Commento a Il coraggio di finire delle donne del mercoledì di Roma.
di Clelia Mori
Mi attrae la riflessione delle donne romane del mercoledì sul “coraggio di finire”, appena discusso a Roma alla Casa internazionale delle donne e a cui non sono potuta andare, e mi spiace il silenzio che c’è su questo documento in rete. Mi attrae perché è di donne non qualsiasi e quello che dicono queste donne è sempre interessante per me. Sono di parte, devo ammetterlo, anche se non fino in fondo, perché credo che nell’uomo ci siano giacimenti d’altro, sconosciuti anche a lui, nascosti da secolari incrostazioni di modulazione della forza. Riconosco, infatti, che c’è anche in lui un’ intelligenza altra che usano in pochi, ma che quando c’è affascina.
Comunque il mio essere di parte è una questione che nasce dal fatto che trovo un sguardo davvero differente nelle loro riflessioni, uno sguardo inaspettato che mi apre spiragli sconosciuti che non noto quasi più in quelle pubbliche maschili; ormai troppo uguali a sempre e senza un qualche fascino che meriti l’accensione di una passione, meno che mai partitica.
E’ ardita la riflessione femminile ne Il coraggio di finire, come discutendone con qualcuno ho sentito dire. Mettere insieme morte e fine della vita e della politica e inizio è un bell’azzardo che forse proprio chi non condivide nulla nel potere dei partiti, come le donne che cercano un’autonomia di pensiero, può immaginare con la forza del desiderio e della conservazione della propria libertà. E non è quella richiesta per stare in un partito e, tra l’altro, credo che il documento sia proprio la sintesi di quello che ci sta accadendo intorno.
Dovranno sostenerla questa idea, le donne che l’hanno partorita, sarà attaccata e o ignorata come d’abitudine, ma non si può dire che non guardi l’argomento della fine e dell’inizio con uno sguincio altro, mettendo al centro il corpo e la sua indicibilità pubblica, per quello che è.
Mette davvero insieme vita pratica, privata, regole e vita pubblica relazionandole. E’ la politica che credo dovremmo cercare di fare per non sterilizzare o banalizzare la vita, come accade invece a quella maschile di oggi, quella democrazia della relazione che nel testo si auspica.
Ci sono molte riflessioni e molte provocazioni nel doc, ma quella che mi intriga di più è l’idea dell’accettare la fine, fare i conti con lei, per quello che scompare e rimane, per poter tornare a ri- iniziare. Credo sia un corno importante del discorso, un modo e un mondo che tutt* abbiamo attraversato e che tutt* conosciamo, ma in modo differente.
E siccome si parla di come accettare la morte come fine del corpo e della politica quando avviene e non di rimuoverla, pensandoci, mi viene in mente anche il tempo della fine e dell’inizio per le donne, non solo nel distacco della morte, ma nel tempo della nascita, della gravidanza e del parto e il loro accettare il lavoro del tempo, cosa a cui gli uomini non vengono mai costretti dal loro corpo.
E’ una fine anche quella del nascere, per un nuovo inizio. Una fine che ha una sospensione di 9 mesi per poter veder nascere il nuovo e una sua transizione di almeno 20 anni, e un bisogno di costruirgli intorno una rete di relazioni vere, umane che non sono solo “agenzie” educative, sanitarie, politiche ecc..
Finisce una storia di singolarità per la donna ed inizia una sua storia parallela con la madre che diventa.
L’andirivieni tra le due storie per la donna è costante e ne deve prendere coscienza, così come del tentativo esterno di bloccarla nel nuovo ruolo. Le donne comunque sanno che questo andirivieni, che sono costrette a mettere in piedi, deve tenere in relazione il prima e il dopo senza rimpianti, con la coscienza di essere, dopo la maternità entrambe le figure, donna e madre, e quindi differenti da prima e sanno che, per stare in piedi, lo devono cogliere molto presto.
Forse è questo differente modo di iniziare e finire delle donne, nel corso della loro vita, che l’uomo non può vedere o non vede o vede meno o non sa vedere e forse non conosce se non in un tempo molto lungo nell’arco della sua vita. Saggezza neutralmente viene chiamata, ma forse sarebbe meglio sessuarla, questa parola.
Se finisce l’epoca della singolarità e della corrispondenza a sé anche per l’uomo nel fare pubblico, un’altra epoca dovrebbe cominciare, come accade alle donne con il far nascere, in un dialogo continuo che non dimentica il prima ma non è più lui, per sempre, pur se lui è anche quello di prima. Ma non è così, come ben nota il doc. Sembra sia difficile per l’uomo accettare il cammino del tempo, prima, durante e dopo e l’andirivieni che comporta starci in mezzo..
