di Elisabetta Abrosi, da L'Unità on line
Il silenzio delle donne? Colpisce e ferisce. Ma ad essere silenti non sono solo le donne: anche i giovani, e in generale tutta la società civile. Per questo, per capire perché le donne non si indignano bisogna capire perché noi tutti non ci indigniamo più».
Simona Argentieri, psicoanalista, docente dell’Associazione italiana di psicoanalisi e attenta osservatrice delle patologie a cavallo tra individuo e società, interviene nel dibattito aperto da Nadia Urbinati e continuato da Lidia Ravera, ma ripete che il vero problema è il generale spegnersi del dissenso, sia sul piano privato che su quello sociale e politico.
«Il fatto è che la protesta costa, come il tentativo di restare coerenti con le proprie idee. Protestare significa inoltre configgere, mentre oggi non sopportiamo più né la sofferenza né il conflitto. Così, le passioni forti si attenuano, e quindi anche i più beceri fatti di cronaca non ci fanno indignare».
Come si è persa la capacità di indignazione?
«Il dissenso non è scomparso dalla mente delle persone. Purtroppo, si è esaurita la spinta propulsiva al cambiamento, perché le persone hanno perso fiducia nel fatto che il loro agire possa produrre un mutamento. Ma il cambiamento può venire unicamente da noi. E l’assuefazione a cose sempre più degradate non può costituire un alibi».
Come si manifesta concretamente questa assuefazione?
«In un disinteresse verso ciò che accade, in un deficit di partecipazione, infine in un’incoerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa. Ad esempio, si firmano appelli, o si va a votare, senza prendere nessuna informazione su ciò che si sta firmando o votando. Oppure, non si vota proprio, come è avvenuto per molte giovani donne nel caso del referendum sulla fecondazione. Purtroppo i diritti conquistati sono ereditati ma non ereditari, cioè li puoi perdere come li hai acquisiti».
Si tratta di un problema solo italiano?
«No, ma in Italia è più forte perché maggiore è da noi l’abitudine al degrado. Abbiamo superato, sul piano pubblico, ogni limite di decenza, eppure nulla desta più scandalo. Nemmeno la violazione dell’immagine della donna e del suo corpo, nell’acquiescenza generale».
Quali sono, sul piano individuale, i sintomi di questa male?
«Si tratta di una vera e propria regressione nell’ambiguità, nell’apatia affettiva, nell’inerzia e nella promiscuità. Magari si ostenta il proprio scontento, ma non ci si sottrae a tutte quelle collusioni che mantengono in piedi il sistema: egoismi, narcisismi, complicità marginali col potere, clientelismo, omissioni, indifferenza».
Che spiegazione dà di questi atteggiamenti?
«Nascono dal tentativo di evitare il conflitto, il rapporto con le cose che non ci piacciono o con le persone che ci contestano, e di eludere sia la fatica della differenziazione e della chiarificazione della propria identità, sia quella della coerenza con ciò che si è. Ciò ha conseguenze molto negative anche nei rapporti tra uomo e donna, le cui differenze si attenuano, ma non in direzione della parità. Il tentativo di evitare il confronto con la differenza produce un eccesso di tenerezza morbosa, a scapito della passione, e una regressione nell’ambiguità. Che è tutt’altra cosa dall’ambivalenza, quel sentimento che ci consente di essere consapevoli di poter provare amore e insieme odio verso una stessa persona».
Come intervenire, allora?
«L’unico argomento che ho, come terapeuta, quando denuncio i meccanismi dell’ambiguità è che si tratta di un cattivo affare. Certo, si evita la fatica e il dolore della coerenza, ma si resta rabbiosi e annoiati. Purtroppo, però, a noi analisti oggi viene solo chiesto solo di lenire, consolare, se non addirittura psicologizzare il disagio sociale. Ad esempio, facendo fare una psicoterapia ad una persona licenziata, perché accetti questa situazione, mentre dovrebbe solo scendere in piazza a gridare la sua giusta rabbia e mettere in atto forme dure e coraggiose di protesta».
