientelari in conflitto con una più esigente ed attiva cittadinanza, sia come rigidità dell’offerta rispetto alla mappa, in rapida trasformazione, delle aree e delle forme del disagio e dei bisogni.Il volontariato, negli anni ‘80, nasce fortemente orientato alle nuove marginalità: i tossicodipendenti, i senza fissa dimora, gli immigrati, i disabili e i malati di mente. Non si manifesta come “azione compassionevole” verso i bisognosi, ma come impegno di cittadini attivi volto a rendere esigibili diritti negati ai cittadini deboli. La combinazione e l’intreccio del volontariato con movimenti ad obiettivo specifico, come il pacifismo, l’ambientalismo e l’antirazzismo creano sinergie che arricchiscono un inedito associazionismo che si colloca ormai all’esterno degli storici e fondamentali corpi intermedi novecenteschi: il sindacato e il partito politico.Le caratteristiche originali di quelle che chiamiamo buone pratiche di cittadinanza consistono nel fatto che esse non sono chiuse all’interno della mera rivendicazione verso l’alto e non operano come semplice azione di supplenza rispetto a ciò che dall’alto non viene. Esse contengono elementi critici ma tendono a proporre soluzioni. Mentre avanzano proposte sovente incominciano a realizzarle in proprio. Queste nuove forme di intervento sociale cercano di trasformare gli “utenti” passivi di prestazioni esterne in soggetti capaci di esprimere proprie energie latenti, di riprendere iniziativa e di ritrovare anche limitati ma possibili spazi di autonomiaQueste spinte tendono a incrinare il nesso assistenza-dipendenza, il paradigma forte che compatta le esigenze di comando del ceto politico, la volontà di conservazione del ruoli amministrativi, l’intangibilità dei circuiti di potere-sapere degli esperti. Esse rimettono in discussione l’autoreferenzialità delle strutture di welfare, autoreferenzialità che riproduce i processi di fondo della logica delle organizzazioni, tendenti alla divaricazione tra fini dichiarati (la missione sociale) e fini reali (l’autodifesa degli apparati).E’ severamente vietato agli utenti destinatari di diventare attori sociali proponenti. L’“oggetto” delle pratiche di tutela politico-amministrativa non può pretendere di entrare nella scena pubblica come “soggetto”.In modo embrionale, implicito e carsico vediamo forse operare dinamiche sociali che vanno ad intaccare quello che è un solido paradigma d’ordine.Riprendendo la sintetica definizione (scritta nel 1936) dello storico del movimento operaio Edouard Dolléans si riapre “il conflitto tra le rivoluzioni di potenza e le rivoluzioni di capacità”. Da una parte la gestione della società delegata alle macchine politiche, alle tecnocrazie e allo Stato, dall’altra il mutamento sociale che cerca le sue risorse principali e prioritarie nell’incremento delle capacità morali e intellettuali dei cittadini e nell’iniziativa costruttiva e realizzatrice delle libere associazioni. Se la sfida delle alternative sociali ha veramente questo respiro e questa rilevanza, è difficile però vederle rappresentate nell’attuale dibattito politico e ideale.Un fattore di rimozione e di blocco della discussione viene dall’interno dello stesso “terzo settore”. In esso operano grandi società di capitale (non profit) che utilizzano personale dipendente per fornire servizi sociali appaltati all’esterno da enti pubblici: l’impresa sociale. Dall’altra parte abbiamo una galassia di associazioni tra persone rivolte all’azione solidale di sostegno e di aiuto: il volontariato.I primi operano per erogare servizi all’utenza sociale, i secondi sono soprattutto impegnati con i soggetti deboli titolari di diritti sociali elusi o negati.I primi sono applicati ad agire sui modi, sugli indirizzi, sulle normative di elargizione dell’offerta di prestazioni e di servizi.I secondi si sentono più impegnati a dare voce, a suscitare capacità di espressione e di influenza nella domanda sociale.Sono ambiti che esprimono logiche diverse dell’azione sociale. I vertici visibili e ascoltati del cosiddetto terzo settore esprimono una torsione unilaterale della rappresentanza, esercitano soprattutto una sorta di pressione “sindacale” dell’impresa sociale verso i pubblici poteri per sollecitare e captare l’esternalizzazione dei servizi sociali. La vasta galassia delle buone pratiche di cittadinanza, dell’associazionismo volontario, della cittadinanza attiva non ha rappresentanza propria, visibilità e peso politico. Eppure è da questo lato che vengono gli apporti per un welfare arricchito, rinnovato e partecipato, la cui costruzione coincide con una rivitalizzazione democratica della società civile.La convergenza tra “imprenditori sociali”, apparati politici e burocrazie amministrative, applicati in operazioni di ingegneria sociale e ossessionati dai “costi” dell’offerta sociale, tende sempre più a far coincidere l’innovazione con il ridimensionamento del Welfare.L’oscuro oggetto del desiderio di tanta parte della classe dirigente italiana ed europea è il modello americano di “conservatorismo compassionevole” e di welfare residuale. Il prof. Stefano Zamagni è uno studioso cattolico che da anni dedica intelligenza e passione nella ricerca economica, sociale e storica dei fondamenti di quella che egli chiama una “economia civile” che sia in grado di sfuggire alla stretta delle ganasce del neo-liberismo e del neo-statalismo.Egli non ha dubbi nel tracciare netti confini rispetto all’esperienza americana del “capitalismo caritatevole” dove “un mercato scatenato produce ricchezza e i ‘ricchi’ fanno la ‘carità’ ai poveri, ‘utilizzando’ la società civile (che quindi viene deformata) e le sue organizzazioni (le charities e le Foundations).”Lascia un po’ perplessi l’intento di Zamagni a