E’ questa probabile incapacità maschile a capire le modificazioni ineluttabili che ci troviamo davanti che non gli e ci permette di cogliere che una fine è avvenuta e che si tratta di fare spazio perché altro sta nascendo? E’ questo fare spazio che manca troppo spesso nel desiderio di ri-cominciare perché non gli viene dato il tempo di costruirsi per nascere?
Non c’è probabilmente la disponibilità fisica maschile a modificarsi, come accade con la gravidanza per le donne, e lo spazio, da occupare con un nuovo che arriva, non nasce. E’ uno spazio forse che bisogna trovare dentro perché possa nascere anche fuori. E’ lo spazio del mettersi da parte come donna quando stai diventando madre che modifica per sempre l’essere donna che sei, diventando un’altra donna.
Bisogna saper far nascere, darsi il tempo che occorre, altrimenti si abortisce.
E’ uno spazio tempo diverso che bisogna cercare, dentro e fuori per le donne, ma per gli uomini?
Perché le donne parlano della fine come se gli uomini non sapessero riconoscerla?
E se gli uomini non sanno riconoscere la fine, allora, non sanno neppure riconoscere gli inizi o cosa vuol dire per loro inizio?
Significa la stessa cosa, per uomini e donne, inizio e fine o c’è tra loro un’idea diversa e, se c’è, dov’è la differenza tra noi e loro e come affrontarla, se riusciamo a nominarla, e prima ancora a trovarla?
Se per loro non finisce mai davvero e si ripropongono sempre con strutture nuove e uguali a quelle vecchie, oltre a non voler perdere potere, che non è poco, cos’altro di loro è legato all’impossibilità di esistere senza potere?
Un bisogno di onnipotenza, un bisogno di coprire vuoti incolmabili, un non sapere stare nel mondo in altro modo se non comandando o non volerlo fare in altro modo o non anche un non saperlo fare?
E’il loro non dare struttura alla vita per 9 mesi, che contiene sempre anche il dare contemporaneamente la morte per le donne col dare la nascita, che gli impedisce una relazione naturale con l’inizio e la fine e col tempo; un riconoscerne magari una parte ma il non riuscire ad andare oltre nel vedere il tutto?
O il loro è un non saper morire perchè se ne va il loro essere assoluto, non avendo prodotto vita col corpo o la loro parte nel dare la vita è così momentanea, da fargli pensare che un atto di volontà momentanea basti per azzerare e finire e poter poi ri-cominciare con un nuovo inizio?
Non so rispondere fino in fondo a tutte queste domande che mi pongo, soprattutto se parlo di uomini, ma trovo interessante il parlare di corpi e del corpo che sono l’oggetto del pensiero, del bisogno e della politica. E siccome i corpi sono due è per questo che, dopo la lettura del doc, ho spontaneamente pensato al percorso femminile della nascita per cercare di capire qualcosa su come iniziare o far nascere qualche altra cosa. Si dice partire da sé…e il tempo è la cosa che maggiormente usano le donne, ma gli uomini non lo usano allo stesso modo.
Sono corpi quelli con cui ci troviamo a ragionare e teste e desideri differenti. Questo pensare il corpo, l’inizio e la fine uguali per entrambi i corpi sessuati, può rendere i pensieri sulla fine e sugli inizi autistici, non comunicanti e divaricanti. Per questo mi sono spinta a pensare sui due differenti corpi sessuati e i due differenti modi di sentire il tempo.
Persino lo “scandalo” del divorzio annunciato da Veronica e la critica di Fini che il centrodestra ha portato avanti sul 90.60.90 e la tre giorni di corso accelerato per “governare” l’Europa contiene il rimosso dell’incapacità e della finzione del nuovo nel politico maschile, su di sé e sulle donne. Vale però anche per il centrosinistra, che non ha mai voluto accettare e vedere fino in fondo un mondo altro femminile, che esiste comunque, per non indebolire il potere dei corpi dei suoi uomini.
Ora, però, paga con moneta sonante la sua impermeabilità alla dignità e alla differenza delle donne. L’idea berlusconiana del femminile, ha danneggiato non solo le donne ma anche gli uomini.
Non aver contribuito a promuovere un ‘idea altra di donna è costato a tutta l’Italia una regressione e più alla sinistra che alla destra.
E un altro modello di libertà, alternativo, con le donne l’avevamo da proporre alla politica e alla sua attuale adulazione del capo che ha colpito, con sfumature diverse, persino il centrosinistra e il fare opposizione.
C’è un mondo che resiste a quello berlusconiano e le donne lo sanno qual è, perché il modello che propone lo conoscono da millenni e da molto gli va stretto. Ma non lo sanno moltissimi uomini della politica e della sinistra anche quando pensano al nuovo.
Clelia Mori
mercoledì 3 giugno 2009
Lettera aperta alle donne del mercoledì
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