mercoledì 10 febbraio 2010

Lo sguardo DIVERSO

di Rossana Rossanda, da Il Manifesto on line


In «Quartetto per masse e voce sola» di Biancamaria Frabotta e in «Mondo privato e altre storie» di Marta Dassù, riflessioni su di sé di due autrici fuori dall'ordine simbolico corrente
Ma come siamo, noi donne nell'Italia del 2000? Quelle del ceto medio acculturato, spesso ma non sempre single, spesso ma non sempre madri, spesso interessate a un sapere, a una competenza e talvolta a una causa - insomma né casalinghe né escort né rese cadaveri da congiunti e correligionari? Eppure siamo molte, donne sessuate ma già fuori dal «patriarcato» se, come penso, la prima liberazione sta nel costruirsi a prescindere dall'uomo che avremo o non avremo, e quindi dall'architrave dell'ordine simbolico corrente. Cosa non semplice, perché si dispiegano le domande sull'io e sul senso. Sono in gran parte itinerari di solitudine ma non di infelicità. Ne testimoniano, uscite quasi assieme, due riflessioni su di sé di autrici assai diverse.


La prima è di un'amica, Biancamaria Frabotta, della quale Donzelli ha pubblicato Quartetto per masse e voce sola. Biancamaria è poeta. Sulla poesia non oso metter becco, la ascolto, e di lei ho ascoltato molto, da Rumore bianco a Affeminata, L'albero del pane e soprattutto Viandanza. Quartetto è scritto in prosa, ma la parola e le scansioni hanno la pregnanza dei versi - cosa di cui discute, in assai parziale accordo - con Maria Zambrano.
Quartetto è una scrittura su di sé. Non un'autobiografia ma, ci avverte, un autoritratto, un cogliersi nella luce di ora; domani potrà essere diversa. E chi mostra? Una donna fra due secoli, Novecento e Duemila, che cresce in provincia e che la famiglia spinge a realizzarsi - inconsueto ma non più infrequente. Dal padre riceve il comando di leggere e di essere proprio lei, lei con nome e cognome, Biancamaria Frabotta, come nella dedica dei libri che le acquista. È una legge cui si può stare. Ci sono anche una madre bellissima e due sorelle, che ricordo assieme in un rosso tramonto romano, alte, dritte e con un'aria vagamente regale. Biancamaria porta, su un invidiabile collo, il profilo piegato verso chi le parla, come chi è avvezzo a guardare in giù. Come molte bambine si è interrogata sulla sua identità, e adolescente quel suo corpo nordico e in apparenza saldo, in verità fragile, l'ha messa a disagio. Forse per questo la sua voce ha un timbro sommesso, come se avanzasse incerta, il che è del tutto lontano dall'essere vero.
Crescere vuol dire leggere. Diffidava dei compendi da somministrare ai giovanissimi - anche io detestavo la Scala d'Oro - perché i primi libri si divorano cercando risposte per sé. Oscilla un poco fra Marigold e la Sirenetta lacerata di Andersen, e poi subito un salto fra i grandi. E in quella specie di libro prepotente e affascinante - luci, pietre, scritte; frastuono di passati e presenti - che è Roma. Tutta diversa da Civitavecchia, è il luogo vero della vita, la città dove troverà la sua strada. Anche in senso proprio, via Ripetta, dove convengono i nuovi poeti, scoperte, legami, tensioni e soprattutto lo scrivere. Scrivere versi.
Aveva cominciato con un gran lavoro sul Cattaneo, del quale Editori Riuniti le avevano perduto (e ne è ancora risentita) l'unica copia, quasi a indicare che il destino era un altro. E prima o accanto Biancamaria è stata una sessantottina, subito femminista e autrice di un Lessico delle donne recentemente ripubblicato. Ma del femminismo in Quartetto non dice, limitandosi a pubblicare la lettera che le indirizza una compagna che distribuisce ancora volantini, e alla quale non sappiamo che cosa abbia risposto. Forse quella percezione affatto diversa dell'esser donna è cosi introiettato che non occorre parlarne. Quel che accenna è che a un certo punto si è rovesciata come un guanto, passaggio in cui un amico perduto l'ha aiutata.