ricercare nell’“umanesimo civile” della prima metà del Quattrocento fiorentino il riferimento culturale e sociale per il progetto di una “economia civile” del nostro tempo. Personalmente ritengo che, per affrontare l’insorgente questione sociale, le forze politiche e culturali del nostro continente debbono fare i conti, nel bene e nel male, con la peculiarità di un’esperienza non così lontana: la storia sociale di un’Europa percorsa da 150 anni di vicende del movimento operaio e socialista e da 100 anni di impegno del movimento del cristianesimo sociale. E’ all’interno di questa lunga storia che si possono rintracciare contributi di pratiche e di idee che, con alterne fortune, hanno cercato di contenere le opposte derive del mercatismo individualista e dello statalismo collettivista.Il filo rosso di questa tradizione, da ripensare e da riattivare, lo ritrovo nell’esperienza del mutualismo. Parlando del mutualismo storico penso che non sia opportuno dilatarlo troppo, quasi fosse un sistema complessivo di socialismo mutualista, e neppure ridurlo alla mera esperienza delle “mutue”. A mio avviso il mutualismo realizza una particolare articolazione di quel principio di solidarietà nel quale si concentra e si riassume il contributo morale e pratico del movimento operaio nella storia dell’Europa del XIX secolo.La parola “solidarietà” è apparsa sulle bandiere degli operai parigini durante la rivoluzione del 1848. Essa si è presentata accanto a quelle di libertà e di uguaglianza ed in sostituzione del termine fraternità.Fratellanza significa sollecitudine morale all’oblazione dall’alto verso il basso tra diseguali in nome di una comune appartenenza: fratelli in quanto figli di dio, fratelli in quanto figli della patria. Era la parola della carità cristiana e della filantropia massonica.La solidarietà operaia segna una rottura: esprime un sentimento morale e una disposizione pratica che unisce orizzontalmente gli eguali: uno per tutti, tutti per uno. E’ la presa di coscienza della necessità dell’agire cooperativo da parte di coloro che posseggono soltanto la forza del numero. La solidarietà ha suscitato e animato la grande e ricchissima fioritura dell’associazionismo nell’Europa della seconda metà dell’800.Le società di mutuo soccorso furono luogo privilegiato di solidarietà operaia. All’interno della cerchia “privata” dell’associazione, il mio dovere di essere solidale con tutti comportava l’obbligo di tutti gli altri di essere solidali verso di me. All’interno di quell’ambito associativo circoscritto i lavoratori, di fronte alle sventure dell’esistenza, hanno cessato di rovinare nella condizione di bisognosi mendicanti per diventare soggetti portatori del diritto al sostegno solidale.Ma ben più vasto era il ventaglio delle forme della solidarietà operaia.Il sociologo Roberto Michels, nei primi anni del 900, esamina e riflette sulle forme in cui si articola la solidarietà tra i lavoratori. Egli ritiene di tracciare una distinzione importante tra le forme della “solidarietà negativa” che genera coesione contro qualcuno e quelle della “solidarietà positiva” che si alimenta nell’impegno cooperativo per risolvere in proprio, direttamente e dal basso, problemi e difficoltà insorgenti nella vita e nel lavoro. La solidarietà negativa prevale nelle coalizioni di “combattimento” del movimento operaio: il sindacato in lotta contro il padrone, il partito in lotta per il potere nello stato.Il mutualismo invece rappresentava l’ampia area delle solidarietà positive che puntavano sulle “virtù proprie” del mondo del lavoro: le loro capacità di autogestione, l’esercizio dei loro saperi-taciti nel costruire società, nel fare tecnico e nell’agire economico. L’ area del mutualismo comprendeva le società del mutuo soccorso, le cooperative di produzione e di lavoro, il credito cooperativo, le case del popolo, i circoli ricreativi, le società di istruzione professionale, le università popolari…Nell’esperienza concreta del movimento dei lavoratori esistevano relazioni reciproche e contaminazioni tra militanza sindacale, lotta politica e attivismo mutualistico.Nel corso del ‘900 (a partire dalla Prima guerra mondiale) avviene però un radicale mutamento di scenario nella configurazione delle pratiche, delle culture, delle logiche di raggruppamento all’interno della società del lavoro. Lo sviluppo del capitalismo organizzato cui si contrappone la risposta di un sindacalismo centralizzato e istituzionalizzato, la militarizzazione della politica in una logica di scontro amico-nemico, la progressiva statizzazione della mutualità, tendono ad assolutizzare i momenti e le istituzioni della solidarietà negativa ( sindacati e partiti). Prevale una logica di organizzazione d’apparato, disciplinata e gerarchica, dettata dalla necessità di “combattimento”.A questa svolta storica corrisponde il declino, il deperimento del mutualismo inteso come l’area della solidarietà positiva e del pluralismo associativo nel quale si esprimevano le autonome capacità dei cittadini nell’affrontare, a partire da se stessi e in modo cooperativo, i problemi e le difficoltà della vita personale e sociale.E’ forse arbitrario collegare le forme dell’operare e i modi di vivere e di vedere la società di quanti oggi sono impegnati nelle buone pratiche di cittadinanza con il patrimonio tutto nostro di quella solidarietà mutualistica che è stata parte tanto importante nella storia sociale del nostro continente?Il sociologo tedesco Reiner Zoll, in un suo recente volume intitolato Solidarietà, affronta la metamorfosi della solidarietà classista operaia, tra uguali ed esclusi, verso nuove forme della solidarietà civile tra diversi e diseguali che si ispira ad un’etica di giustizia e a una cultura dei diritti.

