di Laura Pennacchi, da L'Unità on line
Nella polemica che ancora di recente è tornata a dividere il ministro Tremonti dagli “economisti” (accusati di non aver saputo prevedere la drammatica crisi economica in corso), c’è qualcosa di importante che l’uno e gli altri sottovalutano. Si tratta di questo: la crisi, le cui gravi conseguenze occupazionali stanno adesso emergendo chiaramente, non parla solo di se stessa ma di un intero modello di sviluppo che mostra oggi tutta la sua fragilità e che si sta esaurendo. È un complessivo paradigma economico che va ripensato dalle fondamenta.
Questo bisogno di andare al cuore della vicenda odierna è oscurato tanto dalla supponenza («chi pensa non ha bisogno di un pensatoio») con cui Tremonti mira a coprire la sostanziale inerzia del governo in politica economica – confermata dalla totale assenza di respiro progettuale della Finanziaria di settembre –, tanto dalle argomentazioni a propria discolpa a cui amano ricorrere soprattutto gli economisti più vicini all’ortodossia dominante. I quali hanno un bel dire che èda trent’anni che essi studiano i fallimenti dei mercati finanziari, le bolle speculative, le asimmetrie informative, le crisi di liquidità. Il punto è che tutte queste cose sono state da essi studiate come imperfezioni, frizioni, deviazioni, shock esogeni di modelli di mercato che si pensava immuni da incertezza e instabilità e in grado di correggersi da soli.
A far trovare particolarmente sguarniti alla bisogna è stata poi la marginalizzazione di punti di vista diversi e di programmi di ricerca alternativi provocata proprio dal dogmatismo con cui l’ideologia neoliberista si è affermata nella scienza economica standard. E questo chiama in causa le responsabilità degli economisti ben al di là della loro incapacità di previsione. Quello che va ripensato è il paradigma della main stream economics, la quale si è proposta, più che come “strumento d’interpretazione della realtà”, come “supporto di visioni del mondo molto orientate”, escludendo fenomeni significativi di squilibrio e rendendodifficile la comprensione del ruolo dei meccanismi finanziari, visioni in cui i mercati sono supposti intrinsecamente stabili, con deviazioni solo temporanee, e in cui gli agenti economici agiscono come omogenei Robinson Crusoe, ignari tanto della profonda instabilità, quanto della larga eterogeneità e della estesa interazione tra attori, come invece avviene nel mondo economico reale. Ciò ha coinvolto anche e soprattutto i mercati del lavoro, a priori modellizzati in modo irrealistico allo scopo di introdurvi “frizioni” e “imperfezioni” da cui inferire implicazioni di elevata flessibilità, salariale e in entrata e in uscita, e di contrasto del potere sindacale. E in effetti l’alterazione delle regole di funzionamento del mercato si è rivelata una causa decisiva dello spostamento nella distribuzione del reddito, motore cruciale della attuale crisi.
Nella polemica che ancora di recente è tornata a dividere il ministro Tremonti dagli “economisti” (accusati di non aver saputo prevedere la drammatica crisi economica in corso), c’è qualcosa di importante che l’uno e gli altri sottovalutano. Si tratta di questo: la crisi, le cui gravi conseguenze occupazionali stanno adesso emergendo chiaramente, non parla solo di se stessa ma di un intero modello di sviluppo che mostra oggi tutta la sua fragilità e che si sta esaurendo. È un complessivo paradigma economico che va ripensato dalle fondamenta.
Questo bisogno di andare al cuore della vicenda odierna è oscurato tanto dalla supponenza («chi pensa non ha bisogno di un pensatoio») con cui Tremonti mira a coprire la sostanziale inerzia del governo in politica economica – confermata dalla totale assenza di respiro progettuale della Finanziaria di settembre –, tanto dalle argomentazioni a propria discolpa a cui amano ricorrere soprattutto gli economisti più vicini all’ortodossia dominante. I quali hanno un bel dire che èda trent’anni che essi studiano i fallimenti dei mercati finanziari, le bolle speculative, le asimmetrie informative, le crisi di liquidità. Il punto è che tutte queste cose sono state da essi studiate come imperfezioni, frizioni, deviazioni, shock esogeni di modelli di mercato che si pensava immuni da incertezza e instabilità e in grado di correggersi da soli.
A far trovare particolarmente sguarniti alla bisogna è stata poi la marginalizzazione di punti di vista diversi e di programmi di ricerca alternativi provocata proprio dal dogmatismo con cui l’ideologia neoliberista si è affermata nella scienza economica standard. E questo chiama in causa le responsabilità degli economisti ben al di là della loro incapacità di previsione. Quello che va ripensato è il paradigma della main stream economics, la quale si è proposta, più che come “strumento d’interpretazione della realtà”, come “supporto di visioni del mondo molto orientate”, escludendo fenomeni significativi di squilibrio e rendendodifficile la comprensione del ruolo dei meccanismi finanziari, visioni in cui i mercati sono supposti intrinsecamente stabili, con deviazioni solo temporanee, e in cui gli agenti economici agiscono come omogenei Robinson Crusoe, ignari tanto della profonda instabilità, quanto della larga eterogeneità e della estesa interazione tra attori, come invece avviene nel mondo economico reale. Ciò ha coinvolto anche e soprattutto i mercati del lavoro, a priori modellizzati in modo irrealistico allo scopo di introdurvi “frizioni” e “imperfezioni” da cui inferire implicazioni di elevata flessibilità, salariale e in entrata e in uscita, e di contrasto del potere sindacale. E in effetti l’alterazione delle regole di funzionamento del mercato si è rivelata una causa decisiva dello spostamento nella distribuzione del reddito, motore cruciale della attuale crisi.