La sigla di Biancamaria
La ricordo sola in una casa semivuota, dopo aver suggerito alle amiche che se proprio volevano portar qualcosa, portassero un classico da biblioteca di base. Ora i suoi scaffali sono pieni e tutt'altro che di base. Da lei ci siamo trovati una sera appena sequestrato Moro, con Manuela Fraire e Johnny Jervis, a farci mille domande che, sempre prendendoci in contropiede, Biancamaria non affrontava in un libretto sugli anni settanta scritto assieme ad altri. Forse nello stesso periodo, con lei, Luisa Boccia, Manuela Fraire, Giuseppina Ciuffreda, Anna Forcella e Franca Chiaromonte facemmo un mensile, fra donne differenti e fra loro diffidenti, che si chiamava «Orsaminore», e lei scelse per prime alcune pagine di Karen Blixen, il cui senso era che per le donne conta più il fare che l'essere. O viceversa? Io non ho capito bene né allora né ora, convinta con Sartre che siamo quel che facciamo (con qualche residuo).
Certo da allora Biancamaria insegna all'università di Roma letteratura italiana contemporanea, ha un vero rapporto con i suoi studenti, ed è poeta - poeta prima di tutto, in un paese poco attento alla poesia. Che leggeva per piazze negli anni '70 e ora per sale e volando fra i continenti, dando voce a se stessa, a coloro che ama e fra i quali ha prediletto, mi sembra, Sandro Penna e Amelia Rosselli. Ma l'ho vista trattenere la commozione quando Giovanni Giudici, invitato a un convegno da lei indetto sulla malinconia - naturalmente mediata dal saggio di Robert Burton - ci lesse Le ore migliori.
Sono i testi che, arrivandoci, non solo fanno la storia interiore, ma selezionano quel che del mondo ti parla. Questa è la sigla di Biancamaria. Resta segnata nel profondo attraverso una scrittura, sua o di altri. Dal reale elaborato dall'esperienza interna e tradotto in una espressione. Anch'essa elabora ed esprime, è questa la voce sola in contrappunto alle masse orchestrali, interrogata da esse, raccolta e abbandonata, isolata ed esposta.
Dal Quartetto prendo due soli esempi. Il primo è il mondo operaio, il cui rumore le rimbombava attorno col 1968, ma che sente molto più tardi, dalle pagine di diario di Simone Weil nel 1934. La ragazza dai grandi occhiali alla ricerca assoluta di assoluti, Dio incluso, ha lavorato quell'anno alla Renault per conoscere la condizione operaia. Lei è sempre andata a vedere, come nella guerra civile spagnola, e se ha esitato fra ebraismo e cristianesimo, è per misurare la assolutezza di Dio. In quel 1934, due anni prima del Fronte Popolare, il lavoro in fabbrica è durissimo, retribuito ferocemente in centesimi per ogni ora e minuto e a seconda del pezzo, ogni giorno è una scommessa con la propria resistenza. Lei fatica ed è povera come loro, ma gli operai sentono la differenza con chi, come Simone, può lasciare. Quando Biancamaria me ne parla, ho un bel dirle che la ferocia è rimasta ma non consiste nella durezza fisica, la fabbrica non è più la stessa. Per la poetessa quel lavorare estremo, fatica pura, inumana è la condizione operaia, come è fissata nelle parole di Simone Weil.
Secondo esempio è l'intervista mancata con Christa Wolf. Un paio di settimane prima che abbattano il Muro di Berlino - e già un incidente ha avuto luogo con la polizia - Biancamaria va e viene fra le due parti della città divisa senza sapere naturalmente quel che sta accadendo, né capire perché la scrittrice dell'est non si trova, non si fa trovare. L'italiana vaga per ore attorno ad Amalienpark dove non si apre una finestra né si scosta una tenda, si fa rubare i marchi pesanti avuti al cambio nella Rft, perderà un disegno che le piace - tutto un fiasco, insomma. Non sa che Christa è nell'uragano, non può sapere che sta vedendo una fine d'epoca. Ma le sue pagine trasmettono l'intervallo prima dell'esplosione, vuoto di senso, tempo vuoto.
Ricordo un pezzo di Calvino sul primo «menabò», credo del 1963: «Nel mare dell'oggettività». Giusto, che cosa è l'oggettività?