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venerdì 12 giugno 2009

Politica e statistica, così è se ci pare


Numeri veri, numeri esagerati, numeri taroccati. Come si misura un Paese? Il mondo statistico dibatte, dopo l'ultima del premier sul sostegno ai disoccupati
Ma allora siamo meglio dei paesi scandinavi! Qualsiasi lavoratore che perda il lavoro in Italia riceve un aiuto dallo Stato pari addirittura all’80%, e se lo dice il primo ministro sarà pur vero! O forse avrà ragione la Banca di Italia denunciando il fatto che più di un milione e mezzo di lavoratori sono lasciati senza ammortizzatori?

La politica è entrata a gamba tesa sulla statistica. Si appropria di alcuni risultati rendendoli faziosi (si pensi ai salari in Italia che secondo alcuni sarebbero tra i più bassi dei paesi Ocse solo per via della tassazione), ne ignora deliberatamente altri (i dati sull’immigrazione e sulla sicurezza, per esempio) e infine alcuni li genera ex novo ad uso e consumo del momento mediatico (la cassa integrazione per i co.co.pro. appunto). Sono moltissime le condizioni che hanno portato al concretizzarsi di questa situazione. Si dovrebbe parlare del sistema informativo passivo e più spesso complice di una classe politica che approfitta del declino nel livello di educazione e fiducia politica della popolazione o del generale degrado politico-culturale, associato ad un preoccupante moltiplicarsi delle manifestazioni di intolleranza per il diverso, compreso chi la pensa diversamente (Putnam chiamerebbe tutto questo il lento erodersi del capitale sociale del paese). Ma c’è un fenomeno strettamente connesso a questo scenario che colpisce in maniera particolare il mondo della ricerca socio-economica, accademica e non: la mancanza di autorevolezza dei dati pubblicati dai principali istituti incaricati della produzione di statistiche ufficiali Isae, Istat, Isfol, più in generale tutto il Sistan (Sistema Statistico Nazionale, rete di soggetti pubblici e privati che fornisce l’informazione statistica ufficiale) ma anche, evidentemente, la Banca d’Italia. Si badi bene non è che la gente non si fidi di quei dati (di fatto quasi il 60 percento degli italiani ha fiducia dei dati prodotti a livello ufficiale – anche se rimane un 40 che non lo fa -, secondo i dati pubblicati su D’Urzo , M. Gamba, E. Giovannini, M. Malgarini, About the Progress of their Country What Do Italian Citizens Know) ma quei dati non hanno di fatto la forza, quando citati, di porre ordine alla crescente massa di informazione/disinformazione a cui siamo sottoposti. Una delle conseguenze che questa situazione porta con sé è una diffusa e crescente divergenza tra la percezione della realtà -letta, ascoltata e vista tramite i mezzi di informazione- e la realtà per come può essere descritta dalle statistiche. E' stato proprio questo il tema di un interessante dibattito che si è svolto durante una delle tavole rotonde organizzate nell’ambito della tradizionale conferenza Monitoring Italy. Il convegno, organizzato ogni due anni dall’Istituto di Studi e Analisi Economia Isae in collaborazione con l’Ocse, quest’anno si è concentrato sul tema della misurazione del progresso nella società italiana. Interrogandosi sulle origini della divergenza tra la percezione e la realtà il demografo Massimo Livi Bacci dell’Università di Firenze, Luca Paolazzi del Centro Studi Confindustria e Ignazio Visco della Banca d’Italia sono naturalmente incappati in questa triste e pericolosa realtà, a dire il vero non solo Italiana, in cui ogni numero può semplicemente essere messo in discussione. Non importa se prodotto da una fonte ufficiale. C’è dunque qualcosa che questi Istituti possono o devono fare? Una delle proposte più dibattute è stata quella sull’opportunità o meno che queste istituzioni, la cui indipendenza è stata ottenuta anche e soprattutto grazie ai calendari ufficiali, escano dai calendari stessi e intervengano più direttamente nel