Il silenzio delle donne? Colpisce e ferisce. Ma ad essere silenti non sono solo le donne: anche i giovani, e in generale tutta la società civile. Per questo, per capire perché le donne non si indignano bisogna capire perché noi tutti non ci indigniamo più».
Simona Argentieri, psicoanalista, docente dell’Associazione italiana di psicoanalisi e attenta osservatrice delle patologie a cavallo tra individuo e società, interviene nel dibattito aperto da Nadia Urbinati e continuato da Lidia Ravera, ma ripete che il vero problema è il generale spegnersi del dissenso, sia sul piano privato che su quello sociale e politico.
«Il fatto è che la protesta costa, come il tentativo di restare coerenti con le proprie idee. Protestare significa inoltre configgere, mentre oggi non sopportiamo più né la sofferenza né il conflitto. Così, le passioni forti si attenuano, e quindi anche i più beceri fatti di cronaca non ci fanno indignare».
Come si è persa la capacità di indignazione?
«Il dissenso non è scomparso dalla mente delle persone. Purtroppo, si è esaurita la spinta propulsiva al cambiamento, perché le persone hanno perso fiducia nel fatto che il loro agire possa produrre un mutamento. Ma il cambiamento può venire unicamente da noi. E l’assuefazione a cose sempre più degradate non può costituire un alibi».
Come si manifesta concretamente questa assuefazione?
«In un disinteresse verso ciò che accade, in un deficit di partecipazione, infine in un’incoerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa. Ad esempio, si firmano appelli, o si va a votare, senza prendere nessuna informazione su ciò che si sta firmando o votando. Oppure, non si vota proprio, come è avvenuto per molte giovani donne nel caso del referendum sulla fecondazione. Purtroppo i diritti conquistati sono ereditati ma non ereditari, cioè li puoi perdere come li hai acquisiti».
Si tratta di un problema solo italiano?
«No, ma in Italia è più forte perché maggiore è da noi l’abitudine al degrado. Abbiamo superato, sul piano pubblico, ogni limite di decenza, eppure nulla desta più scandalo. Nemmeno la violazione dell’immagine della donna e del suo corpo, nell’acquiescenza generale».
Quali sono, sul piano individuale, i sintomi di questa male?
«Si tratta di una vera e propria regressione nell’ambiguità, nell’apatia affettiva, nell’inerzia e nella promiscuità. Magari si ostenta il proprio scontento, ma non ci si sottrae a tutte quelle collusioni che mantengono in piedi il sistema: egoismi, narcisismi, complicità marginali col potere, clientelismo, omissioni, indifferenza».
Che spiegazione dà di questi atteggiamenti?
«Nascono dal tentativo di evitare il conflitto, il rapporto con le cose che non ci piacciono o con le persone che ci contestano, e di eludere sia la fatica della differenziazione e della chiarificazione della propria identità, sia quella della coerenza con ciò che si è. Ciò ha conseguenze molto negative anche nei rapporti tra uomo e donna, le cui differenze si attenuano, ma non in direzione della parità. Il tentativo di evitare il confronto con la differenza produce un eccesso di tenerezza morbosa, a scapito della passione, e una regressione nell’ambiguità. Che è tutt’altra cosa dall’ambivalenza, quel sentimento che ci consente di essere consapevoli di poter provare amore e insieme odio verso una stessa persona».
Come intervenire, allora?
«L’unico argomento che ho, come terapeuta, quando denuncio i meccanismi dell’ambiguità è che si tratta di un cattivo affare. Certo, si evita la fatica e il dolore della coerenza, ma si resta rabbiosi e annoiati. Purtroppo, però, a noi analisti oggi viene solo chiesto solo di lenire, consolare, se non addirittura psicologizzare il disagio sociale. Ad esempio, facendo fare una psicoterapia ad una persona licenziata, perché accetti questa situazione, mentre dovrebbe solo scendere in piazza a gridare la sua giusta rabbia e mettere in atto forme dure e coraggiose di protesta».