di Paolo Cacciari, da Il Manifesto
Chi più, chi meno, ognuno di noi è geloso delle proprie appartenenze, è affezionato alla propria storia politica, al fondo, è convinto di avere la soluzione in tasca. Molto del nostro tempo lo spendiamo cercando di convincerci a vicenda. Siamo arrivati al punto di preferire la sconfitta certa comune piuttosto che correre il rischio di vedere vincere l'altro. Non è bello ma bisogna capirne i motivi. Altrimenti anche i più genuini e generosi appelli all'unità, i vari e ripetuti tentativi di associazione e federazione sono destinati a rimanere vox clamantis in deserto.
Bisogna ammettere che le differenze trovano ragione in culture e visioni diverse, spesso molto diverse. I comunismi sono stati e saranno sempre molti. Gli antagonismi anticapitalisti sono ancora più numerosi. Come fare a stabilire qual è quello «giusto», più efficace e vincente? Il nostro o il loro? È evidente che così non se ne va fuori. Anche il più modesto risultato elettorale, il più striminzito sciopero, il più malriuscito corteo, il meno diffuso giornale... potrà essere rivendicato come «un buon inizio».
La nostra generazione politica (diciamo quella che si è formata tra il '68 e il '77) è prigioniera di una cultura politica competitiva e aggressiva, che pretende di «egemonizzare» chiunque esprima visioni differenti dalle nostre. Contrariamente a quanto predichiamo in pubblico (una società di liberi ed eguali) applichiamo acriticamente al nostro interno i metodi peggiori che abbiamo imparato vivendo nella società borghese: tra questi il «principio di maggioranza». Ma poiché (come giustamente spiegava Bakunin) le decisioni non possono che valere per chi le prende, alle minoranze non è data altra alternativa che ubbidire o allontanarsi. Da qui la straordinaria propensione alla scissione delle formazioni politiche di sinistra. Per di più, come ci insegnano gli scienziati dell'organizzazione, esiste un principio di sopravvivenza che trasforma i «gruppi dirigenti», anche della più piccola e scalcinata organizzazione, in una oligarchia.
Noi, gente di sinistra, non possiamo avere altri legami e motivi di stare assieme se non la condivisione di idee. Per Ekkehart Krippendorff: «Il movente originario della sinistra sta in una ribellione morale». Quindi, un processo di compresenze, convergenze e accumunamento tra diverse soggettività antagoniste, spiriti critici, coscienze dotate di spirito di giustizia... o come altro preferiamo chiamarci, avviene per catarsi esterna sotto la forza di un attrattore ordinatore generale (il comparire di un soggetto rivoluzionario in sé e per sé, l'esplodere della contraddizione principale, l'affermazione di un modello di ordinamento sociale assunto come guida), ma non è questo il nostro caso storico, oppure bisogna cercare dei sistemi di collaborazione, di mutualità, di reciproco appoggio utili a tutti e a ciascuno. Per questo le regole (vedi proposte di Marcon e Pianta, formulate prima e dopo le elezioni) assumono un valore decisivo.
Del resto, come diceva già quel vecchio seminudo all'arcolaio, tra mezzi e fini esiste la stessa connessione inviolabile che vi è tra il seme e la pianta. Penso ad un agire insieme per campagne di iniziative (quelle elettorali sono solo alcune tra le altre) su piattaforme elaborate con modalità partecipate, con auditing e convention pubbliche, con l'uso di delegati sempre revocabili ma titolari di una propria inalienabile libertà di coscienza. Penso ad un sistema di connessioni, collaborazioni, coordinamenti multidimensionali che costituiscono spazi pubblici e forme organizzate stabili dell'agire politico. Penso alla fine di ogni separazione tra lavoro sociale e lavoro di rappresentanza. Non un «incontro a metà strada» e più che un «intreccio» tra pratiche sociali e rappresentanze, tra spontaneità insorgente e mediazione politica, ma una forma di autoriconoscimento e autodeterminazione di soggetti capaci assieme di conflitto e di contrattazione, capaci di «fare società» perché sanno districarsi tra le istituzioni e capaci di «fare politica» perché sono parti di società.
Questa nuovo «organismo» lo chiameremo ancora partito (anche se variamente aggettivato: politico, sociale, di massa, cartello elettorale, federazione, ecc.) o in qualche altro modo? Non nascondo che se riuscissimo a distinguerlo dagli altri e da tutti quelli che ci sono stati fino ad oggi anche nel nome, oltre che nei modi d'essere e nelle modalità di funzionamento, sarebbe già un gran bel passo avanti.