dibattito politico. Questa scelta, che permetterebbe forse di richiamare l’attenzione su dati ufficiali e legittimati dall’indipendenza degli istituti nazionali, rischierebbe però di metterne in crisi proprio l’indipendenza già fortemente a rischio in contesti, come quello europeo, in cui i governi vengono giudicati proprio alle luce di statistiche ufficiali (rapporto defici/PIL e inflazione sopra a tutti). La questione, di fatto, è rimasta aperta. Unico punto certo è il ruolo che stanno giocando in questa partita, e non solo, i mezzi di informazione, anche quelli più autorevoli, che si limitano a presentare tutto quello che succede nella scena politica come un semplice opporsi di opinioni divergenti ma altrettanto legittime, senza preoccuparsi, di verificare fonti e informazioni e soprattutto di fornirle al lettore/spettatore ascoltatore che sia. Non è forse un caso quindi che uno degli articoli più scaricati dal sito di sbilanciamoci.info nella scorsa settimana sia stato proprio quello in cui ci si limitava a pubblicare la tabella dei dati prodotti da Banca d’Italia sugli ammortizzatori sociali in Italia. Senza ulteriori commenti.

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martedì 9 giugno 2009

E' l'immigrazione, bellezza!

di Tito Boeri, da http://www.lavoce.info/
Un interessante ed attualissimo articolo sul fenomeno dell'immigrazione e sulle politiche reazionarie e socialdemocratiche europee in proposito. Cfr: http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001151.html

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mercoledì 3 giugno 2009

Qualche interrogativo sulla funzione e sulla gestione della Fondazione Manodori

di Renzo Bonazzi
3.6.09
In questa campagna elettorale é stato sollevato, ancora troppo marginalmente, qualche interrogativo sulla funzione e sulla gestione della Fondazione Manodori, anche in relazione al ruolo che, dal 2004, ha svolto ed ancora svolge uno dei candidati alla carica di sindaco, Antonella Spaggiari, (nessuno, altrimenti, ne avrebbe parlato).

Meglio di niente, perché una seria discussione su questi argomenti, in campagne elettorali e non, non si é mai fatta da quando, nel 1991, la fondazione é stata istituita.
La Fondazione Monodori, per i mezzi di cui dispone, é il più importante ente che operi nella nostra provincia nel privato sociale, con il compito di perseguire “..esclusivamente scopi di utilità sociale e di promozione della sviluppo economico”.
Il suo patrimonio é stato formato, in più di un secolo, dai risparmi della nostra comunità provinciale; il comune, la provincia e la Camera di commercio di Reggio, sono i suoi soci di riferimento, poiché designano sei dei dieci membri del consiglio generale, che a loro volta dovranno cooptare altri tre membri scelti tra “...personalità di chiara ed indiscussa fama” (d.m. 18-5-2004 n.150).
Per questo, il suo funzionamento, i suoi programmi avrebbero dovuto essere uno degli argomenti principali affrontati dai candidati in competizione, parallelamente ed in relazione a quelli dei programmi dei comuni e della provincia,.
Giustamente, ormai alla vigilia delle votazioni, Franco Colosimo ha ricordato che il Consiglio comunale di Reggio, con un ordine del giorno approvato il 23 luglio 2002, aveva richiesto di riformare lo statuto della fondazione e differenziare gli investimenti e gli interventi.
A questo punto, anche in considerazione del rinnovo in corso del consiglio generale della fondazione, credo che sia necessario chiedere a tutti i candidati di impegnarsi a proporre, nei nuovi consigli comunali e consiglio provinciale, di promuovere un ampio, approfondito confronto, ed, eventualmente, un pubblico convegno sulla Fondazione Manodori, in modo che le comunità interessate siano informate, possano esprimere un giudizio ed indicare gli indirizzi più corrispondenti ai loro interessi in materia di struttura statutaria, gestione del patrimonio e degli interventi.
Renzo Bonazzi

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martedì 19 maggio 2009

DA CHE PARTE STARE - appello per la manifestazione nazionale dei migranti del 23 Maggio a Milano

Appello per la manifestazione nazionale dei migranti del 23 maggio a Milano.
(per aderire: da.che.parte.stare@gmail.com )

La crisi colpisce duro, la crisi colpisce tutti: donne e uomini,italiani e migranti. Eppure, per rispondere alla crisi, il governoproduce e sancisce differenze. È razzismo istituzionale: la leggeBossi-Fini e il “pacchetto sicurezza” inseguono il sogno di una forzalavoro usa e getta, vogliono ridurre i migranti e le migranti allaperenne espellibilità. Tutti i lavoratori e le lavoratrici in cassaintegrazione, sospesi dal lavoro e licenziati vedono ogni progetto divita frantumarsi di fronte ai loro occhi. Tra i lavoratori, i precaricon contratti a termine e senza garanzie sono messi alla porta perprimi. Tra i lavoratori, i migranti vivono una doppia precarietà,sanno che il permesso di soggiorno non sarà rinnovato, laclandestinità è una minaccia più vicina, l’espulsione una possibilitàsempre presente. Per questo è ora di scegliere DA CHE PARTE STARE.

Il razzismo istituzionale colpisce duro: il Governo Berlusconi, con laLega Nord in prima fila e buona parte dei media, hanno dato il via aduna campagna di odio che si indirizza prevalentemente contro i“clandestini” ma criminalizza tutti i migranti giustificando il lorosfruttamento. La proposta di un “contributo” per il rinnovo deipermessi – che si aggiunge al furto dei contributi previdenziali epensionistici che non possono essere ritirati – mostra che il salariodei migranti è considerato risorsa sempre disponibile. Si tratta didenaro che, con quello di tutti i lavoratori, pagherà nuovi Centri diidentificazione ed espulsione. E mentre il razzismo istituzionale silegittima sul corpo delle donne facendo strada a ronde e linciaggipopolari, la violenza continua nelle case, i tagli alla scuola e alwelfare pretendono di rinchiudere tutte le donne tra le muradomestiche, riservando alle migranti solo un posto da “badanti”. Perquesto è ora di scegliere DA CHE PARTE STARE.La crisi mostra spietatamente che lo sfruttamento non conoscedifferenze: tutti hanno mutui e affitti da pagare, l’incubo del giornodopo. Il razzismo istituzionale impedisce però ai migranti di sperarepersino nelle già povere “misure anticrisi”. Ammortizzatori sociali,piani edilizi, bonus bebè non li riguardano: devono solo pagare, efarlo in silenzio. L’abolizione del divieto di denunciare i migrantiirregolari che si rivolgono alle strutture sanitarie è l’espressionepiù meschina di una strategia che vuole produrre una clandestinitàpolitica oltre che legale. Impedire di certificare la nascita deifigli e delle figlie dei migranti senza documenti pone un’ipotecasulle prossime generazioni. Per questo è ora di scegliere DA CHE PARTESTARE.Contro i colpi duri della crisi e del razzismo istituzionale, larisposta deve essere altrettanto forte. È ora di scegliere DA CHEPARTE STARE, e tutti e tutte siamo chiamati in causa. Leorganizzazioni autonome dei migranti, che in questi anni hanno tenutoalta la lotta contro la legge Bossi-Fini, le associazioni e imovimenti antirazzisti, i sindacati, tutti siamo tenuti a schierarcicontro questa politica del razzismo. Fino a quando i migranti sarannoesposti al ricatto, tutti saranno più ricattabili. È tempo diritessere il filo della solidarietà, di avviare in ogni territorio unanuova grande azione concreta di lotta capace di opporsi a un attaccoalle condizioni di vita che colpisce prima di tutto i migranti, ma nonsolo i migranti.