Marta dai molti anagrammi
Non potrebbe essere più diversa Marta Dassù. Lei e Biancamaria non si conoscono, frequentano altri mondi, né Marta conosce, credo, i versi che Biancamaria ha scritto sul suo nome, Marta dai molti anagrammi. Sua madre abitava di fronte a noi nella Milano negli Anni Cinquanta, studiava con mia sorella e sarebbe diventata campione olimpionico di tennis, o qualsivoglia competizione di quel nobile sport, se non si fosse innamorata di Elio. Ed Elio sarebbe diventato avvocato se non avesse voluto sposare Piera. In quel tempo l'innamorato d'una figlia di industriali doveva essere un industriale. Così ambedue hanno calpestato per amore il proprio sogno come in una favola. E le è rimasta la provocazione, disprezzare ad alta voce la scuola e il costume, definirsi dispettosamente «possidente» o «capitalista», lo stupire le figliette: Mamma, perché ti vesti da donna solo la sera? Anche la giovane Marta si merita una fotografia sulla «Gazzetta dello sport», l'ha allevata la madre, look sportivo, scarpe basse, capelli corti, avanti con l'indipendenza. Così, finito ingloriosamente il tentativo adolescenziale di ammalarsi per attirare l'attenzione su di sé, Marta lascerà Firenze e l'amata famiglia per scendere scomodamente a Roma, studiare con Giuliano Procacci, scoprire il diritto internazionale e infine lavorare al Cespi, l'istituto di studi esteri prima del Pci poi Pds poi Ds.
E diventa una grande esperta. Per farla corta, ci vorrebbe una intera pagina per elencare i capi di stato e i ministri degli esteri con i quali Marta ha avuto a che fare, prima come consigliere di Massimo d'Alema, e poi direttrice dell'Aspen Institute, anche quando ne diventa presidente Tremonti. Lei è di sinistra, come erano i suoi, perché laica e di sinistra era allora la gente seria. Ma senza passione incrocia l'ex Pci in piena mutazione, è il diritto internazionale che le interessa, lo pensa come una scienza.

Sempre un poco da parte
Ormai lavorare per un partito è una libera professione. Marta sta con l'uomo che voleva senza preoccuparsi di matrimonio, si è fatta una casa comoda ma tutta di stanze personali, ha una figlia che non si chiama cosi, ma che lei chiama Ottilia, anzi Otti, per via delle Affinità elettive. E la tira su come è stata tirata su lei, per cui a un ricevimento Otti, a Kissinger che le chiede «Ti è piaciuto il mio discorso» risponde educatamente «No. Mi sono addormentata». Ci sono stati nel suo percorso anche episodi surrealisti, come quando è stata spedita al congresso di un partito comunista indiano e vi ha elogiato Gorbaciov, ignara che quel partito lo considerava un bieco traditore, ma beccandosi ugualmente uno scroscio di applausi fraterni. Insomma Marta Dassù frequenta chi decide dei destini del mondo, ma del potere non si cura affatto, si tiene sempre un poco da parte, e una sola cosa la terrorizza, dover fare un discorso.
Scritto con eleganza e un filo d' ironia, Mondo privato e altre storie (Bollati Boringhieri 2009) non è né una memoria privata né un saggio di politica estera. È un genere a parte, dove i piani della vita convivono e si interrogano, con un certo understatement, su cose ultime. Perché poi si chiede se quel suo sapere sia una chiave per capire dove va il pianeta. Siamo nel 2009 e ne dubita. Senza schiamazzi, ma un diplomatico maschio non lo metterebbe nero su bianco. È lo sguardo delle donne di cui parlava Angela Putino. Non una dimensione emozionale, ma un'altra razionalità.

Percezioni fantasmatiche
Marta ha creduto nel nuovo ordine mondiale del dopo '89. Ma troppe cose non hanno funzionato. Sarà per la distanza immensa fra chi decide del mondo e il mondo che ne subisce le decisioni, per cui ogni previsione risulta infondata? O perché ciascuna parte segue la percezione che ha dell'altra senza interrogarsi se non sia, per caso, fantasmatica? Ne segue un gioco sciagurato di illusioni e di sangue. Era giusto, non lo era? Marta non aggiunge che certe illusioni antivolontaristiche, come quella della mano invisibile del mercato, ci hanno spinto in un ginepraio dal quale non si riesce a tirarsi fuori e proprio mentre i socialismi reali sono andati in pezzi.
Ma non importa. Siamo di fronte a una libera donna che, nello scrivere come nel vivere, tiene tutto assieme e ne deriva una libertà di sguardo che la fa riflettere come finora, mi pare, nessun ministro abbia fatto.

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