Chi più, chi meno, ognuno di noi è geloso delle proprie appartenenze, è affezionato alla propria storia politica, al fondo, è convinto di avere la soluzione in tasca. Molto del nostro tempo lo spendiamo cercando di convincerci a vicenda. Siamo arrivati al punto di preferire la sconfitta certa comune piuttosto che correre il rischio di vedere vincere l'altro. Non è bello ma bisogna capirne i motivi. Altrimenti anche i più genuini e generosi appelli all'unità, i vari e ripetuti tentativi di associazione e federazione sono destinati a rimanere vox clamantis in deserto.
Bisogna ammettere che le differenze trovano ragione in culture e visioni diverse, spesso molto diverse. I comunismi sono stati e saranno sempre molti. Gli antagonismi anticapitalisti sono ancora più numerosi. Come fare a stabilire qual è quello «giusto», più efficace e vincente? Il nostro o il loro? È evidente che così non se ne va fuori. Anche il più modesto risultato elettorale, il più striminzito sciopero, il più malriuscito corteo, il meno diffuso giornale... potrà essere rivendicato come «un buon inizio».
La nostra generazione politica (diciamo quella che si è formata tra il '68 e il '77) è prigioniera di una cultura politica competitiva e aggressiva, che pretende di «egemonizzare» chiunque esprima visioni differenti dalle nostre. Contrariamente a quanto predichiamo in pubblico (una società di liberi ed eguali) applichiamo acriticamente al nostro interno i metodi peggiori che abbiamo imparato vivendo nella società borghese: tra questi il «principio di maggioranza». Ma poiché (come giustamente spiegava Bakunin) le decisioni non possono che valere per chi le prende, alle minoranze non è data altra alternativa che ubbidire o allontanarsi. Da qui la straordinaria propensione alla scissione delle formazioni politiche di sinistra. Per di più, come ci insegnano gli scienziati dell'organizzazione, esiste un principio di sopravvivenza che trasforma i «gruppi dirigenti», anche della più piccola e scalcinata organizzazione, in una oligarchia.
Noi, gente di sinistra, non possiamo avere altri legami e motivi di stare assieme se non la condivisione di idee. Per Ekkehart Krippendorff: «Il movente originario della sinistra sta in una ribellione morale». Quindi, un processo di compresenze, convergenze e accumunamento tra diverse soggettività antagoniste, spiriti critici, coscienze dotate di spirito di giustizia... o come altro preferiamo chiamarci, avviene per catarsi esterna sotto la forza di un attrattore ordinatore generale (il comparire di un soggetto rivoluzionario in sé e per sé, l'esplodere della contraddizione principale, l'affermazione di un modello di ordinamento sociale assunto come guida), ma non è questo il nostro caso storico, oppure bisogna cercare dei sistemi di collaborazione, di mutualità, di reciproco appoggio utili a tutti e a ciascuno. Per questo le regole (vedi proposte di Marcon e Pianta, formulate prima e dopo le elezioni) assumono un valore decisivo.
Del resto, come diceva già quel vecchio seminudo all'arcolaio, tra mezzi e fini esiste la stessa connessione inviolabile che vi è tra il seme e la pianta. Penso ad un agire insieme per campagne di iniziative (quelle elettorali sono solo alcune tra le altre) su piattaforme elaborate con modalità partecipate, con auditing e convention pubbliche, con l'uso di delegati sempre revocabili ma titolari di una propria inalienabile libertà di coscienza. Penso ad un sistema di connessioni, collaborazioni, coordinamenti multidimensionali che costituiscono spazi pubblici e forme organizzate stabili dell'agire politico. Penso alla fine di ogni separazione tra lavoro sociale e lavoro di rappresentanza. Non un «incontro a metà strada» e più che un «intreccio» tra pratiche sociali e rappresentanze, tra spontaneità insorgente e mediazione politica, ma una forma di autoriconoscimento e autodeterminazione di soggetti capaci assieme di conflitto e di contrattazione, capaci di «fare società» perché sanno districarsi tra le istituzioni e capaci di «fare politica» perché sono parti di società.
Questa nuovo «organismo» lo chiameremo ancora partito (anche se variamente aggettivato: politico, sociale, di massa, cartello elettorale, federazione, ecc.) o in qualche altro modo? Non nascondo che se riuscissimo a distinguerlo dagli altri e da tutti quelli che ci sono stati fino ad oggi anche nel nome, oltre che nei modi d'essere e nelle modalità di funzionamento, sarebbe già un gran bel passo avanti.