È ORA DI STARE DALLA PARTE DEI MIGRANTI E DELLE MIGRANTI. Per questo,facciamo appello a tutti i lavoratori, le lavoratrici, gli studenti ele studentesse, le associazioni e i sindacati, affinché siano parte diquesta lotta. Con questo appello inizia il percorso per unamobilitazione che arrivi a una grande manifestazione nazionale il 23maggio a Milano, una città del nord dove più evidenti sono lecaratteristiche dell’offensiva del razzismo istituzionale e piùmarcati gli effetti della crisi. Affinché gli effetti della leggeBossi-Fini non amplifichino quelli della crisi, NOI CHIEDIAMO:- che i permessi di soggiorno siano congelati in caso dilicenziamento, cassa integrazione, mobilità, sospensione dal lavoro;- che i migranti, così come tutti quei lavoratori che non usufruisconodi ammortizzatori, partecipino alla pari di ogni altro lavoratore aogni misura di sostegno e vedano salvaguardati i contributi che hannoversato;- che i migranti e tutti i lavoratori possano rinegoziare i loro mutuiin caso di perdita del lavoro; il blocco degli sfratti per tutti ilavoratori e le lavoratrici nella stessa condizione, perché sappiamoche un migrante senza contratto di locazione è un lavoratoreclandestino;- il mantenimento del divieto di denuncia dei migranti senza documentiche si rivolgono alle strutture sanitarie e della possibilità diregistrare la nascita dei loro figli;- il ritiro della proposta di un permesso di soggiorno a punti e diqualunque tipo di “contributo” economico, sia esso di 80 o di 200 €,per le pratiche di rinnovo dei permessi.- il blocco della costruzione di nuovi centri di identificazione edespulsione, l’utilizzo dei fondi stanziati per iniziative a favore ditutti i lavoratori colpiti dalla crisi, la cancellazione di ogni normache preveda l’allungamento dei tempi di detenzione, la chiusura deiCIE.- la garanzia di accesso al diritto d’asilo e il blocco immediato deirespingimenti alla frontiera in attesa della promulgazione di unalegge organica in materia.Coordinamento immigrati BresciaCoordinamento migranti Bologna e provinciaRete migranti TorinoMayDay MilanoImpronte – Rete per la libertà di movimento RomaRete 28 aprileAssociazione Città migrante – Reggio EmiliaCoordinamento migranti FIOM-CGIL – ParmaCoordinamento lavoratori immigrati CGIL – Reggio EmiliaCoordinamento immigrati CGIL – BresciaCoordinamento migranti FIOM-CGIL - BolognaAssociazione diritti per tutti – BresciaSportello Illegale CSOA Gabrio – TorinoCittadinanza globale – VeronaCoordinamento migranti basso mantovanoSinistra critica - movimento per la sinistra anticapitalistaLaboratorio femminista Kebedech SeyoumCSOA Casaloca – MilanoCoordinamento Nord sud del mondoAssociazione culturale "Carlo Giuliani" - San lazzaro - Ozzano (BO)Comitato di solidarietà con profughi e migranti – TorinoAsociación Real Juvenil – MilanoCase di Plastica – MilanoAssocafé (Asociación Cultura Arte Fuerza al Exterior) – MilanoAssociazione Antigone – Milano Città ApertaSinistra Critica – MilanoRete Antirazzista CampanaCoordinamento Immigrati BergamoLavoratori migranti FIOM - BergamoRete Antirazzista CataneseCUBCoordinamento migranti VeronaLe radici e le ali ONLUS – MilanoCartaAgenzia per la Pace –Valtellina,Valchiavenna e Alto LarioRete Milano Città ApertaAss.ne Todo Cambia – MilanoCoordinamento Nazionale Migranti FIOMSinistra critica CalabriaSinistra critica FirenzeIl Coordinamento lavoratori della Scuola "3 ottobre"Cobas Scuola – CosenzaAssociazione Arcobaleno insieme senza frontiere – SondrioAssociazione I Rom per il futuro – TorinoSdL intercategorialeCsa Magazzino 47 – BresciaSinistra critica – MantovaScuola Popolare Migranti – Cologno MonzesePartito della rifondazione comunista Sinistra EuropeaPartito della rifondazione comunista LombardiaPartito della rifondazione comunista - Federazione di MilanoAssociazione ALFABETI Onlus – quartiere S. Siro MilanoRete italiana di solidarietà con il popolo kurdo – MilanoComunità kurda – MilanoL'Alternativa – San Paolo d'Argon (Bg)Rete nazionale sicurezza sul lavoro – RavennaAssociazione culturale Umoja – ParmaCISDA FVG – sportello operativo Coordinamento Italiano Sostegno DonneAfgane – TriesteUSIAIT – Lavoratrici e lavoratori anarchiciCasa editrice agenzia XCoordinamento donne contro il razzismoUnione Migranti SondrioCoordinamento Rifugiati e Migranti di AmnestyNAGA – MilanoCentro Interculturale Donne Native-Migranti Trama Di Terre – ImolaAssociazione Interculturale Dawa – ModenaCantiere - MilanoComitato per non dimenticare Abba e per fermare il razzismoComitato in supporto dei rifugiati di MilanoAttac – NapoliAssociazione Ambulatorio Medico Popolare di Via dei Transiti 28 – MilanoAttac ItaliaCoordinamento Attac – MilanoLaboratorio sociale "la città di sotto" – BiellaAssociazione Itaca – CorsicoConfederazione Cobas – TorinoCollettivo Climax – MilanoAssociazione vittime ed ex vittime della tratta del Progetto laragazza di Benin CityNetwork antagonista torineseRadio Ciroma – CosenzaCentro delle Culture MilanoTerre Libere – Lista per la Provincia di BolognaArea programmatica Lavoro Società - CGIL nazionaleComunità Carlo del PreteGiovani Comunisti – MilanoRete 25 aprile- partigiani in ogni quartiereAssolei Sportello donna Onlus – RomaXM24 – BolognaAssociazione Mosaico InterculturaleAssociazione Senegalese "SUNUGAL" – VeneziaCasa di Mattoni – FermoUn ponte per…Attac PerugiaCascina Autogestita Torchiera Senz'AcquaAssociazione Famigliari e Amici di Fausto e IaioAssemblea Permanente NO F-35Circolo Prc Francesco Vella – PalermoCircolo Migranti “Amal”- Prc GenovaANPI – Cassano d'AddaPartito d’Alternativa ComunistaVag 61 – BolognaCollettivo La Rosa Bianca – RozzanoAssociazione Fulbè – BergamoSOKOS - Associazione per l'assistenza a emarginati e immigrati – BolognaCollettivo femminista figlie femmine – BolognaConsultoria Autogestita – BolognaComitato antifascista della zona 8 di MilanoCoordinamento stranieri – VicenzaAltra Città Lista Civica di Donne BolognaComitato Intercomunale per la Pace del MagentinoEmergencyRete Scuole Senza Permesso – MilanoScuola d'italiano per stranieri – BaobabRivista "Guerre&Pace"Coordinamento Diversi Uguali – ArezzoSinistra Critica – VeronaAssociazione Cittadini senza Confini - Certaldo (FI)ANPI – CataniaPartito dei Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo MilanoPIAM ONLUS - Progetto Integrazione Accoglienza Migranti – AstiProletaria comunicazione militanteGruppo Migranti della Seconda Casa di Reclusione Milano-BollateAssociazione Culturale "L'Officina del Futuro" - LodiCoordinamento Vittime della Globalizzazione – LodiCentro Occupato Autogestito T28 – via dei Transiti 28 MilanoCollettivo “Prendiamo la Parola" – MilanoANPI – TrevisoComitato No Expo - Milano
Gruppo Prometeo, Facoltà di medicina e chirugia - BolognaADESIONI INDIVIDUALIRoberto Vassallo – RSU FIOM – Almaviva finance – MilanoAntonello Tiddia - RSU Carbosulcis rete 28 aprile CGILGuerrino Donegà – Resp. Dipartimento Politiche Sociali e ImmigrazioneCGIL - LECCOVincenza Perilli – BolognaSilvio Messinetti (Avvocato)Davide Colace – CosenzaSandra Cangemi (Giornalista) – MilanoAntonio FusaroAlessio TenagliaMaddalena CelanoBruno AmbrosiChiara Dall’AstaAlma Masè – TriesteSimona ValmoriIssa Diallo – VeronaThiam Mbaye NIANG – VeneziaLuciano MuhlbauerUmberto BardellaStefano G.Ingala (Responsabile cittadini Immigrati PRC Biella)Marco Sansoé - Laboratorio sociale "la città di sotto", BiellaRiccardo Casolo (medico)Cristina Liverani - Sindacalista CGIL E.R.Igor Gianoncelli - segretario FILLEA CGIL SondrioMassimiliano Piacentini – LuccaAnnamaria Rivera (antropologa e attivista antirazzista)Giovanni Ozino Caligaris (Candidato per Candelo Democratica Lista Aperta)Eugenio Viceconte - RomaAnnalisa Frisina (ricercatrice sociologia, Università di Padova)Carlo Olivieri (medico umanista)Devi Sacchetto (ricercatore, Università di Padova)Francesca Vianello (ricercatrice, Università di Padova)Giorgia MoreraSusanna MagistrettiAnna ViolaCatia BianchiMarco Fabio Fachini - Responsabile Ufficio Immigrazione CGIL SondrioFranco Cilenti – direttore Periodico "Lavoro e Salute" TorinoFranco Fortunato (architetto, Biella)Marina Pensa – Segretaria CGIL SondrioCasadra Cristea - Bologna

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venerdì 8 maggio 2009

mercoledì 6 maggio 2009

Organici nella scuola reggiana

FLC della CGIL reggiana: COMUNICATO STAMPA del 6.5.09
In questi giorni in tutte le province l'amministrazione sta convocando i sindacati per fornire il quadro dettagliato delle ricadute dei tagli previsti dai provvedimenti del governo, tagli che si confermano drammatici per tutti gli ordini di scuola.
La dotazione organica del personale docente per il 2009-2010 assegnata dal MIUR all'Emilia Romagna conferma che anche nella nostra regione siamo di fronte, di fatto, ad una riduzione dell'offerta formativa e ad una contrazione del tempo scuola, con un pesantissimo taglio complessivo di 1637 posti comuni: 265 insegnanti in meno per la scuola primaria; 369 insegnanti in meno per la secondaria di I grado (un ulteriore taglio è previsto in un secondo momento); 427 insegnanti in meno nella secondaria di II grado.

E questo a fronte di un aumento della popolazione scolastica di almeno 7000 alunni previsto per l'anno prossimo! Situazione che richiederebbe una dotazione organica aggiuntiva di circa 800 posti in più solo per mantenere la situazione esistente. Si sottolinea che con queste scelte la media degli alunni per classe nella nostra regione salirà a più di 22 alunni, di gran lunga la media più alta a livello nazionale!
Per quanto riguarda la scuola dell'infanzia la proposta è quella di consolidare l'organico dello scorso anno; i problemi, dunque, riguardano la possibilità di costituzione di nuove sezioni.
Per la scuola primaria, pur considerando criteri e parametri oggettivi di suddivisione tra le province, i conti non tornano perchè “la coperta è stretta”!
Nessuna provincia viene risparmiata, ma Reggio Emilia è quella, nei fatti, più penalizzata: meno 61 posti normali nella scuola primaria! Questo perchè, oltre ai punti fermi degli organici di lingua ed educazione agli adulti, si è dovuto garantire l'organico per le classi a tempo pieno attualmente funzionanti, di conseguenza ne risentono i territori dove il tempo pieno è meno diffuso( a Reggio Emilia copre il 25% dell'offerta formativa, mentre a Modena e a Bologna oltrepassa il 70%).
L'Ufficio Scolastico Provinciale ha fatto quanto poteva sulla base delle dotazioni organiche assegnate, garantendo a tutti almeno la quantità oraria di tempo- scuola richiesto dalle famiglie.
Ciononostante è evidente che i tagli di risorse e l'eliminazione delle compresenze incideranno negativamente sulla qualità dell'apprendimento e sarà necessaria, in molte scuole, una rimodulazione complessiva dell'organizzazione didattica per rispondere ai bisogni assistenziali, peraltro sempre crescenti, piuttosto che ad un progetto pedagogico-didattico di qualità.
A completare il quadro si aggiungeranno i tagli del personale ATA, non ancora quantificati ufficialmente a livello provinciale (stimabili attorno alle 100 unità a Reggio Emilia). Tagli che, per certe scuole, metteranno in seria discussione la qualità del servizio ordinario (accoglienza, vigilanza, supporto agli alunni diversamente abili...).
E non va dimenticato che, nel travaglio dell'attuale crisi economica, la maggior parte di questi tagli corrisponderà al licenziamento di persone che da anni lavoravano nella scuola, con supplenze annuali.
La Flc-CGIL ribadisce i seguenti obiettivi, che restano al centro dell'iniziativa sindacale:
-garantire una scuola pubblica di qualità che risponda alle domande delle famiglie ed ai bisogni formativi degli studenti;
-risolvere finalmente il problema del precariato, garantendo continuità all'azione didattico-educativa.
Su questi obiettivi si chiede la mobilitazione non solo del personale della scuola e dei genitori, ma anche di tutte le forze sociali interessate allo sviluppo del Paese.
Si richiede inoltre un intervento forte e puntuale delle forze politiche e degli Enti Locali che non possono dirsi estranei alle sorti della scuola statale, che tanta parte è dello sviluppo democratico e sociale del nostro